Premessa
La riflessione sull’autonomia differenziata al tempo del Governo Meloni, se inquadrata nell’insieme delle politiche del Governo e delle posizioni presenti nell’attuale Parlamento, aiuta a configurare il quadro complessivo dei cambiamenti strutturali della Repubblica, con lo stravolgimento definitivo dell’equilibrio dei poteri e la convalida della torsione autoritaria già in atto.
Le ripercussioni sulle condizioni di vita delle persone sono di portata devastante sul piano dei diritti sociali e delle garanzie democratiche; ogni elemento disgregatore aggrava una situazione già evidenziata da tutti gli indicatori, che ci restituiscono l’immagine di una società disgregata, intrisa di solitudine e di incertezza, dominata da un pensiero incentrato sulla competizione.
Per questo è essenziale ricucire il nesso fra l’aspetto giuridico-istituzionale, i bisogni materiali e le istanze di partecipazione alla vita democratica.
Autonomia differenziata e presidenzialismo: un’apparente contraddizione
Il regionalismo spinto è nel programma di questo Governo (ma anche dei precedenti) e ha avuto una immediata e plastica evidenza nel profilo della compagine governativa con l’affidamento del “Ministero degli Affari regionali e Autonomie” a Calderoli, “caterpillar” dell’autonomia differenziata, già ministro della “devolution” al tempo di Berlusconi, noto per le sue uscite razziste e omofobe, titolare di una legge elettorale da lui stesso definita una “porcata”. La persona giusta a cui affidare la riscrittura dell’impalcatura dello Stato.
C’è da dire che le posizioni dei partiti interni al Governo non sono del tutto sovrapponibili: Fratelli d’Italia storicamente ha una visione centralista e in passato era per l’abolizione delle regioni; Forza Italia non ha mai nutrito simpatia verso il regionalismo, tant’è che durante i suoi governi Berlusconi non ha incoraggiato né dato seguito alle mire autonomiste; a reclamare con vigore l’autonomia differenziata è la Lega, con i suoi presidenti di regione del Nord.
La sintesi è sul reciproco impegno a portare a casa (loro) il presidenzialismo in cambio del regionalismo. Se entrambi i progetti andassero in porto avremmo una Repubblica che muta la sua natura parlamentare e una serie di piccoli stati regionali in competizione fra loro e in trattativa con il governo centrale per accaparrarsi funzioni e risorse. Entrambi i disegni, in contrasto con la Costituzione nata dalla Resistenza, già manomessa in più punti sia formalmente (solo per fare due esempi, la modifica dell’art.81 che ha introdotto l’obbligo dell’“equilibrio di bilancio”, e la riforma del Titolo V, varata dal centro-sinistra, che ha spericolatamente aperto il varco allo smembramento del Paese) sia nella sostanza, con le politiche in contrasto con i principi e i diritti etico-sociali fondamentali (artt. 2,3, 11, 33…). Entrambi i livelli, nazionale e regionale, con poteri accentratori, in barba alle istanze di partecipazione democratica e di nuove forme di municipalismo.
La bozza di Legge Calderoli
Il ministro Calderoli presenta la sua bozza di legge “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”, prima privatamente in un incontro con i presidenti delle regioni del Nord firmatari delle “pre-intese” stipulate con il Governo Gentiloni nel 2018, poi al Tavolo delle Regioni, all’esito del quale riceve critiche diffuse e dure prese di posizione da parte di presidenti delle regioni meridionali e distinguo dai suoi stessi alleati di governo, al punto che il Presidente Meloni, convoca un vertice immediato nel quale ribadisce che il regionalismo non può precedere gli altri due obiettivi di riforma istituzionale del centrodestra, bandiere di Fratelli d’Italia: il semipresidenzialismo e i poteri speciali per Roma.
La bozza Calderoli viene immediatamente da lui stesso declassata ad “appunti di lavoro”; tuttavia è utile rilevarne i principali aspetti, cioè i punti dai quali partirà la discussione nel Consiglio dei Ministri, sui quali si attesta la posizione dei presidenti delle regioni Veneto e Lombardia e presumibilmente la campagna elettorale di quest’ultimo alle prossime regionali.
In particolare:
- sono oggetto di assegnazione di competenze legislative e amministrative e di ulteriori particolari forme di autonomia tutte le 23 materie enunciate nella riforma del titolo V – artt. 116 e 117 (dai rapporti internazionali al commercio con l’estero, alla sanità, istruzione, infrastrutture, comunicazione, previdenza, beni culturali e ambientali, alimentazione …).
- Il Parlamento è relegato al ruolo di “mera approvazione” (sic!), mentre la centralità e la titolarità del processo di autonomia sono in capo al Ministro e alle regioni stipulanti;
- sono fatti salvi gli atti di intesa già siglati;
- tranne per alcune materie, viene confermata la “spesa storica”, cioè il criterio truffaldino con il quale in questi anni si sono sottratti miliardi di euro al Sud, in previsione dei LEP, che tuttavia non sono condizione vincolante (c’è da dire che i LEP -livelli essenziali delle prestazioni – non garantiscono affatto l’uguaglianza delle prestazioni);
- le risorse finanziarie, umane e strumentali da assegnare alla Regione per l’autonomia sono determinate da una Commissione paritetica Stato-Regione, così come il monitoraggio e le eventuali modifiche;
- l’attuazione della legge non contempla maggiori oneri a carico della finanza pubblica, quindi se una regione ottiene maggiori risorse, lo fa a discapito delle altre.
È chiaro che si tratta di un progetto fondato su una visione eversiva dei principi di eguaglianza dei diritti e della coesione sociale e territoriale.
