Verso il Congresso 2025
Documento congressuale 1: fuori la guerra dalla Storia.
FUORI LA GUERRA DALLA STORIA.
PER UN’ALTERNATIVA ANTIFASCISTA E POPOLARE ALLA GUERRA E AL
NEOLIBERISMO
Verso il Congresso ……………………………………………………………………………………………………….2
Premessa …………………………………………………………………………………………………………………………2
- IL CONGRESSO………………………………………………………………………………………………………………2
- LA GUERRA. CAPITALISMO E GUERRA, CAPITALISMO E’ GUERRA…………………………………….3
- LA CRISI ECOLOGICA E L’EMERGENZA CLIMATICA………………………………………………………….7
- L’ ”EUROPA REALE” ……………………………………………………………………………………………………8
- LA CRISI DELLA SINISTRA EUROPEA………………………………………………………………………………..10
- SENZA LOTTA DI CLASSE NON C’E’ SINISTRA ……………………………………………………………….12
- DIRITTO AL REDDITO ……………………………………………………………………………………………………13
- SULL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE……………………………………………………………………………………14
- L’IMMIGRAZIONE COME QUESTIONE DI CLASSE …………………………………………………………….15
- INTERSEZIONALITA’ o ROSSOBRUNISMO ………………………………………………………………..17
- I NOSTRI REFERENTI SOCIALI……………………………………………………………………………………….19
- II Sud nelle guerre militari, economiche, climatiche. Per un socialismo meridiano…………….21
- LA CULTURA CONTRO IL FASCISMO E IL NEOLIBERISMO…………………………………………………23
- LA DEMOCRAZIA………………………………………………………………………………………………………..24
- LE CULTURE DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA……………………………………………………..26
- NON DELEGARE L’ANTIFASCISMO AL CAMPO LARGO …………………………………………………….26
- ANTIFASCISMO POPOLARE………………………………………………………………………………………….28
- COSA INTENDIAMO PER SINISTRA DI ALTERNATIVA?……………………………………………………..30
- IL RUOLO DEL PARTITO, AUTONOMIA E UNITA’ …………………………………………………………….31
- UN NUOVO QUADRO POLITICO …………………………………………………………………………………..34
- UN BILANCIO …………………………………………………………………………………………………………….36
- USCIRE DALL’ELETTORALISMO ESTREMISTICO ………………………………………………………………38
- LA NOSTRA PRESENZA NEGLI ENTI LOCALI…………………………………………………………………….39
- LA QUESTIONE DELLE ALLEANZE ………………………………………………………………………………….40
- Contro le destre una nuova coalizione popolare sarebbe necessaria o almeno auspicabile..41
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- PER UN’ALTERNATIVA ANTIFASCISTA ALLA GUERRA E AL NEOLIBERISMO: LA VIA MAESTRA
DELLA COSTITUZIONE………………………………………………………………………………………………………43
Verso il XII congresso
“Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto,
bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando
dall’inizio. Mi sono convinto che bisogna sempre contare
solo su se stessi e sulle proprie forze, non attendersi niente
da nessuno e quindi non procurarsi delusioni. Che occorre
proporsi di fare solo ciò che si sa e si può fare e andare per
la propria via.”
(Antonio Gramsci dalla lettera al fratello Carlo del 12/9/1927)
Premessa
Questo testo si è sviluppato a partire dalle note proposte in commissione politica dal segretario per
un confronto costruttivo. Il titolo sintetizza con due slogan i compiti politici che sono di fronte al
partito: la lotta contro la guerra riprendendo il motto che ci ha lasciato in eredità la compagna Lidia
Menapace e la necessità di dare alla lotta contro l’ultradestra in Italia e in Europa un contenuto
antiliberista ed effettivamente orientato all’attuazione della Costituzione. Questo documento,
proposto e sottoscritto dalla maggioranza della commissione politica, va considerato come una
proposta di discussione sui nodi politici che abbiamo di fronte. Sarà asciugato, modificato e
integrato, sulla base delle proposte e del confronto con le compagne e i compagni del partito,
entro la prossima riunione del CPN come prevede il regolamento congressuale.
- IL CONGRESSO
Il congresso che ci attende dovrà affrontare la crisi che vive da tanti anni il nostro partito
in termini di adesioni, visibilità, radicamento sociale, concreta capacità conflittuale,
risultati elettorali. Possiamo andare orgogliosi della nostra coerente resistenza al
neoliberismo e alla guerra ma è doveroso un bilancio veritiero sul progressivo
indebolimento del nostro partito a partire dalla scelta che facemmo nel 2008 di costruire
“in basso a sinistra” un’alternativa ai due poli che non siamo riusciti a concretizzare. Non
si tratta di rinunciare alle nostre ragioni ma di non rimuovere la necessità evidente di una
riflessione critica. L’apertura del percorso congressuale non è semplicemente una
scadenza statutaria ma corrisponde a una necessità di riflessione collettiva per affrontare
le difficoltà che il nostro partito vive da più di un quindicennio e il quadro nuovo che si è
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determinato nell’ultimo triennio sul piano internazionale, in Europa e anche nel nostro
paese. Si rendono necessari una riflessione strategica e un confronto costruttivo che
coinvolgano l’insieme del nostro corpo militante.
- LA GUERRA. Capitalismo e guerra, capitalismo è guerra
La globalizzazione capitalistica seguita all’implosione del sistema sovietico sembrava aver segnato il
trionfo del capitalismo, rimasto senza avversari, al punto che i corifei del capitale parlarono di “fine
della storia”, cioè della fine del conflitto e di ogni conflitto.
Le cose non sono andate affatto così: al contrario, il capitalismo vincente secerne di continuo
dal suo stesso seno la guerra, guerre di ogni tipo. Mentre scriviamo, sembra che le guerre
guerreggiate in corso nel mondo assommino alla cifra impressionante di 56, forse mai come ora il
mondo è in guerra, il capitalismo realizzato è guerra
Gli ideologi del capitale sostenevano che le guerre derivavano dall’esistenza del nemico
comunista e dalla necessità di difendersene, ad ogni costo, anche a costo della guerra; ma in assenza
del comunismo internazionale e più ancora in assenza di qualsiasi messa in questione del primato
del capitalismo, chi e cosa provoca la guerra?
Già Karl Marx enunciò a suo tempo la legge della concentrazione crescente dei capitali
(ripresa e attualizzata dall’economista Emiliano Brancaccio): si tratta di un processo formidabile che
si svolge sotto i nostri occhi e che – naturalmente – non subisce alcun limite né controllo dato che
la ricchezza travalica in ogni senso gli Stati e il loro residuo potere, anzitutto il vecchio e anacronistico
potere di tassazione. Semmai sono gli Stati a ubbidire ai voleri del capitale finanziario, mettendogli
a disposizione anche gli apparati militari secondo le sue scelte e necessità.
Secondo Oxfam l’1% più ricco del pianeta possiede il 43% di tutte le attività finanziarie
globali. In Medio Oriente, l’1% più ricco detiene il 48% della ricchezza finanziaria; in Asia, l’1% più
ricco possiede il 50% della ricchezza; e in Europa, l’1% più ricco possiede il 47% della
ricchezza. Guardando all’Italia, a fine 2022, l’1% più ricco, sotto il profilo patrimoniale, deteneva una
ricchezza 84 volte superiore a quella del 20% più povero della popolazione.
Naturalmente questa enorme concentrazione di capitale non elimina le contraddizioni fra i
capitali, che aspirano ad estendersi anche dal punto di vista geo-politico, per assicurarsi materie
prime e mercati. Queste contraddizioni inter-capitaliste e inter-imperialiste non sono
sostanzialmente diverse da quelle descritte da Lenin che portarono alle guerre mondiali del
Novecento. Ma ora non si tratta solo dello strapotere del “complesso militare-industriale”, fatto di
accordi organici fra industria bellica, militari e potere politico, che già Eisenhower denunciava come
il pericolo per la democrazia. Ora c’è molto di più, e di peggio. La concentrazione dei capitali si riflette
in un’inaudita concentrazione di potere e di sapere, che è senza precedenti nella storia dell’umanità
e che ci parla ancora sempre di guerra.
Anzitutto perché gli oligopoli industriali e finanziari riassunti nell’acronimo GAFAM (che sta
per Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft) controllano e gestiscono i potenti strumenti legati
all’informatica, ai social media e alla cosiddetta “intelligenza artificiale creativa”. Quest’ultima segna
un passaggio davvero epocale, paragonabile solo all’applicazione delle macchine a vapore alla
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produzione che segnò la rivoluzione industriale del sec. XVIII: se allora fu sussunta nelle macchine
del capitale la forza muscolare dell’uomo, ora (realizzando un vaticinio di Marx) vengono sussunte
nel capitale l’intelligenza umana e la stessa creatività, con conseguenze che è perfino difficile
immaginare.
Quanto allo squilibrio di potere che ne deriva, basti dire che mentre noi, il consorzio degli
umani, non sappiamo quasi nulla di GAFAM e delle sue scelte, GAFAM sa tutto di ciascuno di noi e
da questo sapere illimitato trae profitto: conosce i nostri gusti e le nostre scelte, le nostre idee e le
nostre ricerche, le nostre innovazioni e i nostri ricordi, i nostri orientamenti politici, le nostre
comunicazioni più intime e segrete, i nostri testi, insomma viene posseduto, privatisticamente, il
senso del mondo. Non è ancora percepito come meriterebbe il fatto decisivo che tale
padroneggiamento privatistico del senso del mondo crea profitto, che ciascuno di noi viene fatto
partecipare al ciclo di valorizzazione del capitale, e che gli immensi profitti che ne derivano sono
integralmente appropriati da altri, senza che noi produttori di senso ci rendiamo neanche conto di
partecipare a questi giganteschi processi.
Le principali guerre attualmente in corso ci danno solo un assaggio (il peggio deve ancora
venire, e verrà) dell’impiego diretto del sistema di informazioni legato all’informatica e
all’intelligenza artificiale creativa per lo sterminio e la guerra.
Da notare che la guerra sembra più che mai essere fine a sé stessa, nel senso che il vero fine
della guerra è che la guerra possa esistere ed esista; nessuno può credere che davvero l’Occidente
o la Russia decidano di spendere miliardi di dollari e centinaia di migliaia di vite umane solo per i
territori del Donbass, né che il genocidio in atto in Palestina possa essere davvero motivato solo da
un desiderio di vendetta di Israele. No, il vero fine della guerra è che guerra vi sia, portando con sé
spese militari, profitti, e consensi.
Il capitalismo vive infatti una generale crisi di sovrapproduzione la quale è in continuo
aggravamento ed è, in via di principio, ineliminabile: esiste infatti contraddizione fra la produzione
capitalistica che tende ad essere, ed effettivamente è, illimitata, e le risorse del pianeta che sono
invece limitate. I problemi irrisolvibili dell’inquinamento e del riscaldamento climatico, con le loro
conseguenze catastrofiche, sono il segnale di questa contraddizione. D’altra parte è difficile vendere
tre automobili o quattro lavapiatti ad una stessa famiglia, nonostante quella follia generalizzata che
va sotto il nome di “obsolescenza programmata”. Tanto più che la sconfitta del movimento operaio
anche a livello sindacale ha consentito che i profitti venissero cercati nella riduzione del salario, sia
del monte-salario complessivo (per la riduzione numerica degli occupati) sia dei salari individuali,
tutto in obbedienza alle politiche di austerity dettate dal capitale finanziario internazionale, dalla
BCE e dal FMI. Ma questo determina un circolo vizioso: salari ridotti significano riduzione degli
acquisti e la riduzione degli acquisti aggrava la crisi di sovrapproduzione. La soluzione (miserabile e
temporanea soluzione) di questa crisi è consistita in processi di vera e propria de-industrializzazione
accompagnati dalla finanziarizzazione del capitale. L’Italia ne sa qualcosa: dopo aver spremuto per
decenni non solo la forza lavoro operaia ma anche i sussidi statali di ogni tipo, gli eredi Agnelli hanno
proceduto prima alla delocalizzazione delle centrali della Fiat (e della relativa possibilità di
tassazione), poi a fusioni che cedevano il comando ad altre industrie (FCA e ora Stellantis), infine
alla chiusura di fatto delle fabbriche ex-Fiat, con decine e decine di migliaia di disoccupati, spostando
i capitali nella speculazione finanziaria.
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In secondo luogo perché la fabbricazione e al vendita delle armi rappresenta la soluzione
possibile alla crisi si sovrapproduzione. Le armi sono la sola merce che può, e deve, essere
continuamente distrutta e rinnovata, in misura sempre crescente. Né si deve dimenticare che
essendo gli USA il luogo principale di produzione delle armi, quando si dice che sono state mandati
all’Ucraina o a Israele miliardi di dollari di armi si deve in realtà intendere che tali miliardi sono stati
mandati a sostenere l’economia USA. Ciò vale anche per l’Italia e per la principale fabbrica d’armi
Leonardo, a cui partecipano direttamente esponenti del centrosinistra e della destra, come Violante,
Guerrini, Minniti e Crosetto.
E la CE ha escluso le spese delle armi dal computo delle spese da considerare ai fini del deficit, e ciò
significa che le armi saranno l’unico luogo di investimento degli stati.
Come ha denunciato Noam Chomsky, il warfare si sostituisce così al welfare (la guerra si sostituisce
al benessere).
Il Documento Programmatico del Governo (settembre 2024) ha stanziato 32,3 miliardi per le armi
con un incremento di 1,6 miliardi (erano 30,7 miliardi l’anno precedente); ci si deve avvicinare al 2%
del PIL per le spese militari, come il padrone americano ha comandato. In particolare è previsto un
nuovo acquisto degli obsoleti F-35, passando da 90 a 115 velivoli complessivi (ogni aereo costa 280
milioni). Il voto al Parlamento europeo per la guerra del settembre 2024 (FdI, FI, PD) comporterà
altri 5 miliardi di spese militari.
Infine la guerra, gestita dal monopolio capitalistico dei mass media, crea anche consenso al potere,
facendo emergere e utilizzando le bestie del nazionalismo, del razzismo, del suprematismo
occidentale.
In questo senso se il fascismo genera guerra, la guerra genera fascismo.
La lotta contro la guerra e la militarizzazione delle relazioni internazionali, in questa fase storica
segnata dallo scontro tra il blocco occidentale e le potenze emerse dalla globalizzazione
neoliberista, è pertanto il nostro compito prioritario. La guerra mondiale a pezzi rischia di
trasformarsi in uno scontro militare diretto e in un conflitto nucleare. Siamo contro la guerra senza
se e senza ma. Ribadiamo il valore della posizione che abbiamo assunto dall’inizio dell’invasione
russa dell’Ucraina (direzione del 2 marzo 2022
https://www.rifondazione.app/direzionepolitica/220302/220302documento_approvato.html).
Rivendichiamo gli ideali dell’internazionalismo socialista e comunista che – con i principi della nostra
Costituzione nata dalla Resistenza e le elaborazioni dei movimenti pacifisti – continuano a essere la
nostra bussola in un mondo che il capitalismo precipita di nuovo nella guerra. Una sinistra degna di
questo nome non può che rifiutare di farsi arruolare in nome dell’atlantismo o di una presunta
superiorità dell’Occidente nella logica di guerra per riaffermare la supremazia unipolare degli Stati
Uniti o il ruolo dominante del dollaro negli scambi internazionali.
La sinistra, le/i comuniste/i, i movimenti sociali debbono rifiutare le logiche colonialiste, imperialiste
e suprematiste di un Occidente che è complice da mesi del genocidio a Gaza, cartina di tornasole
della reale natura della pretesa di giustificare il ricorso alla guerra con argomenti umanitari, di
ripristino della legalità internazionale, di affermazione dei principi democratici.
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Innanzitutto bisogna criticare l’imperialismo di casa nostra. L’imperialismo statunitense, che non
accetta di essere sfidato, alimenta lo scontro sul terreno militare per riconquistare l’egemonia
perduta, il che lo rende più pericoloso. Usa l’arma politica (“le democrazie”, cioè gli alleati degli Stati
Uniti, “contro le autocrazie”); l’arma economica, attraverso il dominio delle sue multinazionali, la
supremazia monetaria ed energetica; l’arma delle leggi extraterritoriali, illegali secondo il diritto
internazionale, imposte a paesi e aziende che commerciano con paesi da loro designati come nemici
a cui impongono sanzioni unilaterali a cui sovente si accoda l’UE; l’arma della NATO, alleanza che
avrebbe dovuto sciogliersi con il Patto di Varsavia e invece estende la sua sfera di intervento
all’intero globo. Gli USA usano la guerra per rilanciare la loro egemonia sull’Europa, le classi dirigenti
UE per rafforzarsi come polo militare e imperialista seppur subalterno, potenziare il proprio
complesso militare industriale, imporre politiche di austerità alle classi lavoratrici dei propri paesi.
La guerra provoca crisi economica, minaccia la stessa tenuta democratica e restringe ovunque gli
spazi di dissenso.
La liberazione dell’Italia e dell’Europa dalla NATO e per un sistema di comune sicurezza e per il
disarmo è un obiettivo strategico nella nostra lotta per la pace. Nell’immediato è fondamentale
costruire forti movimenti per il cessate il fuoco, in Ucraina come in Medio Oriente, premere affinché
il nostro paese sviluppi una posizione autonoma di trattativa e mediazione sul piano internazionale
in attuazione dell’articolo 11 della Costituzione, rilanciare gli organismi multilaterali, in particolare
la centralità e la funzione dell’ONU, che sono stati indeboliti dalle politiche neocon degli Stati Uniti
e riaffermare la necessità del rispetto del diritto internazionale, contrastare la nuova corsa agli
armamenti a partire dal riarmo europeo chiedendo il taglio delle spese militari.
La nostra critica dell’imperialismo statunitense non deve farci perdere lo sguardo d’insieme sulla
“totalità” di questa fase della “modernità capitalista” (Ocalan). Bisogna evitare di farsi trascinare
nelle polarizzazioni reazionarie dominanti. Nella guerra capitalista la nostra è la parte della pace non
quella di una nuova versione del campismo. Non bisogna dimenticare la lezione di Lenin, Rosa
Luxemburg e dei socialisti che si ritrovarono a Zimmerwald. Abbiamo condannato l’espansionismo
e la guerra per procura della NATO ma questo non può implicare una giustificazione dell’invasione
russa dell’Ucraina o l’esaltazione di Putin e della sua ideologia nazionalista e conservatrice. La nostra
solidarietà con il popolo palestinese non implica certo un giudizio positivo sul regime teocratico
iraniano. Lottiamo per la pace come condizione per lottare in tutto il mondo per la democrazia, la
liberazione da ogni forma di oppressione oscurantista, i diritti delle classi lavoratrici e delle donne,
la giustizia sociale e ambientale, per un socialismo del XXI secolo.
