Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina: — Il Fronte Popolare elogia il discorso di Sayyed Nasrallah e il suo forte messaggio che il Fronte di supporto non si fermerà finché non cesserà l’aggressione a Gaza e la capacità della Resistenza di superare i bombardamenti di massa in Libano.
Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina elogia quanto affermato nel discorso pronunciato oggi da Sayyed Hassan Nasrallah, Segretario Generale di Hezbollah, sulla scia delle infide e diffuse esplosioni criminali che hanno preso di mira i civili in Libano.
L’affermazione di Sayyed Nasrallah secondo cui il fronte di supporto libanese nel nord non si ritirerà finché non cesserà l’aggressione sionista sulla Striscia di Gaza è una promessa di lealtà e determinazione a sostenere il popolo oppresso della nostra nazione e la sua eroica resistenza.
Nel suo discorso, Sayyed Nasrallah ha inviato un forte messaggio al nemico sionista che non ci sarà stabilità nel nord finché non cesserà l’aggressione a Gaza. Ha anche rassicurato le masse che la struttura della resistenza libanese è forte e salda, e non sarà scossa o indebolita dalle esplosioni criminali sioniste. Ha sottolineato che la capacità della resistenza di affrontare qualsiasi escalation o aggressione al Libano sta aumentando, e non è solo in grado di resistere, ma di superare tutti i piani dell’occupazione per indebolirla e impoverirla, grazie alla saggezza e all’esperienza della resistenza nell’affrontare tali eventi, e grazie alla fermezza della culla popolare che la sostiene con ogni forza.
Il Fronte Popolare ritiene che il discorso di Sayyed Nasrallah rifletta la fiducia nella capacità della resistenza di superare i colpi, continuare a sviluppare le sue capacità, trarre lezioni dalle infide esplosioni terroristiche sioniste su larga scala e continuare a imporre nuove equazioni al nemico sionista. Ha anche confermato che la resistenza libanese è pronta per tutte le opzioni e che la risposta ai crimini dell’occupazione è inevitabilmente in arrivo.
Il Fronte afferma la sua fiducia che la resistenza in Libano, insieme alla sua forza e all’unità nazionale attorno a sé, così come tutti i fronti di supporto, continueranno a fare pressione sull’occupazione finché non fermerà la sua guerra di genocidio nella Striscia di Gaza. Il Fronte sottolinea che il sangue dei martiri a Gaza, in Libano e nello Yemen è una testimonianza della fermezza e che la vittoria è il suo alleato contro questa fragile entità sionista che non ha futuro.
Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina Central Media Office 19 settembre 2024
I bombardamenti sionisti in Libano non impediranno alla resistenza di continuare la sua resistenza e di espandere i suoi attacchi.
Le esplosioni diffuse e insidiose che hanno preso di mira simultaneamente e in sequenza i dispositivi di comunicazione detenuti dai cittadini libanesi in varie regioni del Libano rappresentano una grave escalation sionista. Ciò avviene come parte di un nuovo tentativo di occupazione mirato a interrompere la situazione di sicurezza in Libano e destabilizzarne la stabilità.
Questa vasta escalation sionista, che viene portata avanti in un coordinamento confermato con gli Stati Uniti e le potenze occidentali, mira a colpire il cuore del Libano e tentare di indebolire la resistenza che ha ripetutamente dimostrato la sua capacità di affrontare questi pericolosi eventi.
Il Fronte afferma il suo pieno sostegno e solidarietà al Libano e alla sua resistenza, augurando una pronta guarigione ai feriti.
Questi recenti eventi confermano l’intenzione in corso della forza occupante di esercitare pressione sul Libano e di svolgere vaste operazioni volte a creare una nuova realtà che serva i suoi interessi militari e di sicurezza, culminando nella decisione del governo sionista.
Siamo fiduciosi che la resistenza sia in grado di assorbire questo attacco insidioso e di rispondere con forza per riflettere la sua coesione e resilienza. Inoltre, queste operazioni non scoraggeranno la resistenza dal continuare a sostenere la resistenza a Gaza nella sua continua lotta contro l’occupazione.
Le ripetute minacce sioniste di lanciare un’aggressione su vasta scala contro il Libano saranno affrontate solo con maggiore fermezza e resistenza. Il popolo libanese e le sue forze di resistenza hanno ripetutamente dimostrato la loro capacità di sventare qualsiasi piano che li prendesse di mira e di rispondere all’escalation con un’escalation ancora maggiore.
Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina Central Media Office 17 settembre 2024
In Francia, tra il 1789 e il 1792, sotto la monarchia costituzionale istituita dall’Assemblea costituente, il re Luigi XVI disponeva di un diritto di veto sulle leggi approvate dall’Assemblea. Il suo veto ad alcuni decreti ritenuti necessari dai rappresentanti del popolo per la difesa del Paese minacciato dagli eserciti stranieri condusse alla fine della monarchia ed alla sua decapitazione nel 1793. Oggi, Emmanuel Macron, il Presidente-Jupiter (come da sua autodefinizione), ha posto il suo veto all’incarico di primo ministro per Lucie Castets, la candidata del Nouveau front populaire (NFP) che pure aveva ottenuto la maggioranza sia pure relativa dei suffragi. Dopo avere invocato il “Fronte repubblicano” (il nome francese dell’Arco costituzionale) per sbarrare l’avanzata del Rassemblement national (RN), cercato invano di dividere la sinistra, tergiversato per più di due mesi anche approfittando delle olimpiadi parigine, ha affidato l’incarico ad un esponente della destra gollista, Michel Barnier, con il beneplacito di Marine Le Pen. La sua nomina arriva, infatti, dopo le consultazioni tra l’Eliseo e la dirigente del Rassemblement national che ha scartato successivamente Bernard Cazeneuve (ex-ministro di Hollande), Xavier Bertrand (gollista, ma suo rivale diretto nella regione degli Hauts-de-France) e Thierry Beaudet, Presidente del Conseil économique social et environemental (il CNEL locale), minacciando di votare nei confronti di governi da loro presieduti una mozione di censura all’Assemblea nazionale insieme all’opposizione di sinistra (per la Costituzione francese, il governo nominato dal Presidente della Repubblica non deve ottenere la fiducia del Parlamento ma può esserne sfiduciato). Il rifiuto di Macron di accettare il responso delle urne ha dunque dato al Rassemblement national un ruolo centrale: quello di scegliere il primo ministro e di conseguenza di condizionarne il programma. Il veto nei confronti di Castets da parte di “Jupiter il piccolo”, come viene deriso il Presidente nei cortei in analogia con il nomignolo di “Napoleone il piccolo” affibbiato da Victor Hugo a Napoleone III, nasce dal suo rifiuto del programma del Nouveau Front Populaire. Un programma che mette in discussione punti essenziali delle politiche neoliberiste portate avanti dalla compagine presidenziale negli ultimi sette anni. Un progetto politico quello della Gauche osteggiato non casualmente anche dal Medef (la Confindustria francese). Ponendo il suo veto nei confronti della volontà popolare che aveva premiato il Nouveau front populaire, il monarca ha curvato in senso ancora più autoritario l’assetto istituzionale della Quinta Repubblica. Macron ha così istituito di fatto un “Fronte antipopolare”, l’inverso del “Fronte repubblicano” e messo il governo francese sotto la tutela dell’estrema destra. Michel Barnier, l’uomo del Patto Macron-Le Pen Barnier è un esponente dei Républicains (LR), il partito gollista che è arrivato ad appena il 6,5% al primo turno delle elezioni legislative e l’unica formazione politica che non ha partecipato alla desistenza per ostacolare l’elezione di esponenti di estrema destra. Il Primo Ministro conta di avere con l’inquilino dell’Eliseo ciò che entrambi hanno definito una “coesistenza esigente”, neologismo che vorrebbe sostituire la vecchia nozione di “coabitazione”. Ha promesso di affrontare con priorità il problema migratorio anche prendendo provvedimenti per chiudere le frontiere. Barnier rappresenta il perfetto trait d’union tra l’estremo centro di Macron e l’estrema destra di Le Pen. La
