Sei anni di Rifondazione a Firenze

La traccia seguita come “saluto” all’avvio dei lavori congressuali, del Segretario provinciale uscente Dmitrij Palagi. Il giorno successivo è stato eletto come nuovo segretario Lorenzo Palandri: altre info qui.

Care compagne e cari compagni,

Questa è la mia ultima occasione di introdurre i nostri lavori da segretario provinciale, quindi userò l’occasione per ringraziarvi, rubando alcuni minuti alla nostra due giorni di congresso provinciale.

In un discusso fumetto di fine secolo scorso, che graficamente ricostruisce la leggenda della battaglia delle Termopili, c’è un passaggio che ha sicuramente segnato la mia immaginazione: dice che non ci dovrebbe essere spazio per la tenerezza, nella dimensione pubblica, quindi provo a usare questa improbabile citazione della mia infanzia per impegnarmi a non dare spazio alle lacrime che in questi giorni ho sentito avrebbero potuto far parte dei nostri lavori.

Da questa estate, come ormai molte persone di voi sanno, mi capita spesso di unire le persone all’interno di Palazzo Vecchio: ogni volta mi ritrovo a consegnare delle parole di Benigni sulla felicità, scelte dal Comune di Firenze. Sfruttando quanto ha scritto Marc Augé, provo a specificare che non c’è nessun obbligo a doversi dire felici, mentre si dovrebbe sempre cercare di vivere al meglio possibile i momenti delle nostre vite. In apparenza potrebbe sembrare esserci poco di politico in questo ragionamento, invece sono convinto dell’importanza di avere questa consapevolezza anche nel nostro sforzo di essere e costruire una futura umanità, libera dallo sfruttamento e dalle iniquità.

I sei anni in cui ho svolto l’incarico che mi avete affidato sono stati e saranno un riferimento di momenti positivi in questo senso, perché ho sentito di essere al servizio di una comunità in cui abbiamo tentato di stare insieme fuori dalle dinamiche che governano il tempo presente.

In alcune occasioni ho perso la pazienza e vorrei scusarmi in questo caso per aver detto cose sbagliate: essere un dirigente del partito ha sempre voluto dire dover fare il massimo per essere utile alla nostra organizzazione, quindi anche nei momenti di maggiore stanchezza avrei dovuto avere più cura di questa consapevolezza.

I 30 anni di Rifondazione Comunista sono anche i 30 anni della nostra realtà provinciale, dove abbiano cicatrici legate a scissioni e divisioni interne. Tornano fuori, spesso. Non ci aiutano a svolgere al meglio la funzione per cui pratichiamo le nostre militanze quotidianamente: costruire conflitti, unire le lotte, organizzare un’alternativa di società che superi in positivo lo stato di cose presenti.

Sono convinto che dobbiamo accettarle, perché sono comunque parte di una storia di cui abbiamo bisogno: non è casuale l’incompatibilità del realismo capitalista con ogni ipotesi di futuro. L’avvenire è associato a un peggioramento delle condizioni di vita, appare un ineluttabile avvicinamento al disastro, sia esso ambientale o sociale.

Venti anni fa al sangue di Genova è seguito quello delle Torri Gemelle, poi sono arrivate le guerre in Afghanistan e in Iraq: nel frattempo nuove modalità di comunicare si sono diffuse, con una società in cui l’atomizzazione è il segno distintivo dei modi in cui stiamo insieme. Il tempo sembra mancarci, sgretolato in una costante corsa con cui affrontare le emergenze. Non pretendo di parlare a nome della mia generazione, ma è per me evidente quanto Rifondazione Comunista abbia smesso – a livello diffuso – di essere uno spazio in cui impegnarsi per l’ambiente e i diritti (sociali e civili), venendo accostata nell’immaginario collettivo a immagini spesso pensate in bianco e nero. Una cosa magari bella, ma superata, a cui si pensa – nel migliore dei casi – con nostalgia.