Va ben inquadrata da un punto di vista anticapitalista anche la questione del multipolarismo che di
fatto già esiste. Abbiamo la consapevolezza che non c’è nessun polo che sia alternativo al
capitalismo e i pericoli di guerra mondiale vengono proprio dalle contraddizioni fra i poli capitalistici.
Bisogna apprezzare il multipolarismo e per questo bisogna difendere il diritto internazionale,
restituire centralità e riformare l’ONU e le sue agenzie, creare un quadro di regole condivise,
costruire le condizioni economiche per la pace. Da sempre non riconosciamo la legittimità dei club
dei paesi ricchi come il G7 che pretendono di risolvere i problemi del mondo imponendo i propri
interessi. Per questo apprezziamo il ruolo positivo dei BRICS nel determinare la possibilità di mettere
in discussione la prepotenza degli USA e il ruolo dominante del dollaro negli scambi internazionali.
Non bisogna però compiere l’errore di scambiare i BRICS per uno schieramento antimperialista o
anticapitalista. Il nostro compito di comuniste/i è quello di lottare per la pace e proporre un ordine
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mondiale più giusto e democratico che sia fondato sulla cooperazione e il riconoscimento dei diritti
di tutti i popoli in un quadro di regole che tenda a scoraggiare il ricorso alla guerra. Bisogna fare i
conti col fatto che Europa ed Occidente non possono più essere considerati l’epicentro attorno a cui
ruota il resto del globo. È su questa base che il suprematismo bianco riemerge nelle nostre società
e tra le classi dominanti.
Un partito comunista, oggi più che mai, deve essere IL PARTITO DELLA PACE.
“Oggi ci troviamo di fronte alla scelta tra sterminismo e imperativo ecologico umano. La causa delle
due crisi esistenziali globali (guerra e cambiamento climatico) che minacciano la specie umana è il
capitalismo, con la sua irrazionale ricerca di una accumulazione esponenzialmente crescente e di
potere imperialistico in un ambiente globale limitato. L’unica risposta possibile a questa minaccia
illimitata è un movimento rivoluzionario universale radicato sia nell’ecologia che nella pace, che
cambi rotta rispetto all’attuale distruzione sistematica della terra e dei suoi abitanti e che offra come
alternativa un mondo di uguaglianza sostanziale e sostenibilità ecologica, vale a dire il socialismo.”
John Bellamy Foster, Note sullo sterminismo per i movimenti ecologici e pacifisti del ventunesimo
secolo, Montly Review 2024]
- LA CRISI ECOLOGICA E L’EMERGENZA CLIMATICA
La gravità della crisi ecologica e l’emergenza rappresentata dal cambiamento climatico non possono
essere affrontate con una logica che mette al centro gli interessi delle grandi imprese e del mercato.
Oggi arretrano gli obiettivi di un Green New Deal europeo e la destra cavalca il negazionismo a difesa
del capitalismo fossile o dei pesticidi.
Mentre alle Conferenze delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici il mondo dichiara l’impegno a
«abbandonare i combustibili fossili», le compagnie petrolifere e del gas si stanno muovendo nella
direzione opposta, raddoppiando le trivellazioni che provocano danni al clima e alimentano disastri
avvelenando noi, la nostra aria, la terra e l’acqua. Negli USA Trump definisce il cambiamento
climatico una bufala e si schiera con i petrolieri, ma gli stessi democratici hanno continuato a
autorizzare nuove estrazioni e il fracking vietato in Europa. La tendenza del capitalismo – modo di
produzione fondato sull’accumulazione infinita di capitale attraverso lo sfruttamento del lavoro e
della natura – è quella all’aumento del degrado ambientale e solo un’azione che ponga al primo
posto i bisogni sociali e la salvaguardia degli equilibri ecologici può frenare le catastrofi prodotte
dalla ricerca del profitto.
È necessaria una critica dell’“ecologia di mercato” che non sfida il sistema capitalista. C’è bisogno di
un punto di vista di classe e anticapitalista – senza dimenticare che i socialismi novecenteschi sono
stati produttivisti e sviluppisti ignorando i limiti naturali – per affrontare la crisi ecologica. Bisogna
costringere i poteri pubblici a imporre la riduzione delle emissioni climalteranti come a impedire la
cementificazione selvaggia del territorio o l’avvelenamento delle acque e l’estinzione delle specie
animali.
Senza una “politica climatica del 99%” non ci sarà il consenso e una forza popolare per imporre
un’autentica riconversione ecologica. La protesta degli agricoltori rapidamente recepita da governi
e commissione europea dimostra quanto sia poco credibile una “transizione” che non pone in
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discussione il neoliberismo: invece di mettere in discussione le distorsioni della politica agricola
comune e l’agrobusiness si è rinunciato alla lotta contro i pesticidi.
Alla paura e al rifiuto della riconversione ecologica che si diffonde tra settori crescenti delle classi
popolari non si risponde assecondando il complottismo. il negazionismo, la propaganda della destra
contro l’ambientalismo ideologico. C’è bisogno di una visione ecosocialista e di un programma che
inserisca le trasformazioni necessarie per affrontare le emergenze ambientali entro una piattaforma
di giustizia sociale e di miglioramento delle condizioni di vita per tutte/i. La riconversione ecologica
dell’economia deve essere accompagnata dalla ricerca attiva della piena occupazione con pari
condizioni di lavoro e salario, la riduzione dell’orario di lavoro, un reddito di base, attraverso un
Green New Deal radicale che può essere frutto solo di una pianificazione democratica e partecipata
che abbia al centro il soddisfacimento di bisogni collettivi e il potenziamento dello Stato sociale.
Lavoratrici e lavoratori non devono essere posti nella condizione di dover temere la disoccupazione
a causa della riconversione ecologica ed energetica che, accanto alla riduzione dei posti di lavoro in
settori da riconvertire o superare, deve portare all’espansione di altre forme di occupazione verdi.
Sono necessari massicci piani di investimento europei affinché le aziende e i servizi pubblici possano
creare nuovi posti di lavoro e formare le persone ad essi destinate. C’è bisogno di un punto di vista
antimperialista perché i paesi del sud globale non solo hanno subito e subiscono le conseguenze
economiche e ecologiche della rapina di risorse che ha alimentato lo sviluppo capitalistico ma anche
l’impatto più forte del cambiamento climatico. Come insegna l’esperienza del movimento operaio
nella lotta contro lo sfruttamento capitalistico, va affiancata a una prospettiva ecosocialista la lotta
per obiettivi ravvicinati e progetti concreti. Le lotte immediate e le vittorie parziali sono
fondamentali per combattere il deterioramento ambientale. A lungo termine aiutano ad aumentare
la consapevolezza e a promuovere l’attivismo dal basso. Un partito della rifondazione comunista
non può che essere un partito ecologista e in questo senso va recuperata tutto il grande patrimonio
di saperi e lotte che hanno caratterizzato l’ecologismo in Italia con un forte ruolo dell’ecomarxismo
e un’internità alla sinistra e al movimento operaio. Di questa storia dagli anni ’90 Rifondazione è
stata parte attiva e dobbiamo lavorare per l’incontro tra questa tradizione e le nuove generazioni di
attiviste/i. Il dibattito internazionale nei movimenti e nelle università sulla riscoperta dell’ecologia
di Marx, sull’ecosocialismo e sul “comunismo della decrescita”, lo stesso slogan “cambiare il sistema
non il clima” mostrano come anche la catastrofe ecologica ponga il tema della rifondazione
comunista e del socialismo del XXI secolo.
- L’ ”EUROPA REALE”
Con l’ultimo paper di Mario Draghi sulla competizione, tutto incentrato sulla scelta di fare della
produzione militare l’asset fondamentale della UE per consentirne capacità di “difesa” ed
affermazione nel nuovo quadro che si va determinando di conflitti permanenti si completa
l’orizzonte in cui opera la UE. È un lungo processo di stravolgimento del modello sociale europeo e
del compromesso democratico affermatisi dopo la vittoria sul nazifascismo. La costruzione europea
già piegata all’ideologia neoliberista ora va alla guerra. Con profondi tratti ademocratici conseguenti
alle scelte di edificarsi intorno al funzionalismo ed al metodo intergovernativo, senza regole
classiche della rappresentanza. Le tappe salienti di questo processo sono state Maastricht, trattato
segnato da un’impronta ideologica indelebile, l’austerità, che trasferisce il controllo di bilancio fuori
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dalla disponibilità dei Parlamenti, la guerra, che diviene la funzione dominante della UE. Queste
tappe concrete sono state accompagnate da un intenso processo di revisionismo storico che ha
riguardato tutta la Storia del’900. La Commissione Von Der Leyen rappresenta il punto attuale di
gestione di questo processo. La retorica del conflitto tra europeisti e nazionalisti non può
nascondere le importanti convergenze che, grazie al metodo intergovernativo, si realizzano da
entrambi i lati nell’operare concreto, dalla guerra ai migranti. L’affermazione crescente di destre
reazionarie è stata favorita dalle politiche neoliberiste e di guerra che creano impoverimento e
disuguaglianze crescenti. Lungi dal procedere in una politica di integrazione sociale i 35 anni seguiti
a Maastricht hanno visto confermarsi squilibri profondi interni all’area UE. La stessa partecipazione
di fatto alla guerra con la Russia, agita dalle classi dirigenti per rafforzare il proprio ruolo sia pure
subalterno, sta creando incertezze di prospettiva e potenziali divisioni come mostra il recente voto
nei Land tedeschi dell’Est, avvenuto nel quadro di una Germania in recessione. Per altro a fronte di
una rigidità del sistema volta ad impedire scelte sociali progressive. Lo strangolamento del governo
di Tsipras in Grecia è stato l’esempio estremo. Ma la protervia di Macron in Francia a non consentire
un governo di Fronte Popolare per ragioni sociali che si chiamano salario minimo e pensioni ricorda
che, in particolare, su queste ultime, c’è una vera e propria morsa da parte della UE.
Rifondazione Comunista è stata protagonista dei tentativi più importanti e generosi di costruire
un’Altra Europa. Di cogliere cioè la centralità di questa nuova dimensione della politica e di provare
a costruire un europeismo politico e sociale profondamente diverso da quello “reale”. Siamo stati
determinanti nella realizzazione del gruppo parlamentare che nacque dalla confluenza di comunisti,
“nuova sinistra” e verdi alternativi. E del Partito della Sinistra europea che ha provato a dare un
primo strumento politico e non solo istituzionale per affrontare questa nuova dimensione politica.
Siamo stati protagonisti dei social forum europei, dei movimenti pacifisti eredi della lotta agli
euromissili, di quelli per i migranti, delle mobilitazioni contro l’austerity neoliberista.
Purtroppo tutto ciò non è stato sufficiente ed adeguato a contrastare la forza e la determinazione
dell’azione dei dominanti. È mancato in particolare un vero movimento operaio europeo che agisse
al livello a cui stavano operando le borghesie. Ora la crisi investe lo stesso Partito della Sinistra
Europea con la formazione di un altro soggetto che mette insieme forze provenienti da diversi
percorsi storici e nazionali sottraendone anche a Sinistra Europea. Questo soggetto può essere visto
come voglia di emanciparsi dalla storia comunista che segna in parte Sinistra Europea. E mostra
contraddizioni ancora più accentuate di quelle di Sinistra Europea sul terreno cardine della guerra.
Rifondazione comunista non si rassegna alla divisione ed opererà per il dialogo, per mantenere ed
estendere il ruolo del gruppo parlamentare The Left rafforzatosi con l’ingresso del M5S, e del Partito
della Sinistra Europea lavorando ad evitare lacerazioni e per mantenere e ricostruire un quadro
politico e d’azione unitario delle sinistre alternative. Affrontando i nodi aperti come quello della
costruzione della Pace, di un nuovo internazionalismo, della ripresa di uno slancio sociale e
democratico.
Per farlo occorre che si rilanci nello spazio politico europeo, che esiste a prescindere dalla nostra
volontà, un agire politico e di movimento di classe, pacifista, internazionalista, sociale e
democratico, femminista e ecologista. C’è bisogno che come a suo tempo lo spazio dello Stato
nazione fu occupato dalla strategia dei movimenti operai e socialisti si costruisca una capacità di
iniziativa con una piattaforma radicalmente alternativa all’Europa reale delle élites burocratiche e
nazionaliste; che si combattano le destre sul terreno in cui prosperano e cioè il revisionismo storico
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e il malessere sociale crescente; che si esca dalla “guerra costituente” ritrovando la funzione di
soggetto per la Pace che fu l’impegno solenne assunto al termine delle due guerre mondiali nate dal
seno della vecchia Europa; che si esca dall’impianto neoliberista di Maastricht e si costruisca una
Europa della integrazione sociale, delle politiche di occupazione, di crescita dei redditi, di nuovo
welfare comprensivo del reddito universale, di libertà ed integrazione per tutti contro ogni
discriminazione. Di libertà di movimento per le migrazioni che impediscano condizioni di
asservimento neo schiavista del nuovo lavoro globalizzato e permettano la formazione di un nuovo
movimento operaio mondiale e di sue organizzazioni. Di conversione ecologica non per il sistema
capitalistico e di mercato pagata dai più deboli ma per fuoriuscire da esso ed affrontare la crisi
climatica ormai presente in modi incombenti nel solo modo possibile e cioè un nuovo paradigma
produttivo e sociale fondato sulla giustizia sociale, climatica e ambientale.
Serve un’Europa democratica. La contraddizione vera non è tra “europeisti” e “sovranisti”: entrambi
infatti non si basano sulla democrazia ma sulla sua marginalizzazione, entrambi portano avanti
politiche neoliberiste, quasi tutti anche politiche di guerra. La contraddizione vera è tra un’Europa
in cui domina il punto di vista del capitale e un’Europa in cui le classi lavoratrici tornano ad avere un
peso sulle scelte. Nel suo modo di funzionare, tra intergovernativismo e democrazia. Tra
riduzionismo e possibilità di alternative. La costruzione di corpi e soggetti sociali a dimensione
europea, capaci di pensare e agire localmente e globalmente, è fondamentale. Così come la
ricostruzione di una centralità dei parlamenti contro le derive burocratiche e presidenzialiste. Sono
i Parlamenti a dover essere, anche in sinergia tra loro, il cuore di un’altra Europa. È sbagliata la
contrapposizione tra spazi nazionali e spazi europei. Bisogna essere capaci di intervenire su
entrambi i livelli come fanno le classi dirigenti capitalistiche che sono meno dogmatiche delle sinistre
alternative. Se il “sovranismo” dell’estrema destra è insostenibile, lo è anche l’ideologia
“europeista” del centrosinistra che ha confuso Ventotene con Maastricht. Come denunciò all’epoca
Lidia Menapace solo Rifondazione Comunista chiese di inserire nei trattati i principi fondamentali
della nostra Costituzione, tra cui il ripudio della guerra. È questa UE che ha aperto la strada alla
rinascita dell’estrema destra in Europa.
- LA CRISI DELLA SINISTRA EUROPEA
La formazione di un nuovo partito politico europeo European left alliance for the people
and the planet (ELA) che nasce per iniziativa di partiti nordici, France Insoumise,
Podemos e Bloco de Esquerda, alcuni dei quali fuoriescono dal Partito della Sinistra
Europea, mette in luce una situazione di crisi che non comincia oggi. Da tempo questo
intendimento politico era in corso di organizzazione. Oggi che si compie è necessario
riuscire a comprendere le ragioni e trovare risposte adeguate. Un partito come il nostro,
sia pure senza rappresentanza parlamentare, ha il dovere ed anche l’autorevolezza che
deriva dall’essere stati motore decisivo nella formazione del Partito e, ancor prima, del
Gruppo parlamentare che ad oggi non rischia separazioni ma è evidentemente diviso in
particolare su un tema fondamentale come la guerra. Divisione che non può essere
risolta cambiando la natura confederale del gruppo per una fondata su logiche di
maggioranza perché questo non risolverebbe i temi politici. Così come la soluzione per i
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problemi del Partito non può essere il dare la funzione decisionale a chi ha maggiore
rappresentanza parlamentare. Sono logiche, queste, che riecheggiano le proposte di
risolvere i problemi della UE prevedendo il voto a maggioranza in Consiglio Europeo. Per
altro è strano che vengano prospettate anche da forze che hanno mantenuto rispetto
alla UE un forte impianto nazionale. La nostra azione politica deve essere volta ad evitare
lacerazioni permanenti e a ricostruire una unità attraverso un rilancio del dibattito e della
azione politica. Naturalmente noi confermiamo il nostro impegno nel Partito della
Sinistra Europea, per la sua permanenza e per una sua nuova estensione mantenendo
un dialogo costruttivo con il nuovo soggetto europeo in vista di una ricomposizione.
Analogamente verso il gruppo parlamentare dove l’ingresso del M5S da noi apprezzato
ha favorito un allargamento ed anche un rafforzamento delle posizioni pacifiste.
I problemi del Partito della Sinistra Europea sono di varia natura. La dimensione europea
della politica non è stata assunta purtroppo dal movimento sindacale come si è visto per
l’approvazione del nuovo patto di stabilità e in questo quadro è difficile che operi una
soggettività politica europea che intende portare avanti le istanze delle classi lavoratrici.
La fondazione del Partito è stato un atto importante che ha dato frutti sul terreno del
sostegno alle mobilitazioni sociali, del contrasto a Maastricht ed alla sua
costituzionalizzazione, contro l’austerità. Più difficile è stata l’assunzione del compito di
operare come vero soggetto politico nel cercare di ribaltare l’impostazione della UE e
immaginare un’altra Europa.