sua carriera politica lo testimonia. Fin dal 1981 si era opposto alla depenalizzazione dell’omosessualità; nel 1982 ha votato contro il rimborso pubblico delle spese per l’aborto; dopo il voto dei francesi che avevano rifiutato la Costituzione europea nel 2005 fu una delle personalità politiche più attive per seppellire la volontà popolare con l’adozione del Trattato di Lisbona; come commissario europeo ha condotto una politica anti-immigrazione, securitaria e di stretta austerità budgetaria; ha auspicato di innalzare l’età del pensionamento a 65 anni; ha condotto un attacco all’indennità di disoccupazione dipingendo i disoccupati come degli assistiti ed ha proposto di abbassare drasticamente le tasse sulle imprese. Nel 2022, candidato alle primarie dei gollisti per la Presidenza della Repubblica, al fine di ottenere il sostegno dei militanti più radicali, tenne un discorso violento contro i migranti e propose una moratoria da tre a cinque anni per ogni nuovo arrivo in Francia. Dunque, un ultraconservatore che proseguirà la politica liberista di Macron e quella xenofoba dell’estrema destra. Il Rassemblement national gli ha promesso di non votare una mozione di censura, almeno nell’immediato, “in attesa di conoscere le sue proposte programmatiche” che con ogni probabilità il Primo ministro starà contrattando in queste ore con Le Pen e Jordan Bardella. In sintesi, Barnier a Matignon (il Palazzo Chigi francese) rappresenta il simbolo del voto rubato al popolo francese. In ogni caso, la crisi politica non è risolta ed il nuovo Premier non potrà dormire sonni tranquilli; da un lato incombe la redazione del bilancio per il 2025 in una situazione di estrema difficoltà, che ha visto il Paese sottoposto ad una procedura di deficit eccessivo il 16 luglio da parte della Commissione europea (il bilancio 2024 è in rosso del 5,6% rispetto al Pil), dall’altra il governo vivrà sotto la minaccia permanente di una mozione di censura. La stessa Le Pen ha avvisato che questa situazione non potrà reggere a lungo e ha pronosticato una vita breve per il governo Barnier che rimarrà sotto sorveglianza del suo partito: “comunque fra un anno si vota”, ha affermato auspicando una legge elettorale proporzionale. L’alleanza tra il blocco borghese e l’estrema destra Ciò che probabilmente il Presidente voleva ottenere sciogliendo l’Assemblea nazionale all’indomani delle elezioni europee era una coabitazione con un governo del Rassemblement national per “normalizzarlo” ed indebolirlo grazie alle difficoltà di una gestione governativa in una situazione sociale e finanziaria non facile, con lo scopo ultimo di sconfiggere Le Pen alle presidenziali del 2027 (per interposto candidato). Non è andata così ed adesso il RN fornisce un appoggio esterno all’esecutivo condizionandolo con la propria agenda ed i suoi riferimenti ideologici senza assumersi alcuna responsabilità diretta per le sue scelte concrete. Il Rassemblement national ha il compito di indirizzare la rabbia sociale inevitabile in questo panorama di politiche austeritarie verso i più precari (gli “assistiti”) ed i francesi di origine straniera. È la scelta della guerra civile a bassa intensità da parte dei poteri forti: non c’è da meravigliarsi, il neoliberismo è di per sé autoritario. I metodi possono essere brutali come in Argentina o più soft con l’utilizzo dei media, il controllo dei programmi scolastici ed universitari, l’individuazione di capri espiatori e così via. In Francia, il potere macronista ha utilizzato un mix che prevede la repressione poliziesca contro i gilets jaunes, i manifestanti ecologisti o contro la riforma delle pensioni, il controllo degli organi d’informazione nonché l’impiego delle risorse istituzionali dirigistiche tipiche della Quinta Repubblica, imponendo, ad esempio, con l’utilizzo dell’articolo 49, comma 3, della Costituzione, l’innalzamento dell’età per la pensione a 64 anni senza passare per un voto del Parlamento. Per i
neoliberisti i risultati elettorali hanno conseguenze solo relative; per loro la democrazia non consiste nel rispettare il suffragio universale ma nel difendere al di là di ogni contingenza elettorale “i mercati” e le esigenze del capitale; è il “pilota automatico” celebrato da Draghi oppure come si è visto con l’intervento della Troika, sostenuto con convinzione dallo stesso Barnier, dopo il referendum greco del 2015 che aveva bocciato i diktat Ue. Secondo il politologo Stefano Palombarini il blocco borghese e quello di estrema destra non si sono fusi (almeno per il momento) ma alleati, tenendo conto dell’indebolimento elettorale del primo tramite un riequilibrio interno all’universo neoliberista contro il nemico comune: il blocco di sinistra che si è formato intorno ad un programma di rottura rispetto alle riforme e alla visione liberista del mondo. I francesi devono dunque aspettarsi per i prossimi mesi la realizzazione di un’agenda antisociale e razzista. La gara di velocità del Nouveau front populaire con il Rassemblement national Il NFP è stato accusato dal raggruppamento macronista di avere la responsabilità della nomina di Barnier, avendo costretto il Presidente a questa scelta con il rifiuto di ricercare accordi con altre rappresentanze parlamentari. Un falso che serve a Macron per costruirsi un fragile alibi ma che è stato smascherato da Castets che nell’incontro avuto con l’inquilino dell’Eliseo aveva precisato che il NFP avrebbe cercato, tema per tema, accordi con le altre forze politiche ovviamente partendo dal programma presentato agli elettori. Il punto è proprio questo: negando l’incarico alla candidata della sinistra si è voluto salvaguardare le acquisizioni liberiste e pro-business. Sabato 7 settembre, le organizzazioni studentesche e tre dei quattro partiti del NFP (assente il PS) hanno indetto manifestazioni di protesta in 130 città francesi contro il rifiuto del responso delle urne da parte di Macron. La partecipazione è stata buona (300mila manifestanti in tutta la Francia) ma forse non proprio all’altezza della posta in gioco; inoltre, la CGT ed altri sindacati hanno deciso di manifestare autonomamente il 1° ottobre. I sindacati ed i movimenti sociali nel recente passato hanno dato luogo a fortissime mobilitazioni, da quella dei gilets jaunes alle proteste contro la riforma delle pensioni, per la difesa della sanità pubblica o contro i mega bacini d’acqua richiesti dall’agro- industria, movimenti che però si sono conclusi con sostanziali sconfitte. La loro debolezza è dipesa in larga misura dalla separazione tra lotte sociali ed ecologiche e la dimensione più prettamente politico-istituzionale. I sindacati non vogliono intervenire nella sfera politica mentre le diverse organizzazioni padronali non si imbarazzano certo ad agire pienamente come attori politici. Il Nouveau front populaire si è costituito, malgrado una non indifferente spinta dal basso, sostanzialmente come alleanza elettorale di convenienza tra i partiti della sinistra. Il Fronte dovrebbe invece offrire un quadro che investa la società civile in tutte le sue articolazioni, tutte le vittime delle politiche liberiste, i cittadini attivi, i sindacati, le associazioni, i movimenti femministi, gli attori dell’economia sociale e solidale, gli artisti, i ricercatori ed altri ancora. Se resta un accordo tra i vertici dei partiti rischia di non sopravvivere alle difficoltà del momento. In altri termini, occorre democratizzare il NFP per farne il bene comune di tutti i cittadini e le cittadine di sinistra. Pur avendo vinto le elezioni il Nouveau front populaire è stato relegato ai margini della vita istituzionale e deve fare fronte ad un attacco massiccio da parte dei media che l’accusano di essere succube della strategia di Jean-Luc Mélenchon. L’intento è quello di spaccare il Partito socialista (PS) e di marginalizzare la France insoumise (LFI). Molte delle tattiche e delle strategie politiche dei diversi protagonisti della politica francese si spiegano avendo a mente che dal punto di vista
istituzionale le elezioni decisive sono quelle presidenziali che in teoria si dovrebbero svolgere nel 2027, ma che stante l’instabilità politica e la crisi di regime incombente potrebbero avere luogo molto prima. Certo, non si può prescindere dal rafforzamento dell’estrema destra i cui progressi sono in larga misura dovuti all’indebolimento del blocco centrista. Si è dunque instaurata una gara di velocità in vista di questa scadenza tra il Rassemblement national e la Gauche per la quale esistono, per fortuna, margini significativi di crescita. La strategia del quarto blocco A questo fine, la France insoumise punta sulla “strategia del quarto blocco” (la definizione è di Manuel Bompard, coordinatore nazionale di LFI) che ha già dato buona prova nelle scorse elezioni europee e legislative. Se TUTTI i sondaggi (ben 27!) alla vigilia delle elezioni dell’Assemblea nazionale davano vincente il Rassemblement national con più di 300 seggi allorquando ne ha realizzato “soli” 142, la spiegazione va ricercata non soltanto nella realizzazione di un Fronte anti- RN, ma anche in una visione distorta delle dinamiche elettorali. Partendo da un’analisi rigorosa dei risultati delle elezioni presidenziali e legislative del 2022, al seguito delle quali il campo politico si è organizzato in tre blocchi di importanza simile (il blocco popolare del NFP, un blocco liberale che unisce i macronisti con quello che rimane della destra (i gollisti), un blocco di estrema destra) e constatando che