Il fronte dell’opposizione politica e sociale
Oltre alle contraddizioni interne al Governo, per esempio le dichiarazioni di posizione del Ministro Valditara all’incontro con i sindacati della scuola (“Non è all’ordine del giorno, ci sono altre priorità”) e a qualche flebile pronunciamento dei parlamentari dell’opposizione, vi sono importanti prese di posizione da parte di presidenti di Regione, De Luca in Campania ed Emiliano in Puglia, e di alcuni sindaci, prevalentemente del Sud. Il Movimento 5 Stelle stenta a farne un proprio punto di lotta politica; il PD ha una posizione ambigua con imbarazzanti uscite di alcuni suoi autorevoli esponenti che rivendicano la paternità della riforma del 2001 (Fassino in una recente intervista al Corriere della Sera); d’altra parte l’autonomia differenziata è figlia di un Governo di centrosinistra e Bonaccini è firmatario di una delle famigerate intese, in qualità di Presidente della Regione Emilia Romagna.
L’orizzonte dell’opposizione politica parlamentare è attestato sulla critica agli aspetti più devastanti dell’autonomia differenziata, raramente sull’opposizione all’impianto della riforma del titolo V e alla necessità di porvi mano in modo deciso e inequivocabile.
Sul piano sociale vi è la ripresa della mobilitazione, se pure non (ancora?) nelle forme di massa, anche per la sordina attuata da tempo dai media e dagli attori in gioco, solo di recente attenuata a seguito del cambio di governo.
Rifondazione Comunista, Unione popolare e il movimento contro il regionalismo differenziato
Rifondazione Comunista, che già nel 2001 votò contro quella modifica costituzionale, è da sempre mobilitata contro questo progetto scellerato e dal 2018 è interna alle lotte che hanno contribuito a rallentarne il processo.
Siamo tra i fondatori del “Comitato contro ogni autonomia differenziata, per l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei diritti” e attivi nei comitati per la Democrazia Costituzionale e nel Tavolo No Autonomia differenziata, che raggruppa numerose sigle sindacali, della sinistra politica e di movimento.
Il contesto è estremamente problematico: la crisi economica, sociale, sanitaria e anche bellica sta impoverendo ulteriormente intere fasce sociali; i processi disgregativi sono già in stato avanzato (basti pensare alla pandemia gestita dalle Regioni); lo stesso PNRR presenta numerose distorsioni a svantaggio delle zone più deprivate; si profila la desertificazione sociale di una parte importante del Paese, quel Mezzogiorno scomparso dalla Costituzione modificata, dall’agenda politica e dalle nostre stesse priorità. Con l’autonomia differenziata sarà il primo, ma non il solo, a pagare il prezzo più duro.
Ora il rischio che la situazione precipiti in tempi brevi è notevole e richiede tutta la nostra capacità di iniziativa sugli obiettivi: nell’immediato, far naufragare la proposta governativa anche in relazione alle altre questioni istituzionali; in prospettiva, modificare le storture costituzionali.
Nella scorsa legislatura, con le deputate di ManifestA e alcuni senatori, avevamo presentato una proposta di legge per l’eliminazione secca del comma 3- art 116. Ora si tratta di verificare la possibilità di affidarla a chi potrebbe efficacemente sostenerla.
Nelle ultime settimane ha fatto irruzione anche sui mezzi d’informazione la proposta di legge d’iniziativa popolare (già presentata in primavera a cura di un gruppo di costituzionalisti, primo firmatario il prof. Villone) promossa dal Comitato per la Democrazia Costituzionale e dai sindacati della Scuola.
Il testo si pone la finalità di modificare gli artt. 116 e 117 della Costituzione in modo da limitarne i danni più gravi: si riducono a 16 le materie, escludendone alcune come scuola, trasporti nazionali, parte della sanità; si restituisce un ruolo al Parlamento, si pongono alcuni vincoli, prevedendo la possibilità di referendum e il riferimento a livelli “uniformi” delle prestazioni (LUP).
Pur apprezzando lo sforzo di ostacolare gli effetti più dannosi, non possiamo nasconderci alcuni rischi a cui la LIP si espone, a cominciare dalla scarsa possibilità che non ne esca mutata da un Parlamento fortemente connotato a destra e con un’opposizione parlamentare in parte favorevole all’autonomia differenziata. Inoltre, lasciare in capo alle regioni la potestà legislativa e amministrativa della maggior parte delle materie, alcune delle quali di non secondaria importanza, come l’alimentazione, il commercio con l’estero e i rapporti internazionali, significa aprire una breccia che potrebbe rivelarsi estremamente pericolosa.
Riconosciamo tuttavia che la LIP può contribuire a far uscire il tema dal cono d’ombra in cui era relegato, pur consapevoli della diversità di posizioni su un punto fondante: la critica all’impianto del titolo V e l’avversione alla differenziazione, che in qualsiasi forma porta in sé la disuguaglianza.
Per questo Rifondazione Comunista deve essere impegnata in tutte le iniziative in campo, a livello nazionale e territoriale, autonomamente e all’interno dei movimenti, a partire dal Tavolo No A.D., contro le politiche del Governo.
Il tema del regionalismo deve intrecciarsi con le campagne sociali promosse dal partito e da Unione popolare contro le misure antisociali e autoritarie del Governo; contemporaneamente deve diventare un punto per l’elaborazione della proposta politica complessiva, che affronti la questione dell’assetto della Repubblica e dell’equilibrio di poteri e competenze dei diversi livelli istituzionali, nella prospettiva di un allargamento della partecipazione democratica, della coesione territoriale e della perequazione sociale.
Dal Mezzogiorno può partire una campagna popolare che parli a tutto il Paese.
Tonia Guerra – responsabile campagna NO Autonomia differenziata del Partito della Rifondazione Comunista – SE
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