Molto hanno pesato le dinamiche nazionali. Sia come propensioni politiche come nel
caso delle impostazioni nordiche avverse all’Europa, ma anche e soprattutto nelle
divisioni poi proiettate sullo scenario europeo. Nessun dibattito sull’Europa, compreso
quello sul piano B, è risultato lacerante. Lacerano invece le conflittualità in Francia,
Spagna, Portogallo ma anche in Italia dove SI non ha perseguito l’unità delle forze della
Sinistra Europea ma con i verdi. Pesano anche le matrici identitarie con una tendenza di
alcune forze a volersi “emancipare” dalle forze comuniste. Pesa la volontà di avere un
“proprio strumento”. Pesano le crisi di soggetti fondatori come il nostro partito e la Linke.
Proprio la vicenda tedesca è emblematica con una scissione e una forza, la BSW, che si
colloca anche fuori del nuovo partito europeo che sta nascendo. Certamente è la guerra
la cassa di risonanza di questa crisi. In particolare per le forze nordiche che ora
sostengono NATO ed azioni belliche. Anche qui c’è un arretramento su dimensioni
subalterne alla collocazione nazionale. Di più c’è una interpretazione del conflitto che si
allontana molto da quella capacità di leggere la guerra permanente e preventiva e di
mobilitarsi contro di essa che aveva avuto il movimento dei movimenti. C’è una
“confusione teorica” figlia di un arretramento drammatico nell’essere soggetto
portatore di un’alternativa di società.
Noi dobbiamo lavorare per superare questa crisi e questa impasse. Per farlo serve non
solo dibattito politico ma costruire una dimensione di massa della politica europea della
sinistra alternativa ed ora in particolare della lotta alla guerra e per la pace. Lavoriamo
perchè in questa direzione si rilanci l’iniziativa del Partito della Sinistra Europea.
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- SENZA LOTTA DI CLASSE NON C’E’ SINISTRA
Il movimento di classe vive da oltre trent’anni in un bozzolo letargico che è il sedimento, ormai
cronicizzato, da un lato di storiche sconfitte maturate sul campo (disfatta alla Fiat, 1980;
cancellazione della scala mobile, 1991; pacchetto Treu, 1997, con l’aggiramento della forma
canonica di assunzione a tempo indeterminato attraverso l’introduzione di un ventaglio di contratti
di lavoro caratterizzati da un alto coefficiente di flessibilità e di precarietà; articolo 18 dello Statuto
dei lavoratori, depotenziato con la legge Fornero nel 2012, quindi definitivamente soppresso con il
Jobs act, nel 2016); dall’altro da una sostanziale capitolazione concettuale e di principio che ha
determinato la resa culturale del sindacato al primato della competitività d’impresa a cui
subordinare modi e contenuti della contrattazione (accordo 22 luglio 1993 fra Confindustria,
sindacati e governo). Legge 30 e legge Sacconi
Da quel momento cambiò tutto: le piattaforme contrattuali si mossero dentro un perimetro
prestabilito che cancellava ogni traccia dell’autonomia negoziale del sindacato. La vulgata, cui
concorse lo stesso sindacato, definì le nuove regole come “concertazione” fra le parti. In realtà, da
quel momento non si concertò proprio nulla: il livello nazionale delle retribuzioni fu costretto dentro
parametri compatibilisti, fissati in perfetta armonia dal governo e dal sistema delle imprese; la
dinamica del salario aziendale venne invece vincolata a parametri di produttività e ancor più spesso
di redditività delle imprese: imperscrutabili indici di bilancio, che escludevano qualsiasi ruolo attivo
di lavoratrici e lavoratori e delle loro organizzazioni, fissavano se e quanto dovesse essere
riconosciuto ai lavoratori a titolo di “premio di produttività”. Un’intera schiera di sindacalisti si è
formata dentro questa logica perversa che portò ad una caduta secca del salario reale dei lavoratori
e ad un contemporaneo disarmo della capacità di mobilitazione. Era passata l’idea che il conflitto
fosse una patologia delle relazioni sociali. Vi furono resistenze, e ancora qui e là si registrano, nelle
aree tradizionalmente più combattive del sindacalismo italiano, fra i metalmeccanici della Fiom in
particolare e in aree dove le tradizioni di lotta del movimento operaio erano state più robuste, ma
la direzione di marcia era segnata. Oggi si assiste a primi timidi segni di riflessione autocritica del
sindacato, per lungo tempo latenti. Ne è un segno l’iniziativa dei referendum della Cgil per la
soppressione del Jobs act, per cancellare l’abuso dei contratti a termine, per inserire qualche tutela
per i dipendenti delle piccole aziende e per mettere mano nella giungla rappresentata dal sistema
degli appalti. Sono primi passi, per frenare la discesa su un piano inclinato che sembra non avere
mai fine.
Quello che però va ricostruito è un punto di vista di classe:
- una strategia di medio e lungo periodo che affronti i temi fondamentali del salario e dei diritti (varo
di un’offensiva contrattuale su larga scala per un aumento secco dei salari, per la reintroduzione di
un meccanismo di indicizzazione di tutte le retribuzioni, per la fissazione di un salario minimo legale
indicizzato e per il ripristino di irrinunciabili diritti individuali e collettivi dentro i luoghi di lavoro); - la costruzione di un modello contrattuale inclusivo, capace cioè di tenere insieme gli interessi di
ciò che resta della classe operaia “centrale”, con quelli dell’arcipelago dei lavoratori precari, con
quelli di tutte le persone che lavorano in regime di eterodirezione, con le cd “partite Iva”, con i
disoccupati: una vera e propria strategia tesa a ridefinire i contorni sociali, molto ampi di una
ricomposizione di classe: l’opposto diametrale della frantumazione che è il segno distintivo della
situazione presente;
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- la lotta per una normativa civile, per un inasprimento penale, contro la pratica di appalti e
subappalti al ribasso e per un implemento degli organici di controllo nei luoghi di lavoro che renda
l’elusione delle leggi sulla sicurezza un prezzo che le aziende non si possano più permettere; - la ricostruzione di una strategia generale di riduzione degli orari di lavoro a parità di salario
(l’innovazione tecnologica, dai processi di digitalizzazione agli sviluppi e alle applicazioni
dell’intelligenza artificiale (AI) produrranno una caduta verticale dell’occupazione e, fatalmente, una
radicale rimessa in discussione di trattamenti pensionistici, compresi quelli in essere). La progressiva
riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore settimanali è la risposta razionale, politicamente necessaria,
per evitare un tracollo sociale e un’involuzione democratica di inedite proporzioni.
In questo quadro è fondamentale rilanciare la rivendicazione del reddito di base come condizione
di autodeterminazione in un contesto caratterizzato da precarietà, lavoro povero e sottopagato,
disoccupazione.
I rapporti di forza tra le classi si determinano dentro il contesto determinato dalla finanziarizzazione
del capitalismo, dalla sempre più forte centralizzazione capitalistica e dalle scelte macroeconomiche
neoliberiste a livello nazionale e europeo. È dunque vitale costruire una piattaforma europea e
nazionale incentrata sugli interessi e i diritti della maggioranza sociale della popolazione e delle
classi lavoratrici e farne oggetto di campagne politiche adeguate. Il ritorno del Patto di Stabilità
rappresenta una sconfitta di enorme dimensioni la sua logica antisociale va contrastata a tutti i
livelli.
È compito imprescindibile delle/dei comuniste/i rappresentare il lievito di una ripresa generalizzata
delle lotte, di un ripensamento critico delle ragioni soggettive che hanno prodotto l’attuale, lunga
notte di stagnazione, il cui protrarsi diventerebbe un’ipoteca seria per la stessa democrazia. Per
farlo è necessario non isolarsi rispetto a nessun ambito di lotta, organizzazione e protagonismo delle
classi lavoratrici, relazionarsi con la Cgil e i sindacati di base, con la nostra autonomia e spirito
unitario, fare inchiesta e socializzare saperi, caratterizzarsi per lo spirito unitario e non rinchiudersi
in logiche settarie che spesso hanno poco a che fare con una effettiva radicalità. È necessario
praticare la convergenza tra movimenti di cui ha dato un grande esempio la lotta della GKN,
costruire campagne politiche che rimettano al centro i temi del lavoro come abbiamo fatto con il
salario minimo, contribuire alla ricostruzione di una cultura, di un punto di vista, di un’analisi di
classe. Un partito comunista non può non darsi l’obiettivo di tornare a essere effettivamente un
partito di classe non per le enunciazioni e le posizioni programmatiche che non abbiamo mai
smarrito, ma per radicamento, capacità di intervento e di orientamento, composizione sociale e
strategia. Questo può avvenire solo attraverso una lettura approfondita della realtà presente e delle
tendenze che si stanno dispiegando. Le “cassette degli attrezzi” teoriche e pratiche del passato, la
storia e la memoria del movimento operaio sono una miniera di saperi e esperienze a cui attingere
se ne sapremo fare un uso critico.
- DIRITTO AL REDDITO
Rifondazione Comunista sostiene da tempo la necessità di introdurre in Italia una qualche
forma di reddito di base. Siamo stati tra i promotori nel 2013 di una legge di iniziativa
popolare per il reddito minimo garantito, abbiamo criticato il reddito di cittadinanza
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introdotto in Italia dal M5S perché limitato nella platea dei beneficiari e troppo segnato da
condizionalità di costrizione al lavoro. Lo abbiamo difeso dall’attacco dei neoliberisti e del
governo Meloni.
L’introduzione di un reddito di base non contrasta e non va contrapposta alla rivendicazione di
politiche economiche per la piena occupazione, di riduzione dell’orario di lavoro, di abbassamento
dell’età pensionabile, di lotta contro la precarizzazione del lavoro. E tantomeno al conflitto di classe.
Il reddito di base va inteso non solo uno strumento di lotta contro la povertà e l’esclusione, di
garanzia del diritto all’esistenza degna per tutte e tutti, ma anche di autodeterminazione, maggiore
forza contrattuale e libertà rispetto al ricatto della disoccupazione al contrario delle impostazioni di
“workfare” volte a disciplinare la forza lavoro in un regime di bassi salari e precarietà.
L’accrescimento della produttività del lavoro nelle società a capitalismo avanzato si presenta da un
lato come aumento della disoccupazione e della sottoccupazione e dall’altro come maggior
sfruttamento e perdita del potere contrattuale per gli occupati e le occupate come Marx aveva
predetto. La maggiore produttività del lavoro non viene finalizzata al conseguimento di obiettivi
sociali ma si traduce in crescita della disuguaglianza e della concentrazione del capitale e della
ricchezza mentre si impoveriscono le società e si riduce il welfare.
La lotta per il reddito è inscindibile dalla lotta contro il neoliberismo, contro lo sfruttamento del
lavoro produttivo e riproduttivo, per la tassazione di ricchi super-ricchi, capitale finanziario e
multinazionale, per la riaffermazione del ruolo del pubblico come occupatore diretto e il rilancio
dell’obiettivo strategico della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, per l’introduzione di
un salario minimo legale e la piena e buona occupazione.
- Sull’Intelligenza artificiale
Scrivevano Marx e Engels, nel Manifesto del Partito Comunista del 1848, che “la borghesia non può
esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione,
quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali”.
E in effetti, le grandi trasformazioni tecnologiche applicate ai processi produttivi hanno sempre
avuto, nel corso della storia, una potenziale ambivalenza: rappresentare la possibilità di un
affrancamento umano dal lavoro, soprattutto quello gravoso e ripetitivo, oppure materializzarsi
come un’ulteriore capitolo dello sfruttamento e dell’asservimento dei lavoratori al capitale. Nel
tempo presente, attraverso il processo di digitalizzazione e, soprattutto, in ragione dell’affacciarsi
pervasivo dell’Intelligenza artificiale generativa (AI) in ogni campo dell’attività produttiva, siamo
posti di fronte ad un ulteriore e per certi versi decisivo capitolo della storia umana, un vero e proprio
salto di paradigma destinato a mutare profondamente la realtà in cui viviamo. E ciò non soltanto
per la pesantezza, in dimensioni mai sperimentate prima, che l’impatto del nuovo “salto”
tecnologico avrà sull’occupazione, ma – ancor più – per il processo di concentrazione della ricchezza
e – in misura esponenziale – del potere nelle mani dei detentori del capitale o, per meglio dire, di
un pugno sempre più ristretto, di proprietari universali.
Con un duplice risultato: l’inaudito aumento della disuguaglianza fra gli Stati e, all’interno di essi, fra
le classi sociali, e la definitiva compromissione di ciò che resta della democrazia.
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La sfida che ci coinvolge consiste dunque in questo: fare della scienza applicata al processo di
produzione un grande strumento di liberazione, oppure subire l’affermarsi di una società del
controllo e dell’ingiustizia mai sperimentata sino ad ora.
Ecco perché diventa per i comunisti un compito impellente, non differibile, quello di porre a tema,
oggi, non domani, una questione che non sta più solo sotto la pelle della storia, ma che si presenta
come un’urgenza assoluta del presente, come un bivio che si pone davanti al genere umano: la
trasformazione della proprietà capitalistica in proprietà sociale, l’attualità del socialismo, oppure il
tracollo verso una nuova, sofisticata dimensione dell’asservimento.
- L’IMMIGRAZIONE COME QUESTIONE DI CLASSE
“Le conquiste di quella parte del proletariato che si trova in una condizione più favorevole, saranno
sempre messe in pericolo finché ne godrà solo una minoranza” […] “Ciò vale per le masse all’interno
di un paese, come per tutto il mercato mondiale. Un proletariato di avanguardia può mantenersi
solidarizzando, appoggiando quelli che sono rimasti indietro, e non separandosi da essi, non
distaccandosene non opprimendoli. Là dove, sotto l’influenza di un miope corporativismo, il
proletariato segue questo ultimo metodo, questo prima o poi fallisce e diviene uno dei mezzi più
pericolosi per indebolire la lotta di emancipazione proletaria”. (Citazione da una comunicazione
della Prima Internazionale tratto dai quaderni di Lenin su “Marxismo e imperialismo”)
Le persone migranti, centinaia di milioni in tutto il mondo, sono in Italia parte essenziale della classe
operaia. Lo dice anche l’alto tasso di sindacalizzazione, superiore a quello degli autoctoni nel nostro
paese, e se non bastasse lo dicono, ancor meglio, le lotte di cui si sono resi protagonisti in un ganglio
vitale della produzione delle merci come la logistica. Sono concentrati nei settori meno qualificati
della forza lavoro e più sfruttati, hanno salari inferiori agli autoctoni, ma per questo non sono meno
combattivi. Nel corso degli ultimi 50 anni la società italiana è fortemente cambiata nella sua
composizione. Sono giunte nel Paese circa 5 milioni di persone, provenienti da gran parte del
pianeta, intenzionate a migliorare le proprie condizioni di vita. Un cambiamento che ha riguardato,
con diverse modalità, l’intero continente. La crisi del 2008 ha avuto, fra le tante conseguenze quella
che sono diminuite le persone in arrivo per trovare occupazione e aumentate il numero di quelle
che fuggivano da guerre, dittature, disastri climatici. Questo perché ormai, almeno dal 2011 l’Italia
è considerata non più un paese in cui fermarsi ma di transito verso altri contesti, non solo europei,
dove si intravvedono maggiori prospettive. In breve tempo l’Italia non è divenuta più, malgrado la
vulgata xenofoba, un paese a rischio di invasione ma un paese di emigrazione. Ed è in tale quadro
che dobbiamo intervenire nel presente. Le leggi che regolano la vita delle donne e degli uomini che
non hanno la cittadinanza italiana, sono, sin dalla “Turco Napolitano” del 1998 ma soprattutto dalla
“Bossi Fini” del 2002, leggi che tentano, spesso fallendo, di regolare il mercato del lavoro. La
permanenza regolare è subordinata alla stipula di un contratto di lavoro, gli stessi ingressi
considerati regolari si basano su tale legame che di fatto privatizza e rende merce la presenza delle
persone.
Rifondazione Comunista deve generalizzare un’opera condotta con significativi risultati, in alcuni
suoi circoli e federazioni. Quella di far divenire i nostri, luoghi di aggregazione sociale per la
costruzione di conflittualità di classe e aggregazione comunitaria. L’abrogazione di gran parte delle
leggi in vigore è fondamentale ma può maturare solo in un terreno in cui le donne e gli uomini
immigrati che lavorano siano sostenuti nelle loro rivendicazioni fondamentali: contratti, abitazione,
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accesso ai servizi sanitari, alla scuola in un’ottica di ricomposizione di classe. Alcune lotte, portate
avanti da movimenti ad oggi marginali debbono però divenire prioritarie. Ad esempio il progetto di
rendere permanente la possibilità di regolarizzare la propria presenza in Italia – circa 500 mila
persone risultano prive di diritto di soggiorno – non solo se in possesso di un contratto di lavoro ma,
almeno, se possono dimostrare di essere stabilmente presenti nel paese. Questo significherebbe
sottrarli al ricatto del lavoro nero e del caporalato. Sono poi partite una serie di campagne per
rivedere la legge che permette di avere la cittadinanza italiana, oggi basata sullo ius sanguinis
attraverso un testo del 1992.
Due le principali e non incompatibili strade intraprese: anzitutto una riforma radicale di tale legge
che porti a dimezzare i tempi in cui poter chiedere di divenire a tutti gli effetti cittadine/i italiane/i
(è fattore di vanto per il nostro Partito aver partecipato da protagonista alla raccolta di firme per la
riduzione del tempo di soggiorno richiesto per la cittadinanza) ; in secondo luogo il cosiddetto ius
scholae, che riguarda soprattutto le ragazze e i ragazzi nate/i o cresciute/i in Italia. Si tratta di una
vertenza non solo giuridica ma culturale, che permetta di rendere le persone presenti nel Paese più
libere, in grado di votare e quindi di poter avere un, seppur minimo, potere contrattuale in più.
L’altro grosso tema riguarda il diritto d’asilo e/o di protezione umanitaria, già sancito dall’art.10,
terzo comma della Costituzione: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo
esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel
territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.”
Eppure ciò è reso quasi impossibile dagli ultimi governi ed è destinato, con l’approvazione del
Piano europeo su immigrazione e asilo, a essere distrutto in nome della sicurezza. Va contrastata
l’istituzionalizzazione di ciò che già avviene con i respingimenti collettivi verso Libia e Tunisia, con la
criminalizzazione delle Ong, con la detenzione dei richiedenti asilo considerati arbitrariamente a
rischio di fuga. Il governo Meloni, come è noto, ha raggiunto un accordo col presidente albanese, il
socialista Rama, per delocalizzare alcune migliaia di persone in fuga in centri di detenzione in Albania
che rientrerebbero, in chiave coloniale, nella giurisdizione italiana. Ma questo è il dato più eclatante.