i passaggi degli elettori tra i vari blocchi sono ridotti (con eccezione di quelli dal centro all’estrema destra), si desume che il Nouveau front populaire per raggiungere la vittoria deve convincere i componenti del “quarto blocco”, tutti quelle e quelli che non partecipano più alle elezioni e che rappresentano una parte significativa del popolo francese: tra un terzo e la metà del corpo elettorale. L’astensione non è distribuita uniformemente tra la popolazione, sia tra le fasce reddituali che tra le generazioni (Thomas Piketty e Julia Cagé). Negli anni tra il 1960 ed il 2000 la partecipazione elettorale era più importante tra le classi a basso reddito che tra i ceti più agiati, mentre oggi accade il contrario. Si trattava del voto operaio in favore del Partito comunista francese (PCF). All’epoca, la mobilitazione dei ceti popolari avveniva sulla base di un progetto politico chiaro e radicale di trasformazione della società. Questa progettualità è dunque una delle chiavi importanti della strategia del quarto blocco. Analisi dettagliate (tra le quali quelle di Tristan Haute e Maxime Champion) hanno dimostrato che una parte significativa di questo quarto settore dell’elettorato è più vicino al blocco popolare che agli altri raggruppamenti per quanto concerne le proprie rivendicazioni politiche sui salari, il welfare, l’ambiente oppure l’indennità di disoccupazione. Certo i risultati elettorali del PCF in quegli anni erano anche la traduzione concreta di una presenza militante e di un radicamento del partito nelle banlieues. A questo scopo la France insoumise ha scelto di utilizzare strumenti nuovi come le carovane popolari, i referenti di condominio, i porta a porta per, in particolare, sollecitare l’iscrizione nelle liste elettorali (non automatica in Francia) e ha moltiplicato le azioni di solidarietà concreta, alimentare e scolastica. Da qui l’orientamento verso messaggi radicali e di rottura con il quadro neoliberista e il sistema politico-mediatico. Nel corso delle elezioni europee del 2024, una consultazione che ha spiccate caratteristiche censitarie e coinvolge di solito quasi esclusivamente i ceti urbani agiati, la France insoumise è riuscita, applicando questa strategia, ad ottenere un milione di voti in più rispetto al 2019. La lista capeggiata da Manon Aubry ha ottenuto più del 30% tra i giovani di 18-24 anni e risultati straordinari nei comuni tra i più poveri del Paese: ad esempio, 56% a Garges-lés-Gonesse, 53% a
Stains, 50% a Saint-Denis o 42% a Vénissieux. Si è realizzata in quell’occasione una forte correlazione tra il voto a LFI, l’aumento della partecipazione nonché le iscrizioni alle liste elettorali. Basti pensare che il 50% degli elettori tra i 18 ed i 24 anni ha votato per il Nouveau front populaire alle legislative ed il 43% di questa categoria non è andata a votare; ossia 10 punti percentuali in più rispetto alla media della popolazione. Parallelamente, il NFP ha ottenuto i suoi migliori risultati tra le categorie più precarie (35% di coloro che guadagnano meno di 1.250 euro hanno votato per il NFP) ed anche questa frazione della popolazione si è astenuta nella misura del 43%. In altri termini, se i più giovani ed i più poveri fossero andati a votare come la media della popolazione, il Nouveau front populaire avrebbe sconfitto il Rassemblement national al primo turno e ottenuto al secondo turno una maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale. È prevedibile che la delusione del popolo francese lascerà presto il posto alla rabbia. Il 7 settembre scorso alla manifestazione parigina, Mélenchon ha chiamato ad una lotta di lunga durata, affermando che se Macron vuole una prova di forza alla lunga “il popolo sarà il più forte”. Oggi nessuno vuole la ghigliottina per Macron come fu per Luigi XVI, se non in senso metaforico, ma “Jupiter” sarà costretto a scendere prima o poi dall’Olimpo ed a sottomettersi alla volontà popolare. Alessandro De Toni
Vogliamo ricordare il tragico momento della storia moderna del “cortile di casa” statunitense pubblicando una biografia ( tratta da Wikipedia) del fondatore del Partito comunista del Cile, Luis Emilio Recabarren e pubblicando un canto di Victor Jara ( a sua volta trucidato nello stadio di Santiago del Cile dai golpisti assassini) a lui dedicato. Buona lettura e buon ascolto.
Nato a Valparaíso da una poverissima famiglia di origine basca[1], lavorò come operaio tipografico fin da giovane età e si dedicò all’attività politica fondando nella propria città natale, il porto di Valparaíso, varie organizzazioni e giornali che esortavano alla solidarietà all’interno della classe operaia. Assunta la direzione del quotidiano El Trabajo (Il Lavoro), fu imprigionato per 8 mesi a seguito della pubblicazione di duri articoli che criticavano le condizioni dei lavoratori nel nord del Paese. Nel 1905 si trasferì nel porto settentrionale di Antofagasta, dove pubblicò il periodico La Vanguardia (L’Avanguardia).
Fu eletto deputato per il Partito Democratico nel 1906, ma non poté assumere l’incarico perché, essendo agnostico, rifiutò di giurare sulla Bibbia. Ebbe poi nuovamente problemi con la giustizia per le sue pubblicazioni ferocemente critiche nei confronti del governo cileno, e dovette lasciare il Paese stabilendosi in Argentina. Qui entrò a far parte del Partito Socialista. Nel 1908 si recò in Europa (visitando Spagna, Francia e Belgio) e tornò in Cile a fine anno.
Rientrato nel Paese, fu condannato nuovamente al carcere. Tornò in libertà nell’agosto del 1909. Nel 1911 si stabilì a Iquique. Molto deluso del proprio partito, fu in questa città che fondò nel 1912, insieme a una trentina di operai, il Partito Operaio Socialista (POS).
Nel 1915 fu candidato a deputato ad Antofagasta ma fu sconfitto a seguito di brogli. Si trasferì allora a Valparaíso e vi rimase fino all’inizio del 1916, quando viaggiò lungo il Cile in direzione sud, giungendo fino a Punta Arenas. Nel 1918 tornò in Argentina e partecipò alla fondazione del Partito Comunista Argentino, entrando a far parte della sua prima Direzione Nazionale.
Al rientro in Cile, partecipò al III Congresso del POS, nel quale fu avviata la strada per l’ingresso nella Terza Internazionale e per la trasformazione in Partito Comunista del Cile. Fu candidato alla Presidenza della Repubblica nel 1920. Al momento delle elezioni, che videro il successo di Arturo Alessandri Palma, Recabarren era nuovamente in carcere. Nel 1921, ad ogni modo, fu rieletto deputato ad Antofagasta.
Impressionato dalla Rivoluzione Russa, dopo il Congresso del Partito di gennaio del 1922 che sancì ufficialmente la trasformazione del POS in Partito Comunista del Cile, Recabarren si recò in Unione Sovietica per partecipare al Congresso dell’Internazionale Comunista. Tornò in Cile nel febbraio del 1923. Nel 1924 non volle ricandidarsi alle elezioni, e il 19 dicembre dello stesso anno si tolse la vita, apparentemente a causa di una depressione provocata sia da problemi personali che politici.
Amnesia coloniale. Riferito alla classe politica e a tanti sinceri democratici italiani ed europei intervistati dai media ufficiali, l’accostamento di queste due parole (suggerito da Francesca Albanese) segnala, come meglio non si può, la presenza costante e discreta del passato coloniale dell’Europa ogni qual volta la conversazione verte sullo Stato d’ Israele e, più in generale, sull’impresa sionista di uno Stato ebraico in Palestina.
Che si tratti del regime di apartheid o dei mandati di arresto a Netanyahu e al ministro della guerra Gallant, o del “plausibile” genocidio in corso a Gaza, sembra d’obbligo che il primo pensiero vada allo Stato d’Israele e al timore che la sua immagine possa uscirne offuscata, oppure, come variante, si evoca il processo di pace (che non c’è).
Mi chiedo se siffatta sensibilità, fortemente contrastante con l’immagine di un’Europa che si vuole fondata sui diritti umani e sul diritto internazionale non sia l’effetto, appunto, di un’amnesia coloniale che aiuta a non vedere l’analogia fra il colonialismo d’insediamento israeliano in Palestina e quello britannico in America, francese in Algeria o boero in Sud Africa. Il fatto è che considerare Israele una colonia dell’Europa – l’ultima colonia dell’uomo bianco – significherebbe compiere una formidabile scelta di classe e parteggiare con i paesi del Sud del mondo, in maggioranza ex colonie. Una scelta per taluni angosciosa perché essere fedeli ai propri principi democratici e internazionalisti comporta un colossale tradimento della propria storia e delle proprie alleanze euro- atlantiche, nonché la rinuncia ai propri interessi geostrategici.
Perciò s’impone l’uso dei due pesi due misure, perciò tutto deve partire dal 7 Ottobre per non fare i conti col passato, perciò tutto è colpa di Hamas e Israele ha il diritto di difendersi.