Quanto pesasse l’esperienza del socialismo reale sovietico nel dibattito interno al partito lo ho scoperto dopo: per me – ingenuamente – l’iscrizione a Rifondazione era il modo di poter dare una mano a scaricare i manifesti dalla sede. Non so chi ci fosse di voi quella sera, quando passando con la macchina, mentre tornavamo in Mugello, dissi ai miei genitori che avrei voluto essere parte di quella scena: uscivate dal Progresso ed è certo che non siamo la stessa organizzazione di 17 anni fa, ma non è cambiato il desiderio di poter essere utile.

In quei primi anni, quando abbiamo fatto nascere il Circolo Impastato, insieme a Umberto Santino e Giovanni Russo Spena, abbiamo parlato di criminalità organizzata e borghesia mafiosa: purtroppo non siamo andati avanti su quella tematica, altrimenti avremmo potuto inserirlo nelle letture di quanto avviene sul riciclo dei rifiuti e la strada regionale 429, in relazione alle concerie e al “sistema toscano” che appare dalle cronache della stampa di questi mesi. All’epoca circolavano voci sulla mia presunzione: le richiamo volentieri, perché studiando i Frati Minori (i francescani) mi sono imbattuto in questo paradosso. Se pensi di poter essere utile è chiaro che hai un’ambizione molto forte, forse più di chi magari si accontenta di un incarico e di vedersi realizzato individualmente. In questi sei anni mi avete fatto sentire utile.

Se ricostruisco tutto questo è perché vorrei leggere quello che abbiamo fatto con sincerità soggettiva, in modo che gli anni a venire possano essere ancora più importanti.

Quel Circolo Impastato ha espresso una parte significativa delle persone che sono state in Segreteria provinciale in questi sei anni: abbiamo iniziato il nostro mandato con il ritorno della Festa Nazionale di Rifondazione Comunista, che poi abbiamo garantito fino al 2020, con un’edizione che ha affrontato anche la sfida della pandemia.

Ci siamo riuniti a lungo una volta a settimana, con il Comitato Politico Federale che è diventato un luogo di condivisione importante, capace di riunirsi ogni mese, prima della Covid-19. L’emergenza sanitaria ha accentuato alcuni miei limiti soggettivi: è difficile per me delegare. Mi racconto che è perché mi dispiace chiedere aiuto, ma comunque è un elemento che con facilità può rappresentare un problema. Spero che da domani, con l’elezione dei nuovi organismi provinciali, inizi un nuovo modo di lavorare, ancora più condiviso, in cui sviluppiamo una rinnovata consapevolezza di cosa possa essere una comunità.

Spesso ci ritroviamo additati come una struttura “vecchia”, sia dalle persone che incontriamo durante i volantinaggi che dalle altre realtà con cui ci relazioniamo: “voi avete queste responsabilità”, “voi avete esaurito il vostro ruolo”, o in positivo “voi siete ancora un Partito”. In quel momento è chiara l’esistenza di un noi, di cui ancora non ci prendiamo abbastanza cura. Penso sia impossibile una torsione identitaria e settaria di Rifondazione Comunista, però esplicito che nella consapevolezza del noi ci deve essere lo sforzo di tenerlo aperto alla quotidianità in cui viviamo.

Lo facciamo anche quando ci ritroviamo all’interno delle istituzioni, garantendo la massima correttezza verso chi ha condiviso con noi la proposta elettorale e sforzandoci di lasciare sempre aperte le porte a ogni percorso di unità possibile, un’impostazione che sono convinto dovremo continuare a praticare, fuori dai tatticismi. Troppo spesso ci dimentichiamo che aspiriamo alla rivoluzione, come rottura radicale con il presente. Quando parliamo della Costituzione come rivoluzione promessa, dobbiamo anche ribadire la responsabilità di chi ha inserito all’interno di quella Carta il pareggio di bilancio, contraddicendo il senso stesso di quanto ci è stato lasciato dalla Resistenza.

All’interno di una comunità le differenze devono arricchirsi e non scomparire: però nella condivisione dell’obiettivo dobbiamo sempre ricordarci di riconoscerle e accettarle, sapendo che la lealtà è un modo di stare insieme.