Anche la decisione, peraltro in continuità col centrosinistra, di aumentare i centri permanenti per il
rimpatrio, (CPR), sottraendo fondi del PNRR destinati alla realizzazione di spazi abitabili per chi
lavora in agricoltura, danno l’idea di un paese che, all’interno della fortezza Europa, decide chi
deportare, chi tenere in condizioni di subalternità e precarietà lavorativa e sociale e chi (una
minoranza) da inserire nei circuiti legali del mondo del lavoro. L’impronta culturale suprematista,
che ha attecchito anche nelle classi popolari e che delinea forme di razzismo esplicito e sdoganato
è il supporto ideologico e identitario in chiave nazionalista, che rende più forti le dinamiche di
gerarchizzazione sociale dello sfruttamento. Questa è la testimonianza concreta di una spietata
guerra contro i poveri, che riguarda la vita concreta, anche della nostra classe sociale di riferimento
dove la narrazione di una “coperta troppo corta”, porta a credere che escludendo i “non italiani”, si
possano migliorare le proprie condizioni. Il tributo di sangue pagato in questi ultimi 20 anni, col
Mediterraneo ridotto ad una fossa comune in cui giacciono almeno 30 mila uomini, donne e
bambini, che cercavano la salvezza e che vanno considerate vittime di una guerra silenziosa, sono il
paradigma concreto della militarizzazione del continente. La necessità di coniugare una reale libertà
di movimento e una vera cooperazione che consenta a chi vuole restare nel proprio Paese di restarci
e a chi intende migrare di farlo, in condizioni di sicurezza e diritti, è anche questa un momento di
lotta di classe internazionalista.
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- INTERSEZIONALITA’ O ROSSOBRUNISMO
“Per ottenere vittorie contro il razzismo e il patriarcato, dobbiamo sfidare il capitalismo” Angela
Davis
«non riconosco legittimità di dichiararsi comunista a chi ignora il femminismo» Lidia Menapace
Il transfemminismo intersezionale di Non Una di Meno e di altri gruppi è uno dei fenomeni di
movimento che più sono emersi in questi anni, con grande partecipazione in particolare giovanile
alle manifestazioni nazionali contro la violenza alle donne del 25 novembre e con lo sciopero
transfemminista dell’8 marzo. Genere, razza e classe sono legati tra loro da molteplici fili, non
sempre facili da districare, e non sempre intersezionalità è sinonimo di critica del capitalismo, ne è
un caso la “diversity aziendale” che diventa momento di marketing senza cambiare i rapporti di forza
all’interno delle aziende e producendo una patina di finta parità che sembra ispirata dall’Intelligenza
Artificiale. Non è però questo il caso del movimento femminista, specie di quello della quarta e per
ora ultima ondata, dove la visione marxista dello sfruttamento di classe, sia in termini di produzione
che di riproduzione, espressa in chiari termini (per esempio in quel vero e proprio Manifesto
femminista che è Femminismo per il 99% di Arruzza, Bhattacharya e Fraser). Le intersezioni
troveranno il loro spazio nelle lotte, producendo non solo aspetti localizzati della lotta di genere,
razza e classe? Esiste ancora la possibilità di un movimento globale che partendo anche
dall’intersezionalità (che è, spesso, un percorso accidentato fra le complessità e contraddizioni dei
soggetti e ci riguarda tutte e tutti) esprima la dimensione antirazzista, antisessista e internazionalista
di un marxismo rivoluzionario: un marxismo che immagina la trasformazione comunista della
società in un futuro non troppo lontano? È una domanda importante. In questo momento lavoriamo
passo dopo passo, anche con difficoltà, invero, per ricostruire una dimensione transfemminista
intersezionale nel Partito. Abbiamo aderito e partecipato alla manifestazione nazionale di Non Una
di Meno nel novembre 2023 ed è stata subito dopo organizzata una giornata di incontri. Si sono
realizzate campagne social di sensibilizzazione lgbtqia+ e transfemminista, anche un incontro su
Instagram. Ci sono state importanti partecipazioni a vari Pride. Il Partito cerca di essere presente
con comunicati che sensibilizzino alle questioni calde del movimento, incluse ovviamente la spinosa
e urgente questione transgender (ricordiamo che la attuale legge 164 del 1982 che regola la
transizione è ormai considerata arretrata dal movimento lgbtqia+) e la questione della negazione
del diritto alla genitorialità non eterosessuale, su cui il governo Meloni conduce una battaglia di
retroguardia, arroccata in luoghi comuni aggressivi e tentativi autoritari (vedi il tentativo di
criminalizzazione delle madri lesbiche e negazione del diritto di cogenitorialità via Procura, a
Padova). Siamo stati presenti sui territori anche nelle lotte contro lo smantellamento dei consultori
e per il diritto all’aborto.
Permangono tuttavia difficoltà a sviluppare una rete stabile che si interessi di questi temi dentro il
partito. Assistiamo anche a qualche conflitto tra forme diverse di femminismo e di valorizzazione
del ruolo delle donne nel Partito. Dal nostro punto di vista è necessario creare nuovi momenti di
confronto ed elaborare una strategia intersezionale ben formata, che non parli solo alle donne
bianche e native o eterosessuali o a chi ha gli strumenti di analisi del femminismo della differenza,
relazionandosi con la sensibilità e le istanze dei movimenti della quarta ondata, che mettono in seria
discussione anche il binarismo uomo/donna.
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I Pride e le manifestazioni di Non una di meno sono state le scadenze di mobilitazione che hanno
visto la più larga partecipazione, in particolare delle giovani generazioni. È sempre più forte nella
nostra area l’influenza non solo di posizioni più o meno rossobrune ma più in generale che tendono
ad assimilare i movimenti lgbtq+ e femministi al neoliberismo e persino all’imperialismo occidentale
o che li accusano di distrarre l’attenzione dai problemi dei ceti popolari e delle classi lavoratrici. Di
fronte alla “guerra culturale” della destra si tende a assumere il suo punto di vista e la sua immagine
del “popolo”. Questa narrazione contro “la sinistra fucsia” corrisponde da un lato al fatto che le
formazioni politiche di centro e centrosinistra hanno in parte fatto propri i diritti e le politiche
fondate sull’identità dando ad esse visibilità nella dialettica politica mentre portavano avanti sul
piano sociale politiche neoliberiste. Dall’altro questi movimenti sono cresciuti in termini di visibilità
proprio in una fase storica segnata dal rarefarsi del conflitto sociale e del lavoro. A questo si aggiunga
che le vittorie dei movimenti e lo spazio che le tematiche lgbtqi hanno sempre più assunto nei media
e nello spettacolo possono suscitare una reazione conservatrice in una parte dei ceti popolari,
soprattutto quelli a bassa scolarità, che non percepiscono attenzione sui loro problemi quotidiani.
È uno degli argomenti sostenuti da Sahra Wagenecht in Germania (analogo atteggiamento su
immigrazione) con un’impostazione che non va liquidata come rossobrunismo ma che piuttosto
riprende elementi di social-comunitarismo presenti nella storia della socialdemocrazia. Non si può
rimuovere la questione del peso di certi orientamenti a livello popolare, ma è evidente che assumere
il punto di vista dell’ultradestra contrasta con le pagine migliori della storia del nostro movimento e
con una concezione del socialismo come “paradigma di liberazione”. L’esperienza francese di questi
anni tra l’altro dimostra che una sinistra che su questi temi è certo molto netta, cioè “fucsia” per
dirla con i detrattori, riesce a crescere e anche a riconquistare voto popolare perché non ha
accantonato la lotta contro il neoliberismo e la rappresentanza dei bisogni delle classi lavoratrici
dentro un forte ciclo di lotte sindacali e sociali. Al rossobrunismo va contrapposta la capacità di
praticare davvero una politica intersezionale come insegnano Angela Davis e Nancy Fraser.
Contrastare il successo del populismo di destra tra le classi popolari è possibile e necessario per
superare la tendenza alla frammentazione e costruire un blocco sociale antiliberista.
«I comunistisi distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che da un lato, nelle varie
lotte nazionali dei proletari, essi mettono in rilievo e fanno valere quegli interessi comuni del
proletariato che sono indipendenti dalla nazionalità; d’altro lato per il fatto che, nei vari stadi di
sviluppo che la lotta tra proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano sempre l’interesse
del movimento complessivo» (K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista)
- I nostri referenti sociali
Una sinistra antiliberista deve avere in primis un suo progetto sociale. La situazione in cui versa il
Paese evidenzia una fascia di povertà assoluta cospicua, in cui la disoccupazione, la sottoccupazione
e livelli di reddito molto bassi, caratterizzano la condizione delle persone. È estesissimo il precariato
che investe in modo particolare il settore terziario, ma ormai anche l’industria. È qui che trova
collocazione gran parte del mondo giovanile, ma anche una parte rilevante delle donne. Senza
contare i tassi di disoccupazione che sia per i giovani sia per le donne restano fra i più alti in Europa.
Povertà e precariato assumono poi una forte caratterizzazione territoriale, dato che si concentrano
in modo particolare nel Mezzogiorno. Nei settori industriali, in parti rilevanti del terziario e, in
particolare, nelle piccole e piccolissime realtà produttive, i redditi sono mediamente bassi, a parte
alcune figure tecniche o dirigenti che in diversi casi hanno visto una crescita delle loro
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remunerazioni. Esiste poi un settore ampio e più tutelato che è quello del lavoro pubblico come:
scuola, sanità, assistenza. In questo caso però il posto fisso è in genere compensato da stipendi
ridotti, spesso congelati da rinnovi contrattuali sempre posticipati e/o insufficienti anche a coprire
l’aumento del costo della vita. In questo settore che poi tende a crescere la disaffezione e il disagio
per il gap fra capacità professionali e condizioni di lavoro e retribuzioni. All’opposto, vi è una crescita
di redditi e patrimoni nei soggetti che controllano, attraverso il possesso delle quote azionarie,
grandi imprese, in primis quelle finanziarie, ma non solo. Sono cresciute inoltre esponenzialmente
le retribuzioni dei manager e degli staff dirigenziali e delle figure con competenze specialistiche,
anche a seguito delle modifiche tecnico-organizzative intervenute. Senza contare alcuni settori della
libera professione. L’effetto complessivo è una polarizzazione delle figure sociali con una crescita
del peso quantitativo delle fasce a reddito medio-basso. Gli indici sulla diseguaglianza crescente lo
stanno a dimostrare e il nostro Paese si colloca fra quelli in cui la diseguaglianza è più marcata.
Una lettura politica della condizione sociale del Paese mostra come gran parte dei soggetti sociali si
colloca ormai fuori dalla politica e ciò è tanto più vero per le fasce marginali in termini di reddito e
occupazione. Nella parte che continua a relazionarsi in qualche modo con il sistema politico e
partecipa al voto, vi è un rimescolamento che sconvolge le vecchie collocazioni di classe. La classe
operaia tradizionale non solo si è ridotta di molto numericamente, per effetto dei processi di
deindustrializzazione, ma è stata addirittura egemonizzata in parte consistente dalla destra, come
dimostrano in modo inequivocabile gli orientamenti al voto anche nelle recenti elezioni europee. In
generale, è ormai impossibile associare precise figure sociali a uno schieramento politico. Prevale in
genere una composizione interclassista nelle varie formazioni. Nello schieramento progressista e di
sinistra l’interclassismo è anche il risultato dello smottamento consumatosi in anni del consenso di
cui godeva in parti rilevanti del mondo del lavoro e delle fasce popolari. La destra è penetrata nelle
fasce a basso reddito, anche se vi è stato un recupero parziale di queste, per esempio da parte del
Movimento Cinque Stelle nel Mezzogiorno, ma si tratta di intercettazioni di consenso labili, se non
sostenute da un’azione coerente e continuativa. Per il resto, la variabile reddito non esercita
apparentemente un’influenza univoca nelle appartenenze politiche. Più rilevante diviene il livello
culturale, dove la crescita della scolarità nei giovani o il possesso di titoli di studio elevati, per
esempio nei settori del welfare, tende a favorire un’appartenenza alle forze progressiste. Così come
rilevanti diventano le forme di politicizzazione. Si pensi, in particolare, al grado di estensione della
sindacalizzazione. In questo quadro, il lavoro continua nonostante tutto a costituire una
discriminante fondamentale, anche perché il ricatto della disoccupazione, della sottoccupazione e
della precarietà rende i soggetti più vulnerabili e quindi anche più manipolabili. Il lavoro costituisce
inoltre una condizione spesso preliminare ad una crescita della politicizzazione anche in virtù
dell’effetto della sindacalizzazione e dell’aggregarsi di blocchi di interesse.
In un quadro così articolato, si può individuare un arco di soggetti che possono costituire il
riferimento di una sinistra nel Paese. Per le ragioni anzidette, si può fare riferimento a tale riguardo
all’insieme dei soggetti che ricadono nel “lavoro subordinato”, perché il concetto di lavoro va oggi
necessariamente declinato in modo nuovo e più ampio. Vi confluiscono le fasce del lavoro
dipendente a reddito medio basso, una parte di quelle del lavoro autonomo che celano una
condizione subordinata, il mondo del precariato e in larga misura i giovani, le fasce marginali, per
reddito e per posizione lavorativa. Ma si tratta di una classificazione che deve essere presa con
grande cautela perché essa esprime più che una realtà compiuta, una prospettiva su cui lavorare. Il
consolidamento del blocco sociale del lavoro subordinato richiede, infatti, un’azione politica decisa
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e coerente. Occorre quindi un’operazione politica condotta in più direzioni: nel recupero delle fasce
più disagiate – all’interno delle quali si colloca spesso, ma non solo, il mondo dell’immigrazione – a
partire dalla garanzia del reddito, ma anche del lavoro; nella stabilizzazione del lavoro per i giovani;
nella riqualificazione dei settori del welfare e la valorizzazione delle professionalità che vi operano;
nell’allargamento delle tutele del lavoro nel settore industriale e dei servizi. Naturalmente in questo
processo molte soggettività possono e devono essere coinvolte, non solo in ragione della loro
posizione nel mercato del lavoro, ma anche in ragione della loro specificità di genere, delle loro
inclinazioni culturali, delle loro aspirazioni ideali, delle loro nazionalità di origine. È peraltro acquisito
fatto che nel capitalismo dei monopoli, dell’erosione dello stato sociale, della torsione neo-liberista,
il disagio sociale si estende a una molteplicità di soggetti anche al di fuori del mondo del lavoro. Si
pensi all’incidenza in negativo della disoccupazione, della caduta delle tutele garantite dal welfare,
dell’enorme crescita della diseguaglianza che tende a unificare sul piano del reddito i soggetti che si
collocano nei livelli più bassi. Le connessioni fra i vari soggetti costituisce un campo di
sperimentazione fondamentale per la costruzione di un blocco sociale. Esemplare in tal senso la
questione dell’intersezionalità e della rilevanza che assume la differenza di genere nella costruzione
di tale blocco. In ogni caso, senza proposte adeguate, all’altezza della profondità delle contraddizioni
- che come si è visto in Italia sono più profonde che negli altri paesi europei – il consolidamento di
tale blocco rischia di rimanere velleitario. È inevitabile che nei diversi spezzoni in cui si articola il
lavoro subordinato e più in generale nel blocco sociale “del cambiamento” il punto di partenza per
un processo di aggregazione sia rappresentato dalle fasce più politicizzate e più sindacalizzate, ma i
fenomeni cui stiamo assistendo evidenziano processi di politicizzazione che si sviluppano anche
lungo percorsi inusuali. Va tuttavia ribadito che l’operazione di costruzione di un blocco sociale non
può essere il risultato della sommatoria estemporanea di singoli elementi di conflittualità sociale,
infatti sempre di più, data la disgregazione sociale esistente, essa ha bisogno di elementi di coesione
politica. Per questo è essenziale la combinazione, da un lato, dell’iniziativa di un sindacalismo
conflittuale (per il quale sarebbe velleitario prescindere dalla CGIL) e, dall’altro, di soggetti politici
che supportino, dentro e fuori dalle istituzioni, le istanze generali di cambiamento. Di qui il ruolo
fondamentale di una sinistra antiliberista e di alternativa. Resta il tema della necessità che una
sinistra di classe si cimenti in un processo di inchiesta in grado di restituire le infinite variabili che
compongono le gerarchie sociali del XXI secolo. Se su alcune questioni di carattere generale come il
cd “lavoro migrante” o i salari più bassi a parità di mansioni, percepiti dalle donne, c’è già una
letteratura e un lavoro costante, a cui richiamarsi, il sistema Paese è molto più articolato nel
distribuire ingiustizie e nel determinare discriminazioni. C’è la grande questione del lavoro
autonomo e dei “ceti medi”. Si pensi alle condizioni di vita e di lavoro soprattutto nel Meridione, si
pensi alla frammentazione contrattuale e al sistema di appalti e subappalti che definisce la
produzione e la circolazione di merci, soprattutto nelle grandi metropoli, si consideri che a fronte di
questo predomina un sistema valoriale comune di aspettative, spesso irrisolte che si traducono non
solo nel “lavoro povero”, ma in condizioni di esclusioni da una normale vita sociale, l’ambito di
ricerca e di lavoro per un partito comunista diviene ancora più ampio e necessita anche, al nostro
interno, di energie nuove meno cristallizzate nel secolo scorso e con più strumenti in grado di
analizzare i mutamenti in atto, non da ultimo quello che si sta compiendo con l’intelligenza
artificiale. È tempo di costruire un progetto politico per la ricomposizione di classe a partire dalla
convergenza delle lotte, da un’analisi aggiornata della società e dei linee di conflitto, da una
proposta programmatica forte.
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- II Sud nelle guerre militari, economiche, climatiche. Per un socialismo meridiano
Sin dalla sua nascita Rifondazione comunista ha considerato la questione meridionale, nel Mondo,
in Europa e nel Mediterraneo, in Italia, chiave centrale di lettura del capitalismo nelle sue varie fasi
e terreno fondamentale di iniziativa politica e sociale. Dalle marce per il lavoro e dalle lotte contro i
contratti d’area, ai social forum mondiali di Tunisi: dalla rilettura sistematica di Gramsci a quella di
Samir Amin, in un intreccio tra riflessione e promozione del conflitto.