Con non pochi scricchiolii questa posizione scomoda ha retto fino ad oggi. Ma al 7 Ottobre sono seguiti 10 mesi di ininterrotta aggressione israeliana su Gaza via mare, via terra e dal cielo e 50.000 morti (compresi i 10.000 sotto le macerie), o forse molti di più: infatti, per la rivista medica britannica The Lancet, calcolando anche i morti per fame, per disidratazione, per le epidemie, per il non accesso alle cure, il numero più probabile di decessi si aggira intorno a 186.000. A tale abisso di devastazione umana e ambientale si aggiunge la pervicacia con cui il governo israeliano porta avanti la propria politica di guerra uccidendo d’un sol colpo il Capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh e il negoziato stesso. E lo fa violando nei cieli la sovranità dell’Iran dopo che la vigilia aveva violato quella del Libano per uccidere Fuad Choukr, comandante di Hezbollah.
In questo quadro interviene Bezalel Smotrich, ministro delle finanze del governo israeliano leader dell’estrema destra suprematista che dice: “affamare a morte due milioni di palestinesi è la cosa più morale da fare … portiamo aiuti perché non c’è scelta … Nessuno ci permetterebbe di causare la morte per fame di due milioni di civili, anche se sarebbe giustificato moralmente, fin quando i nostri ostaggi non torneranno a casa» (Il Manifesto, l6 Agosto 2024).
Viene in mente lo slogan “un baluardo di civiltà contro la barbarie” con il quale, all’inizio del secolo scorso, i sionisti presentavano il loro progetto di uno Stato ebraico in Palestina ai governi europei per ottenerne l’appoggio, un progetto genocidario in partenza dove il futuro era già tutto scritto e annunciato dallo slogan “una terra senza popolo per un popolo senza terra” e confermato a più riprese dalle parole dei dirigenti sionisti di allora; come se non bastassero, alla Conferenza di Versailles (1919), le carte della Palestina presentate dalla delegazione sionista portavano la scritta “Pasture land for nomads”, terra a pascolo per nomadi.
La prima pulizia etnica su grande scala fu la Nakba del 1948, la messa a ferro e a fuoco del territorio della Palestina, che l’Assemblea Generale dell’ONU aveva raccomandato di spartire, e la cacciata dei suoi abitanti verso sud, verso Gaza, città allora fiorente, crocevia della rotta mediterranea fra Alessandria d’Egitto e Alessandretta, oggi in Turchia. Una città tipicamente levantina dove le tre religioni monoteiste convivevano in armonia fra di loro e con gli abitanti degli 11 villaggi vicini. Nel 1948 arrivò Ben Gourion e diede ordine (Ordine numero 40 negli archivi israeliani da poco desecretati) al suo esercito di radere al suolo gli 11 villaggi e di cacciare gli abitanti verso una striscia di terra da lui appena recintata lungo il mare: la “Striscia di Gaza”.
Sulla terra bruciata degli 11 villaggi, lo Stato d’Israele costruì i kibbutz che la resistenza palestinese attaccò il 7 ottobre 2023. Con la complicità degli USA e dell’UE e il beneplacito della maggioranza degli israeliani, la risposta del governo Netanyahu è consistita nel genocidio in corso a Gaza per accelerare l’attuazione del progetto sionista di uno Stato ebraico in Palestina: “una terra senza popolo…” Sui social girano video agghiaccianti di giovani israeliani, soldatesse e soldati che ballano e cantano intorno alle loro vittime a terra.
Con ciò lo slogan “un baluardo di civiltà contro la barbarie” si è capovolto: i sionisti, complici gli europei, cercano di obliterare l’antica civiltà palestinese e levantina sostituendola con la loro barbarie contro il popolo palestinese, oggetto, da oltre un secolo, di invasioni straniere, di una brutale colonizzazione d’insediamento, di pulizia etnica, di una frammentazione estrema dentro e fuori il proprio territorio. Il tutto studiato in modo da far dimenticare la parola che li contraddistingue: “ Palestina”. I palestinesi d’Israele (oltre il 20% della popolazione) vengono chiamati “arabi d’Israele, drusi, beduini…). Nel suo Atlante della Palestina 1871-1877, lo storico e cartografo palestinese Salman Abu Sitta scrive che la lotta di liberazione del popolo palestinese è “ l’affermazione di ciò che continua a definire loro stessi e le generazioni future. Il legame collettivo con la loro terra, documentato qui con una forza dirompente, costituisce la fonte della loro legittimità nazionale e nessuno gliela potrà togliere, neppure con la morte, il diniego, la dispersione e l’occupazione.”
Civiltà e barbarie ci riguardano. Allora onoriamo lo spirito di resistenza della Striscia di Gaza e la lotta di liberazione del popolo palestinese.
*Attivista, traduttrice e scrittrice. Autrice, tra le altre opere, di “Autobiografia del novecento. Storia di una donna che ha attraversato la storia”, Il Saggiatore, 2018.
Quello che segue è un articolo della rivista Micro Mega, a firma Renato Fioretti, del 25 ottobre 2022; è una “radiografia” del Governo Meloni e con la sua pubblicazione vogliamo onorare le vittime della Strage neofascista mettendo a nudo, se mai ce ne fosse reale bisogno, chi sono i “nostri” governanti che, poverelli, si sentono offesi a sentirsi dire che nella loro compagine alligna il pensiero, e anche qualcosa di meno astratto, di ciò che dette vita alla stagione della strategia della tensione che aveva come obiettivo lo spostare verso destra l’asse politico della nostra povera Repubblica. Alla fine ce l’hanno fatta, ma la Storia, con buona pace di Fukuyama, non è affatto finita (NdR).
Governo Meloni: si salvi chi può L’asse con Orbán. Il rapporto con gli spagnoli di Vox. Fontana presidente della Camera e gli “amici” di Alba Dorata. E questo è solo l’inizio. author-name Renato Fioretti 25 Ottobre 2022
Governo Meloni: si salvi chi può O meglio, come vedremo più avanti: “Perdete ogni speranza”! Per la prima volta nell’ancora breve storia della nostra Repubblica, la responsabilità della guida del governo viene affidata a una donna. Non era mai successo prima, a differenza di quanto abbastanza frequentemente già realizzatosi in alcuni paesi dell’Ue; e rappresenta, innegabilmente, un ulteriore passo in avanti verso la completa parità di genere.
Tale novità si realizza, però, nell’anno in cui ricorre anche il centenario della famigerata “marcia su Roma”, cui seguirono lo sciagurato ventennio fascista e, dopo la Seconda guerra mondiale, la rinascita democratica. Un processo, quest’ultimo, lento e mai definitivamente affrancatosi, a mio parere, dai retaggi e dalle scorie – pubbliche e private – del regime dittatoriale.
Non sorprende, quindi, se per molti “addetti ai lavori” il governo Meloni non appare poi troppo foriero di nostalgiche riproposizioni, culturali e politiche, di “un passato ormai lontano”. Ne consegue, a loro parere, anche l’inopportunità di ricorrere a termini quali post-fascista o, addirittura, neo-fascista, per qualificarne la natura e le tendenze.
Di contro, esiste una minoranza di osservatori – il sottoscritto tra questi – secondo i quali in FdI esiste ancora una (troppo) diffusa condizione di idealizzazione dell’antica cultura fascista che ha frenato – almeno fino ad oggi – il pur apprezzabile tentativo di defascistizzazione del partito operato da Domenico Fisichella e Pinuccio Tatarella, attraverso il passaggio dal MSI a Alleanza Nazionale e oggi FdI.
Un’eredità troppo pesante da gestire e per passare inosservata, anche perché a nessuno sfugge che mai fino ad oggi, in nessuna circostanza, né la Meloni né alcuno tra i più autorevoli dirigenti di FdI – penso, ad esempio, al neo Presidente del Senato, Ignazio La Russa – ha ritenuto opportuno prendere ufficialmente le distanze dal ventennio mussoliniano ripudiandone definitivamente ed inequivocabilmente la storia, gli atti e i misfatti.
Non sfuggano, in questo senso, almeno due elementi cui, personalmente, assegno notevole significato politico. Il primo è rappresentato da quelle che considero le cattive compagnie straniere di cui la Meloni spesso si circonda. Alludo alla comunanza di sentimenti e posizioni espressi nei confronti di Vox – partito politico spagnolo di estrema destra, che ha nel franchismo un dichiarato riferimento – e alle sin troppe convergenze politiche che la legano all’ungherese Viktor Orbán e al polacco Mateusz Morawiecki; due soggetti che denunciano una certa idiosincrasia rispetto a termini quali democrazia e diritti, civili e sociali.
Il secondo elemento, di carattere interno, è dettato dall’atteggiamento (della Meloni e, in misura maggiore, dei suoi più noti “colonnelli”) di ostentata non-belligeranza se non, addirittura, supina accondiscendenza e sostanziale ignavia nei confronti di tanti piccoli gruppi e frange di dichiarati estremisti di destra; da quelli che vanno annualmente in pellegrinaggio a Predappio e fino a quelli che assaltano e devastano, oggi, la sede nazionale della Cgil; senza dimenticare coloro che fanno del negazionismo una reiterata prassi.