Con le compagne e i compagni abbiamo ricoperto gli incarichi con importante coscienza, sapendo i livelli diversi delle responsabilità: la Segreteria provinciale ha sempre sostenuto le decisioni prese, senza mai votare, senza mai sottrarsi a ogni impegno che ci siamo assunti. Se talvolta ho dato l’impressione di dare per scontata la forza che ha saputo darmi il suo sostegno voglio qui chiedere scusa. Il Comitato Politico Federale non è stato da meno, specialmente quando si è trattato di prendere posizione per elezioni comunali di Firenze: quando siamo passati dall’ipotesi di una lista in solitaria al progetto unitario di Sinistra Progetto Comune, senza mai far venire meno la centralità delle nostre posizioni politiche e di priorità. Ogni appuntamento elettorale è per noi occasione di fare il punto di militanze costanti, interne ai movimenti e tese a ottenere il meglio per le nostre classi sociali di riferimento.

Le compagne e i compagni di Rifondazione attraversano le piazze con chiara riconoscibilità, anche quando siamo senza bandiere, dando un significato particolare al noi di cui parlavo.

Insieme abbiamo affrontato non poche delusioni e ci siamo però saputi togliere qualche soddisfazione: la cosa più importante è però essere qui, come partito, come spazio delegato dal voto di 219 compagne e compagni, in un quadro organizzativo che esprime il senso di essere partito, come strumento per agire nella società.

Non c’è alcuna “eredità” che viene lasciata, ma una fase nuova, segnata da una situazione pesante.

La vertenza della GKN e quella della Textprint ci ricordano l’essenza del capitale, come le devastazioni ambientali, per cui si tornerà in piazza il 24 settembre con il nuovo sciopero globale per il clima, indetto in chiave generazionale da realtà che hanno saputo ridare speranza, almeno in parte, all’opinione pubblica.

Il futuro è un posto strano è il titolo italiano di un romanzo pubblicato da poco nel nostro paese: parla di una donna che ricostruisce la sua vita dopo l’accusa del marito di abbandono del tetto coniugale. Ricostruisce una storia di impegno politico segnata dalla nostalgia, quasi dal rimpianto. Mi ha ricordato la frase di una persona che, avendomi visto entrare in un ascensore carico di bandiere, disse che quell’immagine gli dava il sapore di un bel passato: c’era, per me, in quelle parole, molta dolcezza e al tempo stesso un senso di sconfitta, di cui dobbiamo definitivamente liberarci, perché è sintomo di una rinuncia al futuro.

Voler essere un’alternativa di società è un obiettivo ambizioso e importante: credo che ci sia ancora molto da fare per essere in grado di prenderci cura di noi e di chi abbiamo intorno a noi. Però ho vissuto direttamente le capacità che abbiamo e so che è possibile farlo, recuperando chi in questo congresso ha avuto maggiori voci critiche verso la gestione che c’è stata.

L’invito che vi faccio è di concentrarci, negli interventi di questi due giorni, su cosa riteniamo che sia necessario fare per i prossimi tre anni, lasciando alla commissione politica la discussione sugli ordini del giorno e sul documento che dovremo votare domani.

Un compagno con cui non condividiamo la stessa collocazione politica, ma verso cui provo una stima al limite del reverenziale, una volta mi ha scritto “yours, for revolution”.

La mia conclusione di impegno da Segretario provinciale, con la richiesta esplicita di rimanere fuori dalla Segreteria provinciale, non fa venire meno la mia disponibilità militante e umana verso la nostra comunità: mi considero in debito con ognuna e ognuno di voi.

In questo senso consideratemi vostro, per la rivoluzione, e grazie, con tutta la lucidità che riesco a trovare in questo momento, sapendo quanto possa apparire retorica. Aiuterò come possibile la nuova fase che ci attende, conservando gelosamente quanto abbiamo condiviso in questi sei anni, a disposizione per chi avrà il compito di portare avanti la nostra storia in questa Federazione.

Sperando che chi si sta avvicinando ora al nostro partito, con un anno di nascita all’interno del nuovo secolo, possa ricevere il senso di una comunità che porta avanti le militanze di chi non è più insieme a noi, guardando in particolare alla generazione delle partigiane e dei partigiani, ma non solo.

È il senso della storia, intesa come capacità di guardare al futuro, insieme.

Dmitrij