Anche in questi ultimi anni abbiamo lavorato molto contro l’autonomia differenziata, per il reddito
di base, sviluppando nuovi momenti di approfondimento come partito e con il lavoro del Laboratorio
Sud.
I concetti di sviluppo duale e l’esigenza di un’alternativa mediterranea sono nostro patrimonio.
Abbiamo visto come si siano moltiplicati e differenziati i Sud stessi nella globalizzazione. Riad che
vince la gara per l’Expo e Gaza che subisce il genocidio, sono le due facce che la globalizzazione e la
sua crisi ci consegnano dei Sud. La guerra climatica condotta da tantissimo tempo dai dominanti
colpisce in primo luogo il Sud del Pianeta con processi di desertificazione, che vanno di pari passo
con l’accaparramento delle terre e la distruzione di biodiversità a causa degli interessi delle
multinazionali. Le guerre che, prima di quella tra NATO e Russia, hanno colpito soprattutto i Sud. Gli
esodi biblici conseguenti e le migrazioni. La stessa pandemia ha visto i Sud sacrificati alle
multinazionali.
La UE complice del genocidio compiuto da Israele è la stessa che si costruisce come fortezza contro
i migranti. E i contratti di lavoro semi schiavistici utilizzati su larga scala negli Emirati sono in
correlazione stretta con i nuovi schiavi migranti al Nord volutamente tenuti tali dal mercato del
lavoro globalizzato. Ed è la UE ormai trainata dai nordici “guerrafondai e frugali”, campioni di
revisionismo storico e di nuovo suprematismo. La UE che dopo aver foraggiato nelle crisi tutte le
grandi multinazionali ora ripristina l’austerity. La UE che vede nel suo costruirsi “funzionalistico” “i
Nord mangiarsi i Sud” e moltiplicarsi i Sud geografici e sociali.
In Italia tutto ciò è particolarmente drammatico. Perché quella meridionale è questione sin dalla
unità nazionale come insegnava Gramsci. E ciò si accentua con il costruirsi della UE. Non a caso è in
questo processo che è stata pensata l’autonomia differenziata come progetto favorevole ai Nord
geografici e sociali ed ad ulteriori sacrifici dei Sud. Progetto per altro pensato ai tempi della
“locomotiva tedesca”. E che ora dovrebbe fare i conti con la recessione che colpisce la Germania a
seguito della guerra sciagurata in cui le classi dominanti hanno condotto la UE.
Il Sud d’Italia segnala già differenziali negativi strutturali e permanenti. Nell’occupazione, nei redditi,
nei servizi, nelle migrazioni soprattutto di giovani, negli apparati produttivi, nelle disponibilità
finanziarie. Come sempre detto dalle sinistre comuniste e dai meridionalisti avvertiti non si tratta di
arretratezza ma di sviluppo duale e distorto. Di asservimento economico, finanziario e sociale agli
interessi dei Nord. Di politiche volte a favorirlo. La serie delle scelte politiche che sono andate in
questa direzione sono molteplici e di lunga durata. Nei decenni del neoliberismo la svalorizzazione
generale del lavoro fatta in nome della fake che erano i garantiti a impedire l’avanzamento dei più
deboli ha prodotto disastri ancora più gravi e duri tra i più deboli e in primis al Sud. Più
precarizzazione, più lavoro nero, meno reddito, meno pensioni. Colpita l’agricoltura come le banche
meridionali. Peggiorati tutti i parametri sociali, dalla sanità all’assistenza alla scuola. Degrado
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ambientale crescente con le rendite agrarie a trasformarsi in fondiaria. Emigrazione giovanile di
massa. In questo quadro la autonomia differenziata rappresenta il colpo mortale finale e voluto. Lo
spacca Italia ma anche lo spacca italiani. Anche le scelte fatte con i Pnrr ribadiscono una totale
sproporzione tra quello che va al Nord e ciò che è destinato al Sud.
Le responsabilità di questa situazione attengono da sempre alle classi dirigenti capitaliste. In questi
decenni tanto al centrosinistra che al centrodestra. Si è creata ad un certo punto, anche per la nostra
crisi, una grande aspettativa verso il M5S che ha prodotto anche un vero terremoto elettorale. Per
verità noi riconosciamo che il reddito di cittadinanza (sia pure con tantissimi limiti) è stata l’unica
misura riformatrice in senso antico del termine realizzato nel trentennio di restaurazione. Ma la crisi
strategica del M5S privo di un vero orizzonte alternativo ha favorito l’abbattimento anche di questa
misura esistenziale. Purtroppo senza colpo ferire, cosa che deve fare riflettere su come sia stato
possibile.
Ora il Sud può essere il punto fondamentale per la direzione di marcia che prenderà il Paese. O finire
a fare massa di manovra per le destre di fatto lavorando contro se stesso. Oppure essere soggetto
fondamentale di un’alternativa meridiana e mediterranea, per l’Italia e l’intera Europa.
Un’alternativa anche alla militarizzazione a cui si vuole condannare il Sud.
Dunque Pace, Pane e Lavoro. La Pace come esigenza primaria in particolare per i Sud martoriati. Il
Pane che significa ad esempio agricoltura di qualità mediterranea contro le scelte nordiche della Pac
ma anche del suo “superamento” nordico e liberista. Agricoltura, biodiversità, risanamento
ambientale e climatico, capacità trasformative e di commercializzazione, rapporto con turismo e
cultura. Energie alternative territorializzate per comunità e fuori da logiche speculative e coloniali.
Produzione di “intelligenze naturali”. Nuove capacità finanziarie con strutture bancarie connesse
democraticamente al territorio.
Un socialismo meridiano da realizzare con il protagonismo di massa di cui il Meridione ha sempre
dato dimostrazione ogni volta che è diventato centrale in un progetto politico e di società.
- LA CULTURA CONTRO IL FASCISMO E IL NEOLIBERISMO
Nelle tante riflessioni intorno ai risultati delle ultime elezioni politiche non abbiamo
sufficientemente ragionato sul fatto che quella vittoria delle destre non è avvenuta solo
sul piano politico ma – e forse ancora prima – sul piano culturale.
Le destre hanno da tempo individuato la cultura come terreno dove svolgere la massima
opera di prevenzione e di “soffocazione”, lavorando tenacemente – attraverso i
meccanismi vincenti del mercato e il dominio delle strutture specificamente formative –
a costruire un senso comune fatto di passività e di adeguamento all’esistente.
Costruendo una risposta egemonica sul piano valoriale e proponendo un’idea di società
basata sul quell’individualismo ormai radicato nel paese e costruito accuratamente e
strategicamente negli ultimi quarant’anni attraverso una proposta culturale tanto
martellante quando apparentemente “innocua”.
Abbiamo sottovalutato gli effetti a lunga, lunghissima durata che tutta l’offerta
televisiva, e non solo dell’informazione politica, pensata e costruita esclusivamente in
base ai parametri di ascolto, cioè di mercato, avrebbe prodotto.
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Abbiamo sottovalutato l’importanza immensa della cultura e della conoscenza come
strumenti fondamentali per la formazione di una coscienza critica e analisi della realtà,
di valori, stili di vita, capacità d’indignazione e voglia di lotta per il cambiamento. Quindi
fattori di democrazia.
La mercificazione della cultura e dei saperi attuata dai governi di centro sinistra con leggi
impostate su esclusivi criteri di mercato è ormai un dato di fatto accettato anche dalla
maggioranza delle forze culturali, professionali e sindacali. Non c’è più un movimento
riformatore, non ci sono più lotte e battaglie che rivendichino allo Stato il ruolo che deve
avere anche in questi settori.
Per combattere le destre e il pensiero unico dominante e diventato ormai trasversale,
fondato sulla sfiducia verso la possibilità stessa di cambiare e sulla fuga nel privato se
non nell’irrazionale, è quindi oggi più che mai compito del nostro partito dare vita ad una
grande battaglia culturale e ideale, per una cultura del cambiamento e della
trasformazione, ormai decisiva anche per un rinnovamento democratico del paese.
Una battaglia ideale che riaffermi con forza che la cultura è un diritto, un “servizio
essenziale” non monetizzabile, che, come dice la Costituzione, la Repubblica deve
garantire e che solo la Repubblica può garantire per il “pieno sviluppo della persona
umana”:
- intervento dello Stato nella cultura e negli apparati di produzione di senso per
garantire la possibilità di “tanti immaginari”, di tante culture diverse, dei tanti punti di
vista sottraendoli alla logica del profitto. Riforme strutturali che riaffermino il ruolo e il
dovere dello Stato nel ricercare l’utile culturale e dunque sociale della produzione
artistica, a prescindere da qualunque utile economico. - Politiche economiche e sociali che garantiscano l’accesso ai luoghi di produzione
culturale e ancora di più alla fruizione della cultura. - Nella cultura il lavoro non solo è precario, ma spesso in nero e senza garanzie sugli
infortuni. Sempre intermittente, o meglio apparentemente intermittente perché quello
che emerge, quando riesce ad emergere, è solo il frutto di un lavoro molto più lungo e
faticoso, sommerso e non riconosciuto. Servono politiche economiche e sociali che
riconoscano che quello nella cultura è lavoro e che chi lavora nei settori creativi, dagli
scrittori agli orchestrali, dai registi agli sceneggiatori, dai musicisti ai tecnici e alle
maestranze, chi lavora in tutti questi settori e qualunque “mansione” svolga è un
lavoratore che ha e deve avere i diritti di tutti gli altri. - Una riforma che rimetta di nuovo al centro il ruolo dell’intervento pubblico nel
sostenere un’editoria indipendente, giornali cooperativi e di partito, riviste culturali e
dell’associazionismo che altrimenti non potranno mai vedere la luce. - Una profonda e radicale riforma del servizio pubblico radiotelevisivo, che riporti la
più grande azienda pubblica produttrice di senso fuori dal controllo del governo e la liberi
“dalla subordinazione ai dettami del mercato”. Una azienda democratizzata e
democratica, gestita dalle forze sociali, professionali e culturali, decentrata e
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partecipata, radicata sui territori, che possa diventare volano di tutta l’industria culturale
del paese.
Rifondazione si batte per un’Europa che sia legata alle necessità e allo sviluppo dei
popoli, all’affermazione di una politica per la cultura che si basi sulla ricchezza, la pluralità
e le specificità che affondano le loro radici nelle nostre tante e diverse storie, sulle
straordinarie e forti originalità che ne derivano, sulla creatività come motore
fondamentale dello sviluppo sia intellettuale che materiale del nostro continente.
Un’Europa che consideri tutte le culture come strumento di conoscenza e di
cooperazione tra i popoli e ne favorisca la circolazione e l’interazione come fattore di
pace e contributo alla risoluzione dei conflitti. Un’Europa si impegni a promuovere e
sostenere la produzione e la circolazione delle culture transfemministe e delle comunità
lgbtqia+.
- LA DEMOCRAZIA
Tra le catastrofi determinate da questi decenni di capitalismo neoliberista c’è la sempre più evidente
crisi della democrazia. Lo schema narrativo di Biden “democrazie vs autocrazie” tende a non vedere
quanto gli effettivi spazi democratici si siano ristretti anche nei paesi occidentali a causa delle
politiche neoliberiste che ne hanno eroso le basi. Il capitalismo globale in questa fase tende ad
assumere sempre più tratti oligarchici, a perdere l’eredità liberal-democratica che pure celebra sul
piano ideologico-spettacolare, a favorire il riemergere di fascismi e forme autoritarie su scala
planetaria. Il neoliberismo è stato un progetto politico di attacco per ridurre i livelli di democrazia
sostanziale che ormai pone in crisi anche quella formale. Di fronte a questi processi dobbiamo
recuperare appieno, contrastando la narrazione dominante dal 1989, l’ispirazione originale
democratica dei movimenti operai, socialisti e comunisti che sono stati protagonisti della lotta per
la conquista del suffragio universale e poi dell’antifascismo e della decolonizzazione: “la conquista
della democrazia” è obiettivo politico dei comunisti nel Manifesto di Marx e Engels, la democratica
Comune di Parigi fu per Marx la “forma finalmente trovata” del governo operaio, per Engels
l’esempio di come dovrebbe essere intesa l’espressione “dittatura del proletariato” poi distorta nel
corso del Novecento. Rifondazione Comunista nel 1989 si è oppose alla liquidazione dell’originale
patrimonio del comunismo italiano rifiutando l’equiparazione del comunismo con le forme
autoritarie che assunsero i regimi nati in circostanze storiche determinate e con lo stalinismo. Nella
stessa rivoluzione russa e in Lenin l’iniziale spinta è quella verso una democrazia proletaria fondata
sui soviet. Nella cultura marxista novecentesca troviamo materiali per una critica dei socialismi di
stato autoritari, da Rosa Luxemburg ai consiliaristi, da Gramsci a Lukács e sempre più dopo il 1956
e una visione del socialismo come lotta per la democratizzazione della società e della vita
quotidiana. Come ha scritto di recente Guido Liguori: “La nostra tradizione comunista democratica,
pur non senza contraddizioni, ha gradualmente compreso l’importanza della democrazia politica,
muovendo dalla riflessione gramsciana sull’egemonia, passando per la partecipazione convinta alla
scrittura della Costituzione, culminando nelle posizioni berlingueriane che furono alla base
dell’eurocomunismo e della «terza via» o «terza fase»”. La nostra “tradizione”, per dirla con Pietro
Ingrao, “collega democrazia e socialismo, sviluppo democratico e costruzione del socialismo”. In
Rifondazione Comunista questo patrimonio si è incontrato con le culture della “nuova sinistra” e di
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altri filoni del socialismo di sinistra, tra cui Basso e Panzieri, e di un costituzionalismo arricchitosi nel
lungo Sessantotto italiano nel rapporto con le lotte sociali. Nell’esperienza di Rifondazione abbiamo
partecipato a movimenti dentro i quali è sempre stata viva l’ispirazione democratica e libertaria e
anche la ricerca di forme più avanzate di democrazia partecipativa e diretta. Dai Forum sociali al
confederalismo democratico curdo all’America Latina ai movimenti contro la globalizzazione
neoliberista al rapporto al marxismo autonomo l’anticapitalismo ha avuto un’ispirazione
profondamente democratica a livello internazionale che rischia di essere cancellata dentro il
contesto della guerra globale. Non possiamo che riaffermare i contenuti della tesi, scritta da
Giovanni Russo Spena, del precedente congresso “Siamo partigiane/i della Costituzione nata dalla
Resistenza” https://www.rifondazionecomunista.org/xi/2021/06/26/tesi-5-siamo-partigiane-i-
della-costituzione-nata-dalla-resistenza/
Un comunismo democratico si pone oggi il compito della costruzione di un’alternativa alla tendenza
antidemocratica propria del capitalismo contemporaneo e a prefigurare un’alternativa di società.
Su questo piano è necessario riprendere la “battaglia culturale” contro il revisionismo storico e la
narrazione anticomunista dominante sia per riaffermare la necessità di un altro comunismo
possibile che costituisce la stessa ragion d’essere della rifondazione comunista. Il nostro compito
politico rimane quello della lotta per la democrazia. “Nelle società avanzate il socialismo o
comunismo del futuro sarà democratico o non sarà. Il pensiero liberaldemocratico o imparerà
davvero a separarsi dal capitalismo e a combatterlo o, ugualmente, non avrà futuro.” (Guido
Liguori). La rifondazione comunista è la prosecuzione della ricerca e della lotta per un progetto
socialista/comunista che vada oltre i limiti delle socialdemocrazie e dei comunismi novecenteschi.
Un compito che non è solo nostro e non riguarda solo il nostro paese a cui noi possiamo portare il
contributo della nostra originale storia. “Evviva il comunismo nella libertà”.
Di questa lotta politico-culturale è parte essenziale la lotta per il sistema elettorale proporzionale,
l’unico che rende il Parlamento “specchio del paese” e permette di rappresentare la lotta di classe
anche nelle istituzioni. Bisogna uscire dai sistemi elettorali truffaldini di ispirazione piduista
(maggioritario, uninominale, elezione diretta dei “leader”, premi di maggioranza, etc.) che sono
fattore essenziale del crescente astensionismo e che – come l’esperienza ha dimostrato –
garantiscono la vittoria delle destre ben al di là della loro effettiva forza elettorale.
A questa urgente lotta per la proporzionale (che peraltro ispira tutta la nostra Costituzione e il suo
sistema di garanzie e contrappesi) Rifondazione chiama tutti/e gli/le antifascisti/e e in particolare la
cultura giuridica democratica.
- LE CULTURE DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA
Le note precedenti delineano sommariamente quanto la rifondazione comunista nella sua
inattualità possa essere invece fondamento di un profilo culturale e politico forte in grado di
motivare attivismo e militanza come fu in grado di fare fino all’inizio degli anni 2000 e soprattutto
di dare un contributo alla ricostruzione di una sinistra di alternativa con dimensioni di massa nel
nostro paese e in Europa. La nostra ricerca non è stata mai separata dal dibattito internazionale e
dall’internità ai movimenti. Non si è mai svolta nel chiuso delle stanze di partito. È necessario avviare
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un cantiere aperto di elaborazione e confronto in cui il nostro partito svolga un ruolo attivo di
organizzatore, di costruzione di reti e occasioni, di proposta di temi e anche di ricerca.
- NON DELEGARE L’ANTIFASCISMO AL CAMPO LARGO
Da anni il risorgere dei fascismi o comunque di formazioni e tendenze di estrema o ultra destra ha
riconfigurato lo spazio politico in Europa e non solo.
L’antifascismo è stato sistematicamente usato dal centro neoliberista per legittimarsi a livello di
massa. Il pericolo rappresentato dai partiti dell’ultradestra ha sostanzialmente spostato i termini
dello scontro politico rispetto ad altre linee di divisione che vedevano la sinistra radicale porsi in
alternativa sia alle forze di centrodestra liberali che ai partiti socialisti e socialdemocratici che da
tempo si sono convertiti al neoliberismo. La crescita dell’estrema destra ha consentito alle forze
centriste di presentarsi come un argine democratico.
Questo scenario era stato già anticipato in Italia, da sempre laboratorio politico, con una dinamica
dello scontro politico che aveva al centro l’opposizione a Berlusconi che per molti versi anticipava
Trump, sdoganò i postfascisti, legittimò partiti apertamente xenofobi come la Lega.