Ovviamente però, è opportuno precisare che quando alludiamo a un pericolo neo-fascista, non intendiamo rispolverare fantasmi del passato quali, ad esempio, le squadracce di camicie nere, i bastonamenti degli avversari politici, la purga del sovversivo (a base di olio di ricino), le sentenze del Tribunale speciale e il confino per i dissidenti.
In questo senso, hanno ragione coloro i quali sostengono che, nel corso degli ultimi anni, si è spesso fatto ricorso al termine “fascista” anche laddove ne mancavano i presupposti e nonostante le affermazioni filo atlantiche e l’accettazione dell’Ue da parte del gruppo dirigente di FdI. Ciò dovrebbe quindi escludere, a loro parere, la volontà di ripercorrere una strada che ci riporti al fascismo storico di così infausta memoria.
Ciò detto, non sono pochi coloro che si interrogano (chi scrive tra questi) circa un rinnovato interesse delle classi dirigenti del nostro Paese a poter contare su di un governo capace di operare in modo autoritario di fronte a problemi di gestione sociale ed economica già presenti all’orizzonte e per nulla rassicuranti.
Da questo quadro potremmo anche escludere che il partito della Presidente del Consiglio coltivi nostalgia del passato ma sappiamo bene – per ammissione dei suoi stessi quadri e dirigenti – che conserva intatta la memoria delle sue radici ideologiche e storiche. È sufficiente rilevare il banale particolare rappresentato dalla presenza della fiamma tricolore (ancora) nel suo simbolo.
Se a questo aggiungiamo che Meloni, così come FdI, non hanno mai accantonato i loro antichi valori quali Dio, Patria e Famiglia, diventa difficile restare ottimisti.
Parliamo, quindi, di neo-fascismo per sottintendere il pericolo dell’assenza, in FdI, di un concreto percorso di revisione storico-culturale di quello che fu e rappresentò il fascismo per il nostro Paese, di una mai pervenuta abiura delle sue radici ideologiche e, soprattutto, di un’imperdonabile continuità con politiche omofobe, xenofobe, razziste e tese a invadere la sfera personale dei cittadini.
Tutto ciò nonostante, secondo alcuni, sarebbe stato comunque opportuno attendere la composizione dell’Esecutivo proposto dalla Presidente del Consiglio prima di abbandonarsi a qualsiasi tipo di considerazioni ed emettere giudizi.
Confesso che, personalmente, non confidavo in alcun miracolo. E purtroppo, la cronaca delle ultime ore ha confermato i peggiori presagi!
Consequenziale quindi, alla presentazione della lista dei ministri, la presa d’atto di una situazione che, personalmente, reputo nettamente censurabile.
D’altra parte, a mio parere, l’anticipazione di quella che sarebbe stata la logica del nuovo clima ci era stata già fornita dall’elezione del Presidente della Camera.
La terza carica dello Stato era stata, infatti, assegnata – in quota Lega – a un deputato che rappresenta, a pieno titolo, il prototipo di tutto ciò che non dovrebbe essere un rappresentante istituzionale.
In palese offesa alla laicità della nostra Repubblica, è stata così affidata la Presidenza di un ramo del Parlamento a Lorenzo Fontana, un ultraconservatore veneto a tutti noto per il suo estremismo religioso e per la spiccata simpatia nei confronti di “Alba Dorata”, partito neonazista greco. Trattasi di un omofobo secondo il quale le unioni gay rappresentano tout court “il frutto della furia dell’ideologia relativistica” e l’aborto, compreso quello cosiddetto terapeutico, non è altro che: “uno strano caso di diritto umano che prevede l’uccisione di un innocente”!
Così come, sfoderando la sua iconoclastica furia, da parlamentare europeo si oppose strenuamente alla proposta all’Ue (della portoghese Estrela) di vincolare gli Stati membri a delle direttive da seguire per il rispetto dei diritti riproduttivi della donna: tra cui aborto, limitazione dell’obiezione di coscienza e aiuto alla fecondazione assistita. Uguale, ferrea, determinazione oppose alla proposta del collega Lunacek, sui diritti delle coppie gay.
Come se tutto ciò non bastasse a rappresentare la “pericolosità sociale” di tale Presidente, è il caso di aggiungere che Fontana – al pari di tanti presunti credenti che a tutto credono, meno che ai precetti della loro stessa chiesa – ha spesso spiegato che: “L’immigrazione è un’arma di distruzione dei nostri popoli e della nostra identità”!
Però, il suo curriculum non sarebbe esaustivo se nel rappresentare il personaggio dimenticassi di riportare che lo stesso è un fanatico sostenitore del Primo ministro ungherese Viktor Orbán e, almeno fino a qualche anno fa, citava la Russia di Putin come punto di riferimento ideologico rispetto ai temi a lui più cari.
La triste realtà è che questo soggetto siede sulla poltrona lasciatagli – prim’ancora che accogliesse Roberto Fico – da straordinarie personalità politiche quali: Umberto Terracini, Sandro Pertini, Pietro Ingrao e Nilde Iotti.
Ricorro a un eufemismo nel definire “perplessità” quelle che hanno accompagnato la presa visione della lista dei ministri del governo Meloni.
Eviterò, in questa sede, di annoiare il lettore riportando personali considerazioni sui componenti il nuovo Esecutivo, ma non posso evitare alcune brevi considerazioni di massima.
Una prima annotazione è relativa al peso riconosciuto alla Lega. Ebbene, contrariamente a quanti ritengono Salvini ridimensionato dalla Meloni (perché non gli è stato concesso di tornare agli Interni: sarebbe stato per lo meno imbarazzante ritrovarlo al Ministero che gli aveva procurato di essere inquisito), io credo che grazie a un’astuta tattica e un’adeguata pressione esercitata sulla Premier – che mai avrebbe potuto permettersi un Salvini fuori dal governo – il neo Ministro alle Infrastrutture, nonché vicepremier, abbia ottenuto proprio ciò cui, in realtà, tendeva.
Infatti, affidare alle dirette responsabilità della Lega ministeri quali quello delle Infrastrutture, degli Affari Regionali e dell’Economia, oltre a quello dell’Istruzione, significa offrire agli ex secessionisti padani e veneti rinnovate energie per tentare di realizzare le loro politiche oggettivamente “separatiste”; con tutto quanto, di negativo, ne conseguirebbe per le regioni del Sud. Dalla conferma dell’autonomia regionale al ritorno di attualità del Ponte sullo Stretto, passando attraverso la riproposizione del TAV.
Senza dimenticare che la presenza di Matteo Piantedosi, al Ministero degli Interni, rappresenta una linea di continuità con il recente passato perché lo stesso, in sostanza, svolgeva già il ruolo di Ministro “ombra” quando il titolare risultava essere Matteo Salvini, molto spesso in tutt’altre faccende affaccendato.
Sarebbe interessante, ad esempio, intrattenersi sull’opportunità di nominare Guido Crosetto, lobbista per l’industria delle armi, quale Ministro della Difesa.
Altrettanto interessante la nomina di Carlo Nordio, ex Pm, sostenitore dei recenti referendum bocciati dalla maggioranza degli italiani e determinato a riformare quella parte di “Giustizia” che tante pene ha prodotto a Berlusconi. A partire dalla cancellazione della legge Severino.
Rispetto alla nomina di Anna Maria Bernini quale Ministra dell’Università e Ricerca, mi limito a riportare il pensiero di Domenico De Masi: “Del tutto inadeguata”!
Si potrebbe invece sorridere, ma sarà forse il caso di cominciare già a piangere per l’immarcescibile Daniela Santanchè, neo Ministra del Turismo con un enorme conflitto d’interessi rispetto al demanio marittimo, per i suoi numerosi affari gestiti insieme al socio Flavio Briatore.
Preferisco evitare di dilungarmi troppo rispetto alla Ministra della Famiglia, natalità e pari opportunità: Eugenia Maria Roccella. Basti rilevare che la ex radicale pentita – si, proprio così, ex radicale e figlia di Franco Roccella, uno dei fondatori del Partito Radicale – rappresenta la versione al femminile di Lorenzo Fontana, Presidente della Camera.
Oggi è un’ultraconservatrice e figura di spicco del mondo prolife e teocon, nemica dichiarata di biotestamento, unioni civili, delle sentenze che abbatterono la legge 40, dalla fecondazione eterologa alla diagnosi preimpianto, della pillola abortiva Ru486, delle famiglie arcobaleno, dei diritti Lgbtq, del reato di omofobia, del divorzio breve, del suicidio assistito e dell’eutanasia. Insomma di tutti i diritti civili, alcuni dei quali leggi dello Stato, che hanno caratterizzato la nostra storia negli ultimi trent’anni.
Preferirei ignorarne l’esistenza, ma come evitare di rilevare l’ingombrante presenza, al Ministero della Disabilità, della leghista Alessandra Locatelli, vergognosamente nota per avere vietato – in qualità di assessora alla Famiglia e alla Solidarietà sociale (!) della Lombardia – l’elemosina ai poveri, multato un prete che portava loro da mangiare e fatto ricorso agli idranti per disperdere i senzatetto del suo comune?