Il contrasto alla cosiddetta “onda nera” in Europa ha tolto centralità alla contrapposizione tra
sostenitori dell’austerity neoliberista e dei trattati e la sinistra radicale che aveva raggiunto il
momento culminante con la vittoria di Tsipras in Grecia.
Le sinistre radicali nei vari paesi europei hanno dovuto riconfigurare le loro strategie e tattiche in
questo scenario. In Spagna e Francia si è passati da un’impostazione, tipica del populismo di sinistra,
di contrapposizione delle forze di sinistra radicale all’intero establishment neoliberista alla proposta
di un governo di sinistra con i socialisti nel primo caso e nel secondo a quella recente di un Fronte
Popolare anti-Le Pen.
In Italia questo si è tradotto in una tendenza finora maggioritaria a sinistra al “voto utile”, dato il
nostro sistema elettorale a turno unico e alla scelta di partiti come SI di internità al centrosinistra.
Noi abbiamo giustamente criticato la strumentalizzazione dei temi dell’antifascismo e
dell’antirazzismo da parte del centro liberista e del PD tesa a egemonizzare il campo della sinistra in
una logica bipolare. Una critica giusta anche perché proprio le politiche dei governi sostenuti dal PD
hanno alimentato la crescita dell’ultradestra che è riuscita a presentarsi come anti-establishment
pur essendo cresciuta nell’ambito del berlusconismo.
Va detto con chiarezza che sarebbe un errore politico negare o minimizzare il carattere regressivo e
assai pericoloso dell’ultradestra per la democrazia, la convivenza civile, i diritti civili e sociali, la
stessa possibilità di praticare il conflitto sociale.
Nella storia del comunismo novecentesco questo errore è stato ripetutamente presente e per
oggetto di profonda riflessione fino a diventare la sua critica un elemento di cultura politica di massa
del movimento operaio. Ricordiamo la sottovalutazione del fascismo negli anni ’20 da parte dei
“sinistri”, tra cui i giovani comunisti italiani, con cui polemizzò lo stesso Lenin che si fece promotore
della linea del “fronte unico” quando si accorse che la rivoluzione in Occidente era di là da venire e
che i partiti comunisti avrebbero dovuto lottare a lungo per diventare maggioritari nella stessa
classe operaia. Ricordo la sciagurata linea imposta da Stalin dei primi anni ’30 del “socialfascismo”
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a cui si opposero Gramsci e Terracini in carcere, ma su cui espresse perplessità lo stesso partito
italiano pur allineandosi al Comintern. Persino Lev Trotsky criticò duramente quella linea che poneva
sullo stesso piano i socialdemocratici e i fascisti e che avrebbe avuto effetti disastrosi divenendo uno
dei fattori della resistibile ascesa di Hitler. Trotsky non era certo sospettabile di moderatismo, infatti
fu criticato da Gramsci come teorico dell’offensiva anche nei periodi di ritirata, e che contrastò il
successivo approdo del Comintern alla strategia dei Fronti Popolari antifascisti elaborata in primo
luogo da Dimitrov e Togliatti e affermatasi dopo la vittoria di Hitler e del suo regime di terrore di
massa. Ma appunto lo stesso Trotsky insisteva per recuperare la linea del “fronte unico” che era
stata proposta da Lenin. Trotsky scriveva nel 1932 a proposito della Germania: “La socialdemocrazia
ha preparato tutte le condizioni per la vittoria del fascismo. Far ricadere sulla socialdemocrazia la
responsabilità della barbarie fascista è giusto. Identificare la socialdemocrazia con il fascismo è
completamente insensato”.
La nostra storia e identità di comuniste/i è radicata nell’antifascismo e nella Resistenza e proprio il
ruolo di più conseguente e impegnato partito antifascista fu il fattore che determinò il carattere di
massa che il PCI ebbe nel dopoguerra.
La giusta esigenza di non essere schiacciati dal bipolarismo e di non essere complici di politiche
antipopolari e di guerra non implica alcuna sottovalutazione dell’esigenza di sconfiggere le destre.
Vanno respinte posizioni settarie, che a volte ricordano il “socialfascismo” per distinguersi dal
centrosinistra, che di fatto consegnano agli occhi dell’elettorato di sinistra e dei movimenti al
“campo largo” il ruolo di contrasto e alternativa al governo Meloni.
Proprio il nostro coerente e conseguente antifascismo ci impone di proporre una linea e un
programma che consentano di contrastare più efficacemente le destre e anche analisi delle radici
economiche, geopolitiche, sociali e culturali del successo dell’ultradestra come fenomeno mondiale
e nazionale.
Non dobbiamo regalare l’antifascismo al ‘campo largo”.
- ANTIFASCISMO POPOLARE
Nel ribadire il nostro impegno nella lotta contro le destre è giusto sottolineare che a fomentare il
risorgere del fascismo sono le politiche neoliberiste e di guerra dentro il quadro della crisi della
globalizzazione capitalista. Solo un antifascismo popolare, in netta rottura con le politiche
antipopolari che le hanno favorite, può contrastare efficacemente le destre. Senza una rottura con
il neoliberismo non si fermano le destre in Europa come dimostra l’ascesa di Le Pen grazie alle
politiche antipopolari di Macron, per tanti anni punto di riferimento della classe dirigente del PD e
centrista.
La lotta contro le destre e l’opposizione al governo Meloni richiede il massimo di unità ma senza
perdere il nostro punto di vista critico, la nostra autonomia, la nostra linea di alternativa al
neoliberismo e alla guerra. La minaccia del ritorno del fascismo deve essere giustamente una
preoccupazione della sinistra e dobbiamo evitare che sia usata come ritornello delle élite centriste
neoliberiste per egemonizzare quella parte dell’elettorato che continua fortunatamente a nutrire
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sentimenti antifascisti e democratici. Anche perché le vicende europee dimostrano che l’estrema
destra viene sistematicamente sdoganata se dice si alla guerra e al ritorno all’austerity neoliberista.
Dobbiamo in primo luogo ribadire che un fronte popolare antifascista e per la Costituzione non può
accantonare l’articolo 11 e il ripudio della guerra.
Sono le logiche della guerra e del neoliberismo che stanno sdoganando l’estrema destra in Europa,
come dimostrano l’Ucraina, il governo Meloni e quello Rutte, lo stesso accordo di Macron con
Marine Le Pen.
Il governo Meloni e la coalizione di destra non solo hanno un’agenda antipopolare, classista,
neoliberista, razzista, xenofoba, omofoba, sessista, conservatrice e reazionaria oltre che una matrice
fascista che continuamente emerge. Il governo Meloni sta portando avanti un attacco che profila il
definitivo stravolgimento della Costituzione, lo smantellamento dello Stato sociale, la fine
dell’unitarietà della repubblica, la messa in discussione dell’indipendenza della magistratura, la
sistematica criminalizzazione delle lotte sociali.
Un partito come il nostro – che si autodefinito nell’ultimo congresso di “partigiane/i della
Costituzione” – non può assolutamente tenere un atteggiamento di sottovalutazione della necessità
della costruzione del più largo fronte unitario contro l’autonomia differenziata, il premierato, la
separazione delle carriere, le leggi repressive contro lotte sociali e in generale nell’opposizione al
governo delle destre.
Ribadiamo la contrarietà alla separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante e
della conseguente separazione dei CSM, dunque, condurrà fin dall’ approdo del ddl in Parlamento
una campagna massimamente unitaria. Un partito garantista non può tollerare che chi svolge le
indagini e sostiene l’accusa sia, nei fatti, diretto dalla polizia giudiziaria dunque dall’esecutivo.
La nostra opposizione al premierato (in realtà: l’ “elezione diretta del duce”, ogni cinque anni) è
nettissima perché esso rappresenterebbe il colpo definitivo e di segno autoritario a quel che rimane
della democrazia costituzionale fondata sul Parlamento.
Il ddl sicurezza è una “legge fascistissima” che criminalizza la protesta sociale e il conflitto.
Su questi terreni dobbiamo lavorare al fronte più largo possibile, con la Cgil, l’ANPI, l’ARCI, le
associazioni, le reti e i movimenti e anche con i partiti del centrosinistra come con le formazioni
della sinistra anticapitalista e i sindacati di base.
La nostra partecipazione al comitato promotore del referendum abrogativo della legge Calderoli
rappresenta la naturale continuazione del lavoro che abbiamo condotto per anni promuovendo i
comitati contro l’autonomia differenziata e il tavolo no AD con una approccio assai radicale nei
contenuti ma aperto al necessario dialogo e alla cooperazione con forze assai diverse da noi. Una
pratica non settaria ma rigorosa sui contenuti che ha fatto crescere dal basso e dall’esterno del
parlamento la critica delle proposte di regionalismo differenziato e la consapevolezza delle
conseguenze. Si tratta di una esperienza esemplare di costruzione di movimento in un contesto in
cui il movimento di massa non c’era ancora per determinarne le condizioni.
Anche il nostro ruolo di co-promotori della campagna referendaria per la riforma della legge sulla
cittadinanza (che porterebbe da 10 a 5 gli anni di permanenza necessari per ottenere tale diritto) si
è rivelato fondamentale. Ricordiamo che in circa 15 giorni si sono raccolte su piattaforma on line
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637 mila firme, soprattutto di giovani che trovano ingiusta e inaccettabile una disposizione che risale
al 1992 basata sullo ius sanguinis. Un tema così importante si pone oggi nel dibattito pubblico e non
solo fra le forze politiche che hanno considerato tale proposta troppo azzardata e che comunque
doveva ricadere unicamente in un asfittico ambito parlamentare che da decenni non produce nulla.
Da comuniste/i dobbiamo declinare tale referendum a modo nostro. La cittadinanza espone meno
allo sfruttamento e alla discriminazione e deve essere nostro obiettivo eliminare i vincoli che
impediscono di ottenere tale requisito.
Nel paese è fortissima a sinistra e nei movimenti una legittima domanda di unità contro la destra al
governo che noi dobbiamo saper cogliere senza rinunciare alle nostre discriminanti. La più larga
unità è necessaria e dobbiamo essere promotori di fronti a partire dai contenuti.
Il triplo appuntamento referendario l’anno prossimo con i quesiti contro il jobs act, contro
l’autonomia differenziata e per l’estensione del diritto alla cittadinanza sarà nel segno non solo
dell’opposizione alla destra ma anche una palese dimostrazione del fallimento delle politiche del
centrosinistra neoliberista dato che la gran parte dei quesiti riguardano provvedimenti legislativi
che hanno origine diretta o indiretta dai loro governi.
Il nostro partito deve lavorare all’apertura di una fase nuova di movimento e lotta, per dare un
orientamento di sinistra, antiliberista, anticapitalista e pacifista all’opposizione al governo Meloni.
Il nostro antifascismo è unitario nelle lotte e nelle mobilitazioni e ci vede impegnati alla costruzione
della più larga mobilitazione possibile e al più vasto schieramento, a partire dal rapporto Anpi,
contro i progetti del governo sul piano istituzionale: l’autonomia differenziata e il presidenzialismo.
Riteniamo indispensabile la “battaglia culturale” contro il revisionismo storico che delegittima i
fondamenti stessi della nostra Repubblica e della nostra Costituzione e che trova nell’affermazione
nel senso comune dell’anticomunismo lo strumento per cancellare il ruolo svolto dai partiti del
movimento operaio nella nostra storia.
Il governo Meloni è un prodotto di questa Europa neoliberista e guerrafondaia che ormai legittima
la stessa estrema destra se fa propria la guerra e i diktat neoliberisti. L’europeismo ideologico e
l’atlantismo del centrosinistra non costituiscono una barriera a una destra che è pienamente interna
alla governance europea e atlantica.
Come ha scritto Enzo Traverso, “Non possiamo lottare efficacemente contro il post-fascismo
difendendo l’UE. È cambiando l’UE che possiamo sconfiggere il nazionalismo e il populismo di
destra”.
Come abbiamo ripetuto per anni l’affermazione delle destre è maturata dopo decenni di politiche
neoliberiste antipopolari e di svuotamento della democrazia costituzionale. Solo un antifascismo
popolare può contrastare efficacemente il disegno della destra di stravolgimento della Costituzione.
Senza un antifascismo popolare e l’impegno contro la guerra e per l’attuazione della Costituzione
non è possibile contrastare un governo di ultradestra, reazionario, classista e guerrafondaio.
L’antifascismo popolare non può che essere sociale, conflittuale, solidale, pacifista e antiliberista,
femminista. C’è bisogno di una opposizione sociale e politica che lotti con coerenza per i diritti di chi
lavora, per la piena occupazione, per il diritto al reddito, alla salute, alla casa, allo studio, per tutte/i,
per il drastico taglio alle spese militari. Solo così l’antifascismo ritrova le sue radici, quelle di
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Matteotti, Gramsci, Rosselli, della Resistenza, del movimento operaio, delle lotte che hanno
attraversato la storia dell’ITALIA REPUBBLICANA.
- COSA INTENDIAMO PER SINISTRA DI ALTERNATIVA?
Nella nostra discussione bisogna chiarirsi su alcuni concetti il cui significato è progressivamente
cambiato di segno nel nostro dibattito interno e si è sclerotizzato in una forzatura che rende
schematico il nostro confronto. Va per esempio chiarito cosa intendiamo quando diciamo che ci
consideriamo un partito della sinistra di alternativa.
L’espressione dovrebbe essere intesa correttamente. Un tempo la usavamo per differenziarci dai
partiti dell’alternanza tipici del bipolarismo (ma non solo) che non si propongono un programma di
trasformazione, anzi condividono le scelte strategiche. L’alternanza tra partiti convergenti al centro
e che tutto sommato non cambiano nulla di sostanziale è il modello di “democrazia matura” che i
sostenitori del maggioritario proposero negli anni ’80 e ’90. Noi fummo tra coloro che si ribellarono
a questa omologazione del sistema politico che si determinò come risposta alla crisi e alla sconfitta
del movimento operaio, con la mutazione genetica dei partiti di massa che lo avevano rappresentato
che culminò con il cambio di nome e ragione sociale del PCI nel 1991.
La sinistra di alternativa è quella che propone un’alternativa di società e non solo un cambio di
personale politico alla guida del governo.
Da tempo nel nostro partito si è andata affermando un significato diverso e più ristretto del nostro
compito di costruire la sinistra di alternativa. Sinistra di alternativa sarebbe solo quella che si
presenta alle elezioni in alternativa ai partiti dei poli principali. Questa scelta politica di collocazione
su cui siamo impegnati dal 2008 nasceva dentro precise condizioni, tra cui certamente ha avuto un
peso enorme l’impianto fortemente neoliberista che ha avuto il PD fin dalla sua nascita, ecc.
In sedici anni si è prodotto uno slittamento semantico che rischia di farci perdere lucidità di analisi
e soprattutto una visione dei nostri compiti che tenga conto dei mutamenti del quadro politico e
sociale, dei rapporti di forza, dei bisogni politici di classe o democratici a cui dare risposta.
Una sinistra di alternativa è tale se propone una politica di trasformazione sociale, se lotta per fare
avanzare concretamente elementi di alternativa.
La collocazione politica rispetto agli schieramenti e la politica delle alleanze dovrebbe essere sempre
subordinata alla costruzione concreta dell’alternativa e all’efficacia dell’iniziativa politica, alla
crescita del consenso sulle nostre posizioni, alla capacità di suscitare mobilitazione, aprire
contraddizioni, ottenere vittorie su obiettivi concreti o di contrastare politiche sbagliate. È una
visione riduttiva e anche piuttosto ottusa quella che qualifica la sinistra di alternativa solo in base al
presentarsi in alternativa al centrosinistra.
Se questa visione fosse fondata dovremmo ritenere che gran parte dei partiti comunisti,
anticapitalisti, antiliberisti e della sinistra radicale in Europa non sarebbero formazioni di alternativa
visto che a livello locale, regionale e assai spesso nazionale si alleano con formazioni aderenti al
Partito Socialista Europeo con le quali hanno avuto scontri anche molto duri.
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Non è che il Partito Comunista Spagnolo o Podemos non sono da considerarsi sinistra di alternativa
perché da circa 6 anni sono al governo né si può dirlo per il PCF e la France Insoumise perché hanno
fatto il Front Populaire e governano molte città con i socialisti.
Sarebbe davvero una pulsione settaria quella che accusasse la quasi totalità dei partiti della sinistra
radicale in Europa di “abbandono del terreno dell’alternativa” perché negli enti locali o a livello
nazionale hanno fatto alleanze.
Per ricostruire le condizioni di un confronto sulla tattica e la strategia dovremmo evitare
semplificazioni che ci deresponsabilizzano rispetto alla necessità di fare scelte e di verificare i
percorsi fatti finora.
Quando decidemmo di proporre la costruzione della sinistra di alternativa ponendo la condizione
irrinunciabile dell’alternatività ai due poli (cosa che ha impedito l’unità con altre forze come SI che
hanno fatto scelte diverse) lo abbiamo fatto sulla base di un’analisi del quadro politico italiano e
europeo, dell’impianto programmatico del centrosinistra ecc. e con l’idea che una compromissione
con quello schieramento ci avrebbe impedito di essere credibili nel rapporto con i movimenti, le
lotte e larghi settori delle classi lavoratrici e popolari.
È evidente che dal governo Monti a quello Draghi passando per gli esecutivi Letta, Renzi, Gentiloni
la nostra sia stata una scelta coerente e fondata su un giudizio corretto anche se non ha funzionato
sul piano elettorale. Più dubbio che lo sia stata la scelta quasi unanime tra di noi di non partecipare
a una lista come LEU nel 2018 che non ci avrebbe impedito di tenere in parlamento una linea
autonoma di netta opposizione.
Ma questo non implica che se si discute in un quadro profondamente mutato sulla prosecuzione
e/o l’articolazione o il cambiamento della strategia o della tattica si stia proponendo di abbandonare
il proprio profilo di sinistra di alternativa. Tra l’altro il PRC per un ventennio è stato un attore assai
importante sul piano politico e sociale modificando spesso la propria tattica ma mantenendo la
barra dell’alternativa al neoliberismo e alla guerra con un’efficacia e una capacità di mobilitazione
sicuramente superiore a quella che abbiamo avuto nonostante la nostra sacrosanta coerenza dal
2008.
Il problema che dovrebbe porsi un partito comunista è come dare il suo contributo alla costruzione
di un’alternativa di società sia sul piano programmatico e rivendicativo sia su quello del
rafforzamento della sinistra antiliberista, anticapitalista, femminista, ambientalista, pacifista.