Laddove, però, è stato raggiunto il massimo dell’impudicizia, è avvenuto al Ministero del lavoro, con la nomina di Marina Elvira Calderone che, per chi non la conoscesse già, attualmente ricopre l’incarico di Presidente del Consiglio dell’Ordine dei consulenti del lavoro. Tanto valeva eleggere direttamente il Presidente di Confindustria!
Come se, nel purtroppo improbabile caso di un futuro governo di sinistra – alludo a quella vera, non certo al Pd – eleggessero a Ministro del lavoro il Segretario generale della Cgil.
Giusto per rendere l’idea delle mani cui è stato affidato un così delicato incarico, è il caso di rilevare, come ha fatto il giornalista Massimo Franchi su il manifesto nei giorni scorsi, che:
a) Il Consiglio nazionale dell’Ordine presieduto dalla neo ministra ha più volte presentato interpellanze ai precedenti Ministri del lavoro per “rendere più flessibile la normativa che tutela i lavoratori e la sicurezza in tema di appalti”. Reiterate richieste, quindi, per rendere meno rigida la normativa in un paese nel quale si registrano, in media, più di tre morti al giorno per incidenti sul lavoro. Una richiesta criminale! Immagino che l’Ordine non perderà molto tempo prima di rinnovare la richiesta alla neo ministra!
b) Per lo stesso Consiglio, il Durc – il “Documento unico di regolarità contributiva” – in vigore dal novembre 2021 e principale strumento per evitare nel settore dell’edilizia le assunzioni post datate in caso di incidenti, secondo un’altra interpellanza “introduce una procedura complessa, che comporta il rischio del blocco delle attività dei cantieri, oltre a un aumento dei costi e dei tempi di lavoro per le imprese interessate”. Scellerati!
c) Un’altra richiesta del Consiglio presieduto dalla neo ministra riguarda invece “la possibile esclusione dei dipendenti in smart working dalla base di computo dell’organico aziendale per la determinazione del numero dei soggetti disabili da assumere”. In pratica si chiede di usare il telelavoro per sottrarsi all’obbligo di legge di assumere disabili!
L’ultima richiesta, in ordine di tempo, è stata fatta all’Inps chiedendo di poter accedere alle posizioni previdenziali dei lavoratori; con tutti i conseguenti rischi per gli stessi e con la dichiarata intenzione di fare concorrenza – sleale – ai patronati dei sindacati.
In definitiva, nonostante le premesse non appaiano confortanti, si può anche concordare con coloro che invitano alla calma e ad attendere i primi provvedimenti adottati dalla nuova compagine governativa. Eventualmente, auspico tempi di reazione rapidissimi!
Quello che non ci è assolutamente consentito è sprecare ulteriori energie nell’analisi retrospettiva degli errori commessi dalla sinistra nel nostro Paese. È urgente e necessario avviare un processo di rinnovamento che, inevitabilmente, occorre parta da un ritrovato rapporto con la nostra base sociale. Il tempo a nostra disposizione scorre velocemente e, contemporaneamente, in Europa, dalle ex Repubbliche sovietiche alla Germania e alla Svezia si materializza una preoccupante involuzione conservatrice e reazionaria.
Elenco aggiornato (ma non esaustivo) dei marchi italiani passati in mano straniera negli ultimi anni
di Gilberto Trombetta (articolo ripreso da L’Antidiplomatico del 12/07/2024)
[ Nota del Redattore: ci corre l’obbligo, nel presentare questo lavoro, di sottolineare che è ben evidente a questa redazione ed a tutto il Partito che, per un lavoratore salariato, il fatto di essere sfruttato da un padrone italiano o da uno ( ad es) turco o taiwanese non fa molta differenza. Detto ciò reputiamo interessante presentare quest’elenco sia perchè ogni vendita corrisponde ad un minor introito fiscale per lo Stato, sia perchè la dice lunga su quanto la “nostra” borghesia imprenditoriale ed i fascio-nazionalisti che adesso ci governano, siano in realtà dei pagliacci al soldo del vero, potente, capitale internazionale ( spesso manifestantesi sotto forma di Fondi d’Investimento).]
Ve li ricordate quelli che l’euro ci avrebbe protetto?
Dal 2008 al 2012, 437 aziende italiane sono passate nelle mani di acquirenti esteri. Di queste, almeno 130 erano marchi importanti. (109,25 aziende all’anno, in media. Come dire una ogni tre giorni– domeniche escluse- NdR)
Tra il 2014 e il 2023, ci sono state 2.948 acquisizioni estere di aziende italiane (contro le 1.673 acquisizioni italiane all’estero) per un valore di 203 miliardi di euro. Solo negli ultimi 5 anni (2019-2023) le acquisizioni estere sono state 1.719 (contro le 980 acquisizioni all’estero di gruppi italiani) per un valore di 82 miliardi. Nel primo trimestre del 2024 ci sono già state 84 acquisizioni estere di realtà italiane.
Sono le meraviglie degli IDE, gli Investimenti Diretti Esteri. Che poi sarebbero i saldi d’occasione per gli acquirenti stranieri. Che infatti per comprare il doppio delle realtà che noi compriamo all’estero, spendono la metà.
Il tutto mentre lo Stato, che avrebbe dovuto tutelare le imprese italiane (che in Italia danno lavoro e pagano le tasse), per colpa della peggior classe politica mai vista, regalava i gioielli di famiglia a concorrenti stranieri, spesso senza scrupoli.
Per capire meglio di cosa stiamo parlando, ecco un elenco aggiornato (sicuramente non esaustivo), dei marchi italiani passati in mano straniera negli ultimi anni:
AC Milan (RedBird Capital Partners) Stati Uniti Acciaierie Lucchini (Severstal) Russia Acetum (ABF) Inghilterra Acqua di Parma (LVMH) Francia Algida (Unilever) Inghilterra Ansaldo Breda (Hitachi) Giappone Ansaldo STS (Hitachi) Giappone Antica gelateria del corso (R&R/Nestlé) Inghilterra / Svizzera AR Alimentari (Princes/Mitsubishi) Giappone AS Roma (The Friedkin Group) Stati Uniti Atala (Group Accel) Turchia Avio Aero (General Electric) Stati Uniti
Belfe (Itochu Corporatio) Giappone Benelli (Qianjiang Group Co. Ltd) Cina Bertolli (Unilever / Deoleo) Inghilterra / Spagna Biondi Santi (EPI) Francia Birra Peroni (Asahi Breweries) Giappone Bnl (BNP Paribas) Francia Bottega veneta (Kering) Francia Brioni (Kering) Francia Buccellati (Richemont) Svizzera Buitoni (Nestle via Newlat) Svizzera Bulgari (LVMH) Francia
Cademartori (Lactalis) Francia Carapelli (Deoleo) Spagna Cariparma (Crédit Agricole) Francia Casanova La Ripintura (privato) Hong Kong Cesare Fiorucci (Campofrío Food Group) Spagna CIFA (Zoomilon) Cina Cirio (Unilever / Deoleo) Inghilterra / Spagna Coccinelle (E-Land Europe) Corea del Sud COIN (BC Partners) Inghilterra Compagnia Italiana Forme Acciaio SPA (Zoomlion Heavy Industry Science and Technology Co., Ltd.) Cina Conbipel (Oaktree Capital Management) Stati Uniti Cova (LVMH) Francia
De Rica (Unilever / Deoleo) Inghilterra / Spagna De Tomaso (Ideal Team Ventures Limited) Cina Dietor (Katjes International Gmbh) Germania Dietorelle (Katjes International Gmbh) Germania Dodo (Kering) Francia Ducati [Audi (via Lamborghini Automobili)] Germania Duferco (Novolipetsk Steel Plant) ) Russia
Edison (Électricité de France) Francia Editrice Giochi (Spin Master) Canada Emilio Pucci (LVMH) Francia Energie [Crescent HydePark (via Sixty Group)] Cina, Singapore Eridania (Cristal Union) Francia Eskigel ( R&R Ice Cream plc/Nestlé) Inghilterra /Svizzera
Fastweb (Swisscom SA) Svizzera Fattoria Scaldasole (Andros) Francia Fedrigoni (Bain capital) Stati Uniti Fendi (LVMH) Francia Ferretti (Weichai Power) Cina Ferriera Valsider (Metinvest Holding LLC) Ucraina FIAT (Stellantis) Francia Fiat Ferroviaria (Alstom) Francia Fiorucci [Janie e Stephen Schaffer (privati)] Inghilterra
Galatine (Katjes International Gmbh) Germania Galbani (Lactalis) Francia Gancia (Russian Standard) Russia Gelati Motta (Froneri International) Inghilterra Gianfranco Ferré (Paris Group International LLC) Emirati Arabi Gianni Versace (Michael Kors e Capri Holdings Limited) Stati Uniti Grom (Unilever) Inghilterra Gucci (Kering) Francia
Hey Dude (CROCS) Stati Uniti
Ichnusa (Heineken) Olanda IES, Italiana Energia e Servizi (MOL) Ungheria Indesit (Whirpool) Stati Uniti Inter (Oaktree Capital Management) Stati Uniti Invernizzi (Lactalis) Francia Isole e Olena (EPI) Francia Ita, ex Alitalia (Lufthansa) Germania Italcementi (HeidelbergCement) Germania Italgel (Nestlé) Svizzera Italia Marittima (Evergreen Group) Taiwan Italia – Società di Navigazione (TUI Group) Germania Italo (Mediterranean Shipping Company) Svizzera
Krizia (Marisfrolg Fashion Co. Ltd) Cina
La Perla [Sapinda (Lars Windhorst)] Germania La Rinascente (Central Group) Thailandia Lamborghini (Audi/ Volkswagen Group) Germania Lanificio Cerruti (Njord Partners) Inghilterra Locatelli (Lactalis) Francia Loquendo (Nuance Communication Ltd) Stati Uniti Loro Piana (LVMH) Francia Lumberjack (Ziylan) Turchia
Magneti Marelli (Calsonic Kansei) Giappone Mandarina Duck (E-Land Europe) Corea del Sud Merloni [Whirpool (via Indesit)] Stati Uniti Mila Schon (Itochu Corporation) Giappone Miss Sixty (Crescent HydePark), Singapore Motta gelati (Froneri International) Inghilterra
Parmalat (Lactalis) Francia Passoni & Villa (Alstom) Francia Pastificio Garofalo (Ebro Foods) Spagna Pernigotti (JP Morgan) Stati Uniti Peroni (Heineken) Olanda Perugina (Nestlè) Svizzera Piaggio Aerospace (Mubadala Development Company) Emirati Arabi Pininfarina (Mahindra Group) India Pirelli (Marco Polo International Holding Italy S.p.A.) Cina Plasmon (Heinz) Stati Uniti Poltrona Frau (Haworth Inc.) Stati Uniti Pomellato (Kering) Francia Pucci (LVMH) Francia
Rete TIM (KKR) Stati Uniti Richard Ginori [Kering (via Gucci)] Francia Rigamonti salumificio (JBS SA) Brasile Rottapharm (Mylan) Stati Uniti Ruffino 1877 (Constellation Brands) Stati Uniti
Safilo (Hal Investments) Olanda Saila (Katjes International Gmbh) Germania Saiwa (Mondel?z International) Stati Uniti Saline di Margherita di Savoia (Salins du Midi) Francia Saline di Sant’Antioco (Salins du Midi) Francia SALOV (Bright Food) Cina San Pellegrino (Nestlè) Svizzera Sasib ferroviaria (Alstom) Francia Sasso (Deoleo) Spagna Sergio Rossi (Fosun International Ltd) Cina Sergio Tacchini (Hembly International Holdings) Cina Sixty (Crescent HydePark) Cina, Singapore Sperlari (Katjes International Gmbh) Germania Splendid (Jacobs Douwe Egberts) Olanda Star (GBfoods) Spagna Stock (CVC Capital Partners) Inghilterra
TIM(Vivendi SA, azionista di maggioranza) Francia Trametal (Metinvest Holding LLC) Ucraina
Valentino (Mayhoola for Investments Spc) Qatar Valle degli Orti (Frosta) Germania Versace (Capri Holdings) Stati Uniti
Quale governo inaugurerà i giochi olimpici che inizieranno a Parigi il 26 luglio prossimo con una sfilata sulla Senna di battelli con a bordo le squadre nazionali? Probabilmente un governo dimissionario, quello di Gabriel Attal, mentre l’incaricato da Emmanuel Macron di formare il nuovo governo proseguirà gli incontri ed i negoziati alla luce dei risultati del secondo turno delle elezioni legislative del 7 luglio. Una cosa è certa, Giove, come Macron si è autodefinito nel suo ruolo di presidente, dovrà scendere dall’Olimpo e fare i conti con la Francia reale che gli ha voltato le spalle. “Ora e sempre … desistenza!”, questa è stata la parola d’ordine di un composito “front républicain” che ha dato i suoi frutti ma che certo non ha delineato un vero progetto politico. A sorpresa il Nouveau Front Populaire (Nfp) è risultato primo con 195 deputati, conteggiando anche gli eletti indipendenti di sinistra, di fronte al campo macroniano che passa dai 250 parlamentari del 2022 ai 168 attuali (erano 351 nel 2017). La coalizione centrista deve comunque un centinaio di eletti alle desistenze dei candidati della sinistra. Il Rassemblement national (Rn) pur crescendo da 89 a 143 deputati, non raggiunge né la maggioranza assoluta (289 seggi) né quella relativa. I Républicains (Lr), malgrado la scissione da destra di Éric Ciotti, salvano il mobilio con 56 eletti mentre ne avevano 61 prima della dissoluzione dell’Assemblea. Tutto merito delle desistenze, della disciplina repubblicana delle forze di sinistra, molto meno della coerenza dei macroniani e dei gollisti. Nessun schieramento ha la maggioranza assoluta. Ritorna centrale il ruolo dell’Assemblea nazionale ancor più legittimata da una partecipazione record alle elezioni del 66,7%, mezzo punto in più rispetto al primo turno ed una ventina rispetto al 2022. Adesso comincia il difficile avendo presente due tappe: una possibile, per nuove elezioni legislative che si potranno tenere solo fra un anno, l’altra sicura, la madre di tutte le battaglie, l’elezione presidenziale del 2027. Queste scadenze spiegano in larga misura tutte le mosse sullo scacchiere politico. Il Rn si lecca le ferite ma rimane molto forte, punta tutto sull’instabilità politica e sul bersaglio grosso: Marine Le Pen all’Eliseo. Il suo risultato ha patito decine di candidature improponibili, apertamente razziste, islamofobiche, antisemite, le dichiarazioni contro i bi-nazionali (3,5 milioni in Francia) e l’impreparazione palese dei suoi quadri dirigenti dietro la bella presenza del suo candidato a premier, il ventottenne Jordan Bardella. Denunciando il “patto indegno” e “il partito unico dai gollisti ai trotskisti” (si, anche quest’ultimi hanno aderito al Nfp) che ha scippato loro la vittoria, continueranno a dare voce, se la sinistra non riuscirà a tornare tra questi ceti popolari, alla Francia degli invisibili, degli impoveriti, dei dimenticati dalla globalizzazione che si sentono da decenni disprezzati, marginalizzati e che odiano i “parigini”: deindustrializzazione, crisi del piccolo commercio e dell’artigianato, agricoltori in rivolta contro le politiche green declinate con modalità antisociali, aumento delle tasse sui carburanti fossili mentre si toglie l’imposta sui patrimoni finanziari. Sono gli eredi dei gilets jaunes ai quali non sono state date vere risposte, mentre i servizi pubblici a partire dalla sanità hanno abbandonato i territori rurali e la Francia minore delle piccole città dove vivono milioni di persone. Chi la dura la vince, si potrebbe dire guardando alla situazione nei due blocchi arrivati per primi. Il tentativo palese dei macronisti è quello di raggrumare una maggioranza sia pure relativa intorno ad Ensemble!, la coalizione che elesse Macron all’Eliseo. Ma nel campo presidenziale tutti prendono le distanze dal Presidente e si dividono attorno ad un quesito: occorre proporre o meno alla sinistra una coalizione? Edouard Philippe, ex primo ministro e leader di Horizons, uno dei partiti macroniani, che vorrebbe presentarsi candidato alle elezioni presidenziali, propone un’alleanza di destra con i repubblicani (insieme sulla carta si tratterebbe di circa 235 deputati) guidata dall’ex-ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, ma sconterebbe una spaccatura del suo campo e probabilmente anche tra i gollisti. Gabriel Attal, ex primo ministro ed ex socialista, vuole invece negoziare con la sinistra non insoumise un accordo di governo che faccia della lotta al cambiamento climatico una priorità assoluta, una maniera per evitare di parlare di altri scottanti dossier a partire da quello riguardante la riforma delle pensioni. La gauche soddisfatta di questo risultato inatteso per ora tiene; da Jean-Luc Mélenchon à François Hollande passando per Olivier Faure, segretario del Partito socialista (Ps) e Marine Tondelier, presidente dei verdi, tutti ribadiscono il grande valore dell’unità raggiunta e mettono in primo piano il programma del Nfp. Mélenchon ha chiesto a Macron di affidare l’incarico di costituire il governo ad un esponente del Fronte per formare un esecutivo che attui i punti principali delle loro proposte: da subito pensione di nuovo a 62 anni, aumento del salario minimo a 1.600 euro netti al mese, blocco di alcuni prezzi di beni di consumo e delle tariffe di gas e luce, ampia riforma per ovviare ai deserti sanitari della Francia rurale e periurbana, ripristino della tassazione sulle ricchezze finanziarie, rispetto dei diritti delle donne e degli immigranti e così via. Tra le righe si percepisce la volontà da parte di qualcuno di confrontarsi, pur partendo dai punti programmatici della sinistra, con alcuni esponenti macroniani. Impresa particolarmente difficile visto che si chiede loro di rinnegare alcune delle riforme faro dei loro governi. Come che sia il Front populaire si è impegnato ad indicare in settimana un nome per l’incarico da primo ministro. È vero, il Nfp ha incrementato i suoi voti passando dai 138 seggi della Nupes (Nouvelle union populaire écologique et sociale) ai 182 eletti