Il grado di alternatività va verificato non in termini di autoreferenzialità identitaria ma di efficacia
rispetto alle lotte, alla concretezza delle problematiche sociali, alle dinamiche di classe,
all’allargamento e alla difesa degli spazi democratici, allo stesso rafforzamento delle forze che
lottano per un’alternativa di società.
- IL RUOLO DEL PARTITO, AUTONOMIA E UNITA’
Nella situazione difficilissima in cui siamo l’esistenza e la resistenza di Rifondazione Comunista
rappresenta un elemento prezioso di cui dobbiamo andare orgogliosi/e.
L’autonomia di Rifondazione è un elemento da salvaguardare perché riteniamo fondamentale che
la nostra cultura politica dia un contributo alla costruzione di un’alternativa nel nostro paese. Per
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questo appare sbagliata e dannosa ogni ipotesi di scioglimento di fatto del Partito o di cessione di
sovranità a improvvisati contenitori di dimensioni e caratteristiche minoritarie che restringono la
nostra capacità di interlocuzione sociale e politica.
La ricerca dell’unità della sinistra anticapitalista e antiliberista non può tradursi in subalternità a
posizioni che impediscono spesso di sviluppare l’iniziativa politica e sociale.
Continueremo come sempre a lavorare e cooperare con tutte le formazioni della sinistra
anticapitalista e antiliberista, ma è evidente che non vi sono le condizioni politiche per proseguire
nella costruzione di una soggettività unitaria essendo stato manifestamente negato l’impegno per
l’unità e lo sviluppo del fronte pacifista che era alla base del progetto originario di Unione Popolare.
La pietra tombale sull’esperienza di Unione Popolare è stato il sostanziale veto settario di Pap a
qualsiasi alleanza elettorale intorno al tema della pace, che si è poi invece tramutato addirittura
nell’indicazione di voto per AVS con cui per mesi si era espressa contrarietà a qualsivoglia
convergenza per le elezioni europee. Si conferma l’indicazione leninista secondo cui la lotta sui due
fronti convergenti dell’opportunismo e dell’estremismo rappresenta una costante della politica
comunista.
La crisi del progetto di Unione Popolare è derivata dunque da divergenze che evidenziano differenze
di cultura politica che hanno prodotto un conflitto costante e respingente invece di un contesto
attrattivo di nuove energie e intelligenze. Il contrasto pregiudiziale alla costruzione di una lista
contro la guerra alle elezioni europee, la dichiarata incompatibilità nei confronti di formazioni come
il M5S e AVS anche sul terreno delle elezioni locali, e perfino l’indisponibilità a partecipare a
manifestazioni indette da CGIL o ANPI o a comitati unitari come quello referendario, delineano una
divergenza che non può essere sottovalutata. Non si può costruire un soggetto unitario sul terreno
di una perenne conflittualità interna.
Le difficoltà e la crisi che vive da anni il partito non può tradursi in un atteggiamento di rinuncia e
abdicazione alla nostra autonomia che va anzi rafforzata, nei quattro aspetti (strettamente legati)
della linea politica, della proposta culturale e ideologica, della consistenza organizzativa, del profilo
comunicativo esterno.
L’autonomia è il contrario del settarismo e deve anzi coniugarsi con una rinnovata capacità di fare
politica, che significa mettere in campo la forte vocazione unitaria che fa parte integrante della
nostra storia.
Non ha alcun fondamento una visione dispregiativa del frontismo che è tanta parte della storia
comunista e non va confuso con la ricerca opportunista delle alleanze a tutti i costi. La “politica
unitaria” costituiva anche un’ispirazione costante del socialismo di sinistra di Morandi e Panzieri per
citare un altro filone della storia del movimento operaio che è un riferimento prezioso per la
rifondazione comunista.
Nella nostra storia siamo sempre stati promotori e propulsori di convergenze e lotte unitarie. Non
ci sarebbe stato il Genoa Social Forum senza Rifondazione Comunista e anche allora c’erano
soggettività politiche che scelsero la separazione autoreferenziale e identitaria. Non appartiene alla
nostra cultura politica l’autoesclusione semmai la sfida rispetto ai contenuti concreti.
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È fondamentale oggi assumere l’aspetto plurale dei fronti corrispondenti ai diversi terreni di lotta
che ci vedono impegnati. La tendenza a porre costantemente pregiudiziali e incompatibilità ostacola
la possibilità sui differenti terreni di lotta e mobilitazione di costruire la più larga convergenza e
rappresenta una rinuncia a una sfida egemonica con le formazioni del centrosinistra.
Esiste anzitutto un fronte di difesa della democrazia e della Costituzione, che oggi vive soprattutto
nei referendum e nella lotta contro l’AD e il premierato. Di questo primo fronte il nostro consolidato
rapporto con l’ANPI (frutto della nostra linea politica e niente affatto scontato per altre formazioni
della sinistra anticapitalista) rappresenta un elemento prezioso.
Esiste un fronte di lotta per la pace, la priorità assoluta di questa fase, che ha l’obiettivo di dare vita
ad un autonomo e organizzato movimento pacifista di massa; il punto di partenza è l’interlocuzione
con il variegato ma vivissimo arcipelago delle organizzazioni pacifiste, assieme al quale (nel rispetto
reciproco) dobbiamo trasformare il generico e diffuso dissenso dell’opinione pubblica verso la
guerra in un vero movimento di massa per la pace, ancora assente nel nostro paese. Va verificata la
possibilità e le modalità concrete per proseguire le iniziative di Pace Terra Dignità come movimento
contro la guerra con la convinzione che nel nostro paese e in Europa ci sia bisogno di un pacifismo
che sfidi la politica irresponsabile delle classi dirigenti.
Esiste un fronte del lavoro, quasi tutto da costruire anzitutto attraverso la ricerca di rispettose
interlocuzioni unitarie ma anche attraverso il lavoro diretto dei comunisti e delle comuniste nelle
diverse organizzazioni sindacali: la nostra rivendicazione del salario minimo rappresenta un aspetto
decisivo a cui va accompagnata una piattaforma più generale.
Esiste un fronte antirazzista che assume sempre più centralità di fronte all’attacco delle destre. Ci
battiamo per l’abolizione della legge Bossi Fini con chiunque condivida l’obiettivo.
L’elenco degli esempi potrebbe continuare, ma ciò che è importante è la forma politica che
proponiamo: un’interlocuzione unitaria e reciprocamente rispettosa capace di mettere sempre al
centro e valorizzare ciò che unisce. In questo lavoro vive la vera capacità politica delle comuniste e
dei comunisti, essere interni ai movimenti di massa e contribuire a costruirli.
Il rilancio del partito sul piano organizzativo, del partito sociale, tra le giovani generazioni (questioni
a cui dedicheremo capitoli specifici) non può essere affrontato solo in termini organizzativistici.
- UN NUOVO QUADRO POLITICO
Rispetto agli ultimi due congressi il quadro politico è profondamente cambiato. Oggi c’è un governo
presieduto dall’estrema destra dopo molti anni di esecutivi con la presenza del PD tranne la breve
e nefasta parentesi del governo M5S-Lega. Il governo Meloni tende a rafforzare la tendenza bipolare
già fortissima per i caratteri delle nostre leggi elettorali, ma anche a suscitare nel paese,
nell’elettorato di sinistra, nei movimenti, nei sindacati, nell’associazionismo una comprensibile forte
domanda politica di uno schieramento che sia in grado di battere la destra. È questa la apparente
forza della proposta del “campo largo” pur con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti. Inoltre è
cambiato anche il profilo del centrosinistra che almeno sul piano dell’immagine e del discorso
pubblico non è più quello iperliberista che abbiamo contrastato per anni. Non si può sottovalutare
la novità rappresentata dall’affermazione nelle primarie dell’attuale segretaria del PD che ha
cambiato il posizionamento e anche la narrazione su questioni importanti come l’autonomia
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differenziata e il jobs act, la sua frequentazione delle manifestazioni della Cgil e dell’ANPI dopo anni
di in cui si cercava legittimazione con la vicinanza al mondo delle imprese e della finanza. Pur
essendo assolutamente insufficiente per accreditare un’autentica svolta rispetto a un impianto
programmatico e ideologico consolidatosi progressivamente nel corso di più di due decenni nel
centrosinistra è evidente che si tratta di un profilo e un immaginario diverso dal passato. Del resto
quasi tutti i partiti dell’internazionale socialista sono in crisi e perdono molti consensi proprio in
conseguenza delle politiche neoliberiste che hanno portato avanti in diversi paesi e nella
Commissione Europea. Non può essere negata neanche l’evoluzione del M5S che da un lato ha
molto ridotto la sua consistenza elettorale direttamente a vantaggio della destra e dell’astensione,
ma dall’altro ha assunto – pur con tante contraddizioni – un profilo progressista e antifascista fino
all’adesione al gruppo The Left al parlamento europeo e soprattutto una posizione pacifista. La
stessa crescita elettorale di AVS alle ultime elezioni europee definisce un possibile peso differente
di posizioni di sinistra e ambientaliste. Il peso delle formazioni centriste dal marcato profilo
neoliberista che più si richiamano all’agenda Draghi e alla lunga stagione dell’ubriacatura
neoliberista e confindustriale appaiono assai ridimensionate.
Su questo quadro politico, certamente assai diverso dal passato anche recente, non bisogna
alimentare illusioni perché ci sono elementi di lunga durata che pesano e manca una seria
ridiscussione dell’impianto programmatico che ha caratterizzato i governi di centrosinistra e che
ancora li caratterizza nelle regioni e negli enti locali. Il gruppo dirigente del PD per gran parte è
quello del passato, con i suoi metodi, i suoi sistemi di potere, le sue relazioni, le culture e i programmi
che ha espresso e sostenuto. Soprattutto il quadro in cui il PD inserisce le coordinate della sua azione
è quello che ha condiviso con gli altri partiti “socialisti”, in diversi dei quali sono in corso
ripensamenti e cambi di rotta, e con la governance europea. Sul piano poi della questione dirimente
in questo momento storico – quella della guerra e del riarmo – è evidente quanto sia forte il legame
e la subalternità agli USA e alla NATO. Non è un caso che finora il cosiddetto “campo largo” non sia
stato in grado di proporre un progetto di cambiamento per il paese e che si sia aperto uno scontro
rispetto all’alleanza con Renzi. Il positivo riattivarsi di energie nelle mobilitazioni contro il governo
Meloni non deve far dimenticare che nel nostro paese l’astensione è altissima, riguarda soprattutto
le classi popolari ed è cresciuta parallelamente alla spoliticizzazione derivante anche dalla delusione
nei confronti dei governi di centrosinistra.
Un partito comunista non può non tenere conto di uno scenario così cambiato e del nuovo quadro
politico. È evidente che esso contiene da un lato un tentativo di ridefinire un profilo di sinistra e
sociale del PD per recuperare elettorato e competere con M5S ma anche spazi di iniziativa per una
sinistra di alternativa che non vuole auto-marginalizzarsi. Nessun esito è sicuro e automatico,
dipendono da molti fattori le scelte tattiche che dovremo fare nel futuro immediato e a lungo
termine. Ma è evidente che dobbiamo riconquistare la credibilità in un vasto elettorato che chiede
una svolta delle politiche dello stato a favore delle classi subalterne con provvedimenti tangibili ed
efficaci.
Tranne ristrette “avanguardie” nessuno in Italia è interessato a misurare, nelle elezioni, la
“coerenza” o la “fedeltà a principi astratti” incapaci di modificare alcunché della realtà sociale del
paese. Dobbiamo mettere in atto a questo proposito una seria analisi sulla composizione politica di
classe che non sia semplicemente una pur necessaria fotografia della condizione oggettiva,
lavorativa, economica ma che faccia inchiesta sull’opinione (come scrive Gramsci sulla “vita
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interiore”) delle fasce sociali subalterne. Troppo spesso a sinistra viene risolta la scarsa conoscenza
della realtà con scorciatoie iper-soggettiviste e aleatorie, che danno per scontata una potenziale
propensione alla lotta di massa da parte di soggetti che subiscono profonde ingiustizie; troppo
spesso questa caricatura viene fatta sull’elettorato astensionista, sul popolo del web, sulle fasce
sociali sfruttate o escluse. La realtà sociale non può essere ridotta alla bolla esperienziale di ristretti
circuiti militanti, ancor meno nei molti casi in cui il nostro Partito non ha un’internità reale ai processi
sociali ma si limita ad evocarli o millantarli. Le stesse realtà nelle quali siamo presenti non possono
essere interpretate come necessariamente parte di una lotta per il “tutto mai”; sono portatrici di
processi dialettici “vertenza-risultato”, “obbiettivo-verifica”. Le stesse realtà nelle quali siamo
presenti non possono essere interpretate come necessariamente parte di una lotta per il “tutto
mai”; sono portatrici di processi dialettici “vertenza-risultato”, “obbiettivo-verifica”. Un discorso
analogo va fatto per i movimenti e le vertenze in cui emergono di frequente esigenze di referenti
sul piano della rappresentanza ed in questo quadro l’affinità ideale, il rispetto o la collaborazione
politica con noi non vanno confuse con un presunto credito ad una linea che rischia di essere
percepita come cieco isolazionismo.
“essi rivolgeranno a noi le loro proteste solo quando vedranno che possono raggiungere qualche
risultato, che noi siamo veramente una forza politica” (Lenin)
Bisogna avere parole d’ordine chiare che corrispondano alla natura della fase politica che stiamo
attraversando.
- UN BILANCIO
Il prossimo Congresso del PRC dovrà essere l’occasione per un ripensamento profondo della sua
natura, della sua strategia e del suo modo di operare nella società italiana e nella dimensione
internazionale. Per questo è innanzitutto indispensabile un bilancio della sua vicenda storica in
generale ma, in particolare, dell’esperienza avviata con il congresso di Chianciano del 2008 che portò
ad una spaccatura a metà del partito e a successive scissioni.
Occorre un bilancio approfondito che prenda atto che quell’ipotesi strategica – il tentativo di
costruire” in basso, a sinistra” una coalizione politica ed elettorale unendo le forze politiche
antiliberiste e alternative al centrosinistra – non ha funzionato anche se le sue premesse erano
certamente giuste e avevano l’obbiettivo di dare risposta alla crisi aperta dalla sconfitta della Sinistra
Arcobaleno. Il PRC si è indebolito e ha perso peso politico come attestano tutti i dati oggettivi.
Arretramento dell’influenza elettorale, progressiva riduzione degli iscritti e dei militanti, ulteriori
defezioni del gruppo dirigente che a Chianciano aveva costituito parte della maggioranza.
Lo stato attuale del Partito, la sua progressiva esclusione da tutte le sedi rappresentative,
l’insuccesso delle varie forme di aggregazione costruite dal 2008 ad oggi, in un contesto di
invecchiamento complessivo del quadro attivo, pongono inevitabilmente il tema della esistenza del
PRC come forza autonoma e capace di iniziativa politica. La stessa difficoltà nel generalizzare le
pratiche di “partito sociale” riflette un generale indebolimento di un corpo militante pur generoso
e in grado di compiere miracoli organizzativi come dimostrato nelle raccolte firme per leggi di
iniziativa popolare e presentazione delle liste.
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Il dibattito congressuale non si può chiudere nel tatticismo o nello scontro di corrente che potrebbe
solo determinare un ulteriore e forse definitivo indebolimento del PRC, ma deve assumere come
necessario un confronto sulle questioni fondamentali: prospettiva strategica, cultura politica,
definizione dei soggetti sociali protagonisti dell’idea di trasformazione, scelta delle alleanze.
È indispensabile un’ispirazione unitaria pur nella pluralità dei punti di vista e la capacità di indicare
alle classi lavoratrici un progetto politico e ideale e anche una prospettiva di cambiamento che non
vedono nell’attuale contesto politico.
La strategia uscita dal congresso del 2008 presupponeva l’esistenza di una richiesta politica diffusa
in settori popolari per la costruzione di uno schieramento alternativo alla destra ed anche al centro-
sinistra in quanto, anche quest’ultimo, interno al paradigma neoliberista. Se le ragioni di quella
impostazione sono state confermate dalle politiche dei governi che si sono succeduti è evidente che
i vari tentativi di costruire questo polo non hanno avuto successo. Nel momento in cui la crisi di
legittimazione delle classi dirigenti è stata più forte è stato il grillismo a raccogliere la protesta e il
malcontento. Quando è andato in crisi non si sono aperti maggiori spazi alla sinistra di alternativa al
di fuori del bipolarismo.
L’ipotesi su cui abbiamo costruito la nostra tattica è stata quella che la rottura col centrosinistra e
la nostra alternatività ai poli esistenti avrebbe consentito di ricostruire, unitamente al lavoro sociale,
un radicamento di massa e la possibilità di diventare punto di riferimento per larghi settori della
società e delle classi lavoratrici colpiti dalle politiche neoliberiste. Questo non è accaduto e
dobbiamo analizzare le ragioni per le quali la nostra indubbia coerenza non si è tradotta in una
rinnovata connessione sentimentale con le classi popolari o le giovani generazioni.
Una risposta la troviamo già in Gramsci che nei Quaderni del carcere scriveva: “La pretesa
(presentata come postulato essenziale del materialismo storico) di presentare ed esporre ogni
fluttuazione della politica e dell’ideologia come una espressione immediata della struttura, deve
essere combattuta teoricamente come un infantilismo primitivo, o praticamente deve essere
combattuta con la testimonianza autentica del Marx, scrittore di opere politiche e storiche
concrete.”
L’impoverimento di larghi settori popolari e o la precarizzazione del lavoro non si traducono
automaticamente in uno spostamento a sinistra nella società e non è una scoperta recente che
correnti politiche pur esprimendo gli interessi di classe e popolari più di altre non riescano a
trasformarsi in “forza materiale”, cioè in consenso.
Siamo da tempo di fronte al rischio concreto che dalla ricerca di un polo alternativo con influenza di
massa si arrivi ad una visione sempre più settaria del rapporto con le altre forze politiche, le
organizzazioni sociali e le diverse correnti ideali che hanno influenza nella società. Partendo da una
prospettiva fondata, l’alternatività alla destra e al centro-sinistra può diventare la copertura di un
vuoto strategico e produrre una totale ininfluenza nel dibattito politico e sociale.
Durante la fase aperta dal governo Monti e del renzismo c’è stata la possibilità concreta di aggregare
un polo di alternativa e/o una soggettività unitaria di sinistra antiliberista. Ma da tempo
riscontriamo una difficoltà enorme di cui i risultati elettorali sono un riflesso.
La riflessione critica non ci esime dall’esame dei nostri limiti ma va anche evitato di auto attribuirci
responsabilità ed errori che non abbiamo commesso. L’alternativa in basso a sinistra avrebbe avuto
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bisogno di raccogliere in una coalizione della sinistra antiliberista unita, come è stato fatto in altri
paesi, la forza per competere con il PD per l’egemonia nell’opposizione alle destre e per opporsi con
la massa critica sufficiente ai governi tecnici di sostanziale unità nazionale. Oltre alle difficoltà poste
dalla legge maggioritaria bipolare italiana abbiamo dovuto fare i conti con i nostri interlocutori, sia
alla nostra “destra” sia alla nostra “sinistra”, totalmente schiacciati sulle opposte posizioni di
subalternità al PD o di autoisolamento settario ed impotente. Questi sono i principali motivi
oggettivi che non hanno permesso di unire la sinistra alternativa in modo continuativo e
convincente. La nostra responsabilità consiste nel non aver per tempo portato avanti, anche a causa
della vita correntizia interna al partito, una lotta politica dentro e fuori al partito per rimuovere le
opposte illusioni e la discutibile concezione secondo la quale nelle elezioni non si dovrebbero fare
scelte tattiche, per loro natura sempre contraddittorie perché condizionate da molti fattori, dallo
stato del conflitto sociale al grado di egemonia del sistema maggioritario nella popolazione, dalla
natura della destra in campo all’apparente oggettività delle scelte tecnocratiche dell’Unione
Europea e dei nostri governi tecnici e così via, bensì scelte di principio e ispirate dall’affanno di
testimoniare una coerenza ed un purezza nell’enunciazione di posizioni utili a convincere una
ristretta minoranza estremamente politicizzata, o una opposta coerenza di internità allo
schieramento di centrosinistra qualsiasi fosse la sua politica in nome della battaglia contro la destra.
Oggi in Italia esistono decine di formazioni che si definiscono comuniste. Inizialmente il PRC, sotto
l’effetto del crollo del blocco di paesi del socialismo di stato e della scomparsa del PCI aveva
raggruppato in sé tutte le varie tendenze, anche se la sua principale dimensione di massa era data
da militanti provenienti dall’esperienza del Partito Comunista Italiano. Le diverse vicende storiche
hanno portato ad una progressiva e crescente divaricazione di posizioni in parte legate a
differenziazioni ideologiche, alcune delle quali preesistenti alla stessa nascita del PRC, e in parte a
scelte politiche contingenti. Sulla dispersione ha anche influito una insufficiente capacità di costruire
una gestione collettiva e partecipata del Partito.
L’idea di ricomporre tutti questi frammenti in un unico soggetto politico è ormai impossibile e in
larga parte inutile anche per il prevalere di logiche settarie nelle quali la modalità autoreferenziale
e lo scollamento dai soggetti sociali è per molti versi irreversibile.
Senza perdere il nostro impegno unitario nei confronti delle formazioni comuniste e anticapitaliste
non possiamo inseguire logiche che ci impediscono di sviluppare l’iniziativa politica e le
interlocuzioni indispensabili a svolgere un ruolo efficace.
L’esperienza di Potere al popolo e poi di Unione Popolare ha mostrato che sostanzialmente quello
che doveva essere un contenitore unitario “a bassa soglia” capace di essere attrattivo nei confronti
di settori più larghi della società, della sinistra, delle culture critiche, dei movimenti si è trasformato
in un recinto settario. Per questo va confermata la scelta di ritenere esaurita quella esperienza di
costruzione di un soggetto unitario che avrebbe senso solo se in grado di essere veicolo effettivo di
reale allargamento come in altri paesi europei e dell’America Latina.
Per quanto riguarda le soggettività dichiaratamente comuniste, nate da scissioni di Rifondazione,
dobbiamo laddove si rendesse possibile operare per la riunificazione sulla base del patrimonio
comune originario.
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Per il PRC, che è nato da una volontà di rappresentare una maggioranza sociale, il ripiegamento nella
logica della setta sarebbe un cambiamento di natura e la rinuncia a svolgere il proprio ruolo storico
di partito di trasformazione sociale.
Trasformarsi in “setta politica”, per usare l’espressione di Marx, è oggi un pericolo concreto. Non si
tratta solo di un problema di quantità numerica delle forze organizzate e influenzate dal partito ma
di una diversa logica di azione politica. Il PRC mantiene una capacità di incidenza e di relazioni dovute
alla propria natura originaria, di forza politica con dimensioni di massa, ma questa incidenza è
destinata sempre più a svanire se non è supportata dalla capacità di mutare i rapporti di forza e di
incidere nelle dinamiche politiche e sociali.
La ricerca su come uscire dalla crisi che vive il nostro progetto è un compito che non si risolve
attraverso la ripetizione all’infinito delle stesse posizioni e degli stessi propositi volontaristici.
- Uscire dall’elettoralismo estremistico
Nella storia dei partiti rivoluzionari e comunisti si è sempre discusso molto, e ci si è divisi molto, fino
a drammatiche scissioni. Ma queste discussioni vertevano sempre su questioni strategiche (diverse
letture della fase della lotta di classe, diverse interpretazioni di Marx, il problema del potere, etc.),
in Rifondazione invece si discute, e ci si divide, praticamente solo su questioni tattiche, anzi
riguardanti quel limitato settore della tattica che è la tattica elettorale.
In generale noi sappiamo che la prevalenza della tattica sulla strategia non è mai un buon segnale
per i partiti comunisti, anzi questo è un segnale certo di opportunismo.
Forse questa centralità dell’elettoralismo è un residuo di altre fasi della storia di Rifondazione, e
della centralità che assumeva in quelle fasi la rappresentanza istituzionale, peraltro al tempo
abbastanza cospicua, nonché fonte di finanziamento e garanzia di visibilità mediatica del Partito.
In passato abbiamo sicuramente avuto problemi di tendenze elettoralistiche che tendevano alla
subalternità verso il centrosinistra e abbiamo condotto una dura lotta su questo piano. Da tempo
assistiamo a una propensione opposta e speculare. Lo sottolineiamo con un richiamo al modo di
Lenin di “piegare il ferro dalla parte opposta per raddrizzarlo”.
Oggi sembra a volte che per un Partito debole nel suo radicamento sociale, debolissimo sul piano
ideologico e culturale, le elezioni rappresentino il luogo privilegiato, se non l’unico, della identità.
Ciò determina una sorta di paradossale elettoralismo estremistico, che abbiamo duramente pagato
in molte situazioni: elettoralismo, perché si mette al centro di tutto, come elemento prioritario (se
non unico) dell’identità del Partito il fatto elettorale, ma estremistico, perché si declina questo
problema con considerazioni settarie, che nulla hanno a che fare con il conseguimento di un buon
risultato elettorale (ad esempio rifiutando qualsiasi alleanza, anche quelle rese necessarie dalle
infami leggi elettorali vigenti o da spazi concreti di iniziativa).
Se ci si presenta alle elezioni è del tutto evidente che l’obiettivo sia laddove possibile eleggere, e
dunque i trucchi e le truffe del potere che sono stati pensati e introdotti proprio per impedire che
le/i comuniste/i possano eleggere debbono essere contrastati, cioè (in attesa di sopprimerli)
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debbono essere nel frattempo almeno aggirati con una intelligente tattica (e la tattica presuppone
sempre dei margini di spregiudicatezza).
La concezione che riduce l’identità comunista al momento elettorale è sbagliata e assai dannosa, e
il Congresso è chiamato a correggerla.
- LA NOSTRA PRESENZA NEGLI ENTI LOCALI
Rifondazione Comunista è impegnata nella costruzione dell’alternativa alla guerra al neoliberismo.
Questa lotta non può prescindere dalla lotta contro le destre oggi al governo. Le nostre posizioni
non avanzano se percepite come autoreferenziali e non utili al fine di sconfiggere le destre. È su
questo che fa leva il “voto utile”. La nostra tattica è evidente che deve misurarsi con i dati
dell’esperienza e con le dinamiche in corso. Abbiamo verificato, per fare un esempio, che la
posizione che abbiamo assunto da anni per quanto riguarda gli enti locali non si è rivelata efficace
quando slegata dalle dinamiche concrete dei territori.
La scelta di rifiutare a priori ogni alleanza locale e/o regionale ha prodotto la nostra fuoriuscita dagli
enti locali e dalle regioni pressoché ovunque, tranne in rare aree del paese dove abbiamo
storicamente una forza più consistente o in rare esperienze locali.
La nostra linea, che non è seguita da nessun partito della sinistra radicale in Europa, aveva una sua
efficacia nel periodo in cui il PD al governo appariva agli occhi di settori larghi della sinistra critica e
dei movimenti come l’incarnazione dell’establishment e del neoliberismo. Non a caso in quella fase
riuscimmo a costruire esperienze forti e larghe in tante grandi città e siamo stati tra i promotori,
come nel progetto dell’Altra Europa, di una riaggregazione di energie e intelligenze a sinistra capace
anche di raccogliere consenso. Dopo Renzi le cose sono diventate più difficili e oggi nel nuovo
quadro politico è assai ristretta l’area di chi ritiene a priori indispensabile e imprescindibile
l’alternatività al centrosinistra.
Questo non implica che nella maggior parte delle città e delle regioni non vi siano solidissime e
concrete ragioni per motivare la nostra proposta di alternativa. In altre, probabilmente assai meno,
si possono aprire spazi per coalizioni più larghe e di cambiamento concreto o comunque contesti da
valutare caso per caso.
Abbiamo constatato che la nostra proposta di costruire dove possibile coalizioni con M5S e anche
AVS ha dato spesso buoni risultati smentendo le propensioni settarie di altre formazioni dentro UP
e anche nel nostro partito.
È evidente che una linea che discenda dall’alto su realtà assai diverse tra loro non funziona e anzi in
molti casi ci ha isolato al punto di non riuscire neanche a presentare liste unitarie. Non si tratta di
perdere per nulla la nostra radicalità delle nostre posizioni sui beni comuni, il lavoro, l’urbanistica,
il consumo di suolo, le privatizzazioni, l’ambiente i servizi sociali, la corruzione e il clientelismo. Non
dobbiamo assolutamente tenere l’atteggiamento di AVS che è quello di alleanze a tutti i costi e
subalterne al PD ma dare ai territori la possibilità di determinare le modalità e le tattiche diverse
con cui è possibile condurre la lotta politica nei differenti contesti.
Dobbiamo continuare a essere alternativi ma in una maniera che, senza sacrificare il nostro profilo
e i nostri contenuti, sia più efficace e articolata, capace di cogliere le occasioni laddove ve ne siano
le possibilità per allargare il coinvolgimento e la capacità di parlare alla società, alle classi popolari e
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ai settori di movimento. Di certo scomparire da gran parte dei comuni non aiuta a rafforzare la
sinistra di alternativa. La nostra vigilanza dovrebbe essere rivolta a qualificarci come partito, fuori e
dentro le istituzioni, capace di costruire conflitto, vertenze, proposte e mutualismo. La presenza
nelle istituzioni è parte di una “lunga marcia” che deve sempre coniugarsi al rifiuto
dell’omologazione.
- LA QUESTIONE DELLE ALLEANZE
Il tema delle alleanze politiche e sociali non può essere accantonato o risolto con formule
semplicistiche che esorcizzano la realtà anziché modificarla. Tutta la sinistra alternativa europea si
è posta nel tempo il problema di come rapportarsi alla socialdemocrazia e alla sinistra liberale. Ha
dovuto prendere atto della difficoltà, in presenza di rapporti di forza quasi sempre sfavorevoli, di
produrre effettivi cambiamenti politici. In generale non ha mai negato pregiudizialmente la
possibilità e necessità di forme di accordo.
Spesso ha pagato un prezzo elettorale alla partecipazione a governi che non hanno dato risposte
adeguate alle esigenze delle classi popolari, ma ha anche dovuto mantenere una tattica (che
qualcuno forse considera “tatticismo”) sufficientemente flessibile per non venire cancellata dallo
scenario politico e diventare una forza del tutto irrilevante.
Certamente per allearsi occorre esistere come forza politica dotata di un’autonomia strategica e di
identità e di un minimo di radicamento sociale e anche di una volontà conflittuale. Trasformare una
scelta di tattica elettorale in un marcatore di identità non è segno di radicalità quanto semmai di un
vuoto di strategia. Il fatto che tante rotture dentro il PRC siano avvenute su questo tema non è il
segnale di un perenne scontro fra opportunisti e autentici rivoluzionari, ma l’effetto della
insufficienza del partito, una volta esaurita l’onda derivata dall’opposizione allo scioglimento del
PCI, di fondare una nuova dimensione strategica adeguata al mutamento di contesto. Sicuramente
a questo hanno contribuito i diversi sistemi elettorali ma se la nostra debolezza è determinata solo
ai fattori oggettivi, sui quali per lo più non abbiamo possibilità immediata di intervenire, non resta
che una sorta di rassegnazione seppure mascherata da una retorica tanto declamatoria quanto
irrilevante.
Le alleanze politiche non possono essere scollegate da un discorso adeguato sulle alleanze sociali.
La vecchia struttura tolemaica che partiva dalla classe operaia della grande industria e poi via via si
allargava ad altri settori sociali non ha più la base materiale per realizzarsi. Questo non implica che
non sia necessario lavorare alla costruzione di un blocco sociale dell’alternativa perché una
maggioranza sociale possa e debba trasformarsi in maggioranza politica.
Questo obbiettivo richiede un lavoro di analisi assai più approfondito di quanto sinora sia stato
finora realizzato, una capacità di interagire con specifici settori sociali, così come con movimenti che
non nascono immediatamente dal conflitto di classe.
Non basta invocare le lotte perché queste avvengano (e oggi purtroppo il conflitto sociale in Italia è
al di sotto di quanto sarebbe necessario). E ancora di più, il compito di un partito politico comunista
non è solo di agitare la retorica delle lotte, ma anche essere in grado di aiutare a far sì che esse
ottengano dei risultati positivi e se possibile la capacità di rappresentarle dentro il sistema politico-
istituzionale.
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Si può scegliere una linea di rottura con il centrosinistra, come facciamo dal 2008, si può scegliere
un campo di alleanze ristretto, si possono fare scelte differenti in situazioni differenti, ma è sbagliato
trasformare tali scelte in elementi identitari che impediscono di adeguare la propria linea e di
“imparare dalle sconfitte”. Per Lenin “rinunciare agli accordi e ai compromessi con dei possibili
alleati (sia pure temporanei, poco sicuri, esitanti, condizionali)” era “cosa sommariamente ridicola”.
Discutere di alleanze non è mai stato considerato nella storia dei comunismi un tema “politicista”.
- Contro le destre una nuova coalizione popolare sarebbe necessaria
È consapevolezza comune che il centro-sinistra, per il ruolo egemone del PD e per le classi sociali di
cui è riferimento, per la rottura profonda avvenuta con parti importanti delle classi popolari, per
l’allineamento oltranzista con l’atlantismo e l’occidentalismo, non sia in grado di rispondere alla
esigenza di cambiamento che richiede innanzitutto un mutato rapporto di forza tra classi dominate
e classi dominanti. Non si pone quindi il tema di un nostro ingresso nel centro-sinistra o nel
cosiddetto “campo largo” sia perché esso così com’è non è in grado di rappresentare un argine alla
destra, sia perché stante la nostra debolezza saremmo sostanzialmente ininfluenti. L’emergere del
tema della guerra come fatto centrale della fase politica rende ancora più lontana la possibilità di
un avvicinamento.
Occorre però chiedersi se possiamo sottrarci all’esigenza, che risponde alle attese di vasti settori
popolari, sia tra coloro che votano per il centrosinistra sperando che l’indubbio spostamento di
accenti introdotto dalla Schlein porti ad effettivi cambiamenti di politica, sia tra coloro che si
astengono e sia anche in alcuni settori popolari che votano a destra, di indicare una nostra proposta
politica che riguardi il governo del Paese.
L’idea del “terzo polo”, definizione che al momento è utilizzata dalle forze neoliberiste centriste,
appare debole. Tanto più alla luce della parabola del Movimento 5 Stelle che è entrato nel sistema
politico per opporsi sia alla destra che al centro-sinistra per poi costruire le più diverse e contrastanti
alleanze.
La nostra proposta politica non può essere quella di batterci per conquistare uno spazio più o meno
grande in un contesto che, anche dal punto di vista istituzionale, si è profondamente modificato.
Quei cambiamenti che in altre epoche potevano essere ottenuti dal PCI, che aveva ben altra
dimensione, ma anche dalle più limitate presenze parlamentari di PdUP e DP, sono oggi preclusi
dallo svuotamento del parlamento e dalla prevalenza degli esecutivi.
La possibilità di indicare una prospettiva di governo può apparire oggi velleitaria, data la nostra
marginalità nello scontro politico, ma ridurre le proprie ambizioni alla misura della propria forza in
genere porta ad accelerare la tendenza al declino non ad invertirla. Il PRC per diverse ragioni ha
ancora una certa capacità di intervenire nelle dinamiche politiche, trovare interlocutori e sottrarsi
alla “damnatio memoriae” a cui molti, alla nostra destra e alla nostra sinistra, vorrebbero sottoporci.
La stessa iniziativa di Santoro e La Valle, pur se in modo non sempre soddisfacente, ha portato
diverse figure a volte anche lontane da noi a riconoscerci come soggetto politico. Lo stesso si può
dire dell’avvicinamento del M5S al gruppo parlamentare europeo di The Left. Agire politicamente
(e qui ancora si verifica la distinzione dalle sette) non può limitarsi a prendere atto dell’esistente e
della sua perenne eternità, dalla quale si trae la convinzione che noi siamo gli unici a conoscere il
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segreto della salvezza dell’anima, quanto individuare la possibilità di intervenire su conflitti
potenziali e contraddizioni esistenti nei vari campi per modificare la situazione a nostro favore.
Prendendo anche l’esempio di alcune esperienze di altri Paesi, ultima quella del Nuovo Fronte
Popolare francese (sul cui esito ovviamente è necessario mantenere una ragionevole prudenza per
evitare un altro “effetto Syriza”), si può prospettare un