del Nfp ai quali vanno aggiunti altri 13 deputati orientati a sinistra. Ma i rapporti di forza si sono riequilibrati perché Lfi rimane sostanzialmente stabile, i socialisti eleggono 59 parlamentari (il doppio anche a causa della desistenza selettiva dei candidati di centro e di destra che ha penalizzato Lfi), i verdi 28 e i comunisti solo 9. Lfi conosce anche il distacco di cinque suoi esponenti di primo piano guidati da François Ruffin e Clémentine Autain che contestano la guida di Mélenchon. Si tratta di un disaccordo che riguarda la mancanza di democrazia interna, la messa in disparte dei dissidenti e la non sufficiente attenzione alla Francia che vive fuori dalle grandi città e dalle periferie urbane. Sarebbe un grave errore per la sinistra, sostengono, mettere i ceti popolari delle banlieue contro i perdenti della globalizzazione. Come dice Ruffin: “dobbiamo unire gli abitanti dei borghi e quelli delle torri” (le case di edilizia popolare delle banlieue). Va decostruito il blocco sociale del Rn per costruire una nuova maggioranza di sinistra stabile che superi anche alcuni aspetti di alleanza solo elettorale del Nfp. C’è comunque da considerare che dopo il fallimento dei socialisti ed in particolare della presidenza di François Hollande, la sinistra sarebbe sparita nelle elezioni del 2022 se Mélenchon non l’avesse salvata proponendo la Nupes che consentì a tutti i partiti della gauche di ottenere una rappresentanza parlamentare. Ora ha ripetuto l’operazione salvataggio con la proposta del Front populaire. La visione di Mélenchon è quella di una “Nuova Francia” creola e multietnica, “il cui cuore siano i quartieri popolari dove vive la maggioranza dei suoi giovani che sono la parte più importante della società. Gli altri vogliono dividere i francesi, noi vogliamo unirli”. Mentre Parigi viene addobbata per celebrare in pompa magna la festa dello sport, difficilmente la sola fiamma olimpica darà conforto ad un paese così lacerato.
L’occupazione intensifica la sua aggressione contro Gaza City e bombarda i civili utilizzando armi americane proibite a livello internazionale, e non raccoglierà altro che vergogna e sconfitta.
Gaza City è testimone di una serie di continui attacchi aerei e cinture di fuoco “israeliani”, i più intensi degli ultimi mesi. Questi attacchi mirano a spianare la strada ai veicoli “israeliani” per tentare di entrare nelle aree della città, in particolare nei quartieri di Al-Daraj e Al-Tuffah, che non erano riusciti a prendere d’assalto nelle precedenti invasioni.
L’obiettivo principale dell’occupazione è continuare la distruzione sistematica e uccidere il maggior numero possibile di civili disarmati, creando ulteriori crisi umanitarie dopo aver chiesto a migliaia di civili di evacuare le loro case e fuggire sotto il fuoco dell’artiglieria pesante, dovendo dormire per terra e per strada senza poter portare via nulla dalle loro case.
L’occupazione continua ad assediare le aree di Tal Al-Hawa e Al-Rimal, mentre le famiglie sono intrappolate attorno alle università e alle rotonde industriali, utilizzando tutti i tipi di armi di fabbricazione americana proibite a livello internazionale contro il nostro popolo nella Striscia nel disperato tentativo di imporre la sua volontà e raggiungere i suoi obiettivi aggressivi.
L’unica cosa rimasta a questo nemico fascista è usare armi nucleari, rivelando la portata della sua brutalità e disponibilità a oltrepassare tutte le linee rosse e a violare tutte le leggi e norme internazionali senza responsabilità.
Questa escalation sionista mira anche a fare pressione sulla resistenza affinché ammorbidisca la sua posizione nei negoziati. È un metodo vile e codardo che si basa sul prendere di mira e uccidere i civili e distruggere le loro case come mezzo di ricatto; tuttavia, la resistenza è pienamente consapevole di questi tentativi sionisti, determinata a soddisfare tutte le sue richieste, ad affrontare la nuova escalation sionista e a contrastare i suoi obiettivi dannosi, avendo in mano le carte della pressione e della forza per raggiungere questo obiettivo.
Da questi crimini il nemico sionista non raccoglierà altro che vergogna e sconfitta; il nostro popolo e la resistenza hanno dimostrato la loro capacità di resistere e sfidare un’aggressione brutale e codarda, e questa nuova aggressione a Gaza City senza dubbio fallirà, con l’occupazione che uscirà sconfitta e umiliata dopo aver ricevuto colpi significativi dalla resistenza.
Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina Dipartimento centrale dei media 8 luglio 2024
I becchini della Carta Costituzionale non si trovano solo nella pessima destra italiana. Una sinistra ubriaca di federalismo non potrà opporsi all’autonomia differenziata e al premierato della Meloni.
Federalismo e presidenzialismo sono patrimonio del padronato italiano – Federico Giusti
Ci pare evidente che esista una autentica sudditanza delle forze politiche rispetto al sistema padronale e al grande capitale economico e finanziario, prova ne sia la totale dimenticanza dei diritti sociali, la privatizzazione della sanità e dell’istruzione e le sirene assordanti della previdenza e della sanità integrative che ormai hanno guadagnato consensi anche nel sindacato italiano.
La Cgil ha raccolto le firme per un Referendum contro il jobs act ma non una parola ha speso sulla perdita del potere di acquisto e di contrattazione risultato di quei modelli contrattuali affermatisi con la concertazione sindacale.
Se limitiamo il nostro ragionamento alla riforma presidenzialista non possiamo che menzionare due fatti incontrovertibili, la nascita della seconda Repubblica con l’avvento della elezione diretta dei Sindaci e il sistema maggioritario e oggi a autonomia differenziata senza dimenticare lo smantellamento dell’industria statale attuato da Romano Prodi.
Prima si è fatta strada l’idea del sistema forte e della governabilità e oggi si mira direttamente a costruire un modello che pone fine anche all’idea di sovranità affermatasi con la cacciata del fascismo e della Monarchia.
Ironia della sorte ormai metà degli aventi diritto non vanno alle urne a conferma che il sistema maggioritario è l’esatto contrario di quella partecipazione attiva che si diceva di volere favorire.
I becchini della Carta Costituzionale non si trovano solo a destra, prova ne sia il sostegno alla autonomia differenziata proveniente da ampi settori del centro sinistra, quelli tradizionalmente vicini, o emanazione, delle imprese che poi sono gli stessi artefici delle privatizzazioni e della precarizzazione del lavoro.
L’attacco finale è arrivato in questi giorni con il presidenzialismo del “Capo del Governo” che attribuisce pieni poteri all’Esecutivo e al presidente del Consiglio, il potere del popolo in ambito democratico si riconosceva nella forma del governo Parlamentare elaborato a suo tempo dalla assemblea Costituente, diventa quindi realtà il disegno strategico sostenuto tradizionalmente dalle destre e da ampi settori del padronato.
Qualche analogia con quanto accadde con l’avvento del Fascismo sarebbe probabilmente tacciabile con i peggiori epiteti, eppure a pensar male talvolta ci si indovina.
Quanto non era riuscito a Renzi e a Berlusconi, bocciati sonoramente ai Referendum nel 2008 e nel 2016 è stato possibile con il Governo Meloni.
Le mire presidenzialiste hanno sempre mosso i disegni delle destre tanto che all’indomani della cacciata del fascismo tanto il presidenzialismo quanto il federalismo erano stati esclusi come emblemi di un potere autoritario, con Mani Pulite e i disegni strategici del padronato sono tornati invece di moda guadagnando consensi anche nelle forze di centro sinistra che in teoria dovrebbero difendere la Carta Costituzionale.
La difesa astratta della Costituzione, come anche dell’antifascismo, restano quindi un bagaglio ideologico inutilizzabile in presenza dello stravolgimento della stessa Carta e per tutti quei processi di rafforzamento dell’esecutivo e delle associazioni datoriali avvenuti da 40 anni ad oggi.
Meloni raccoglie solo i frutti di politiche servili al grande capitale e non sarà certo la riconquista di qualche Ente locale ad invertire la tendenza in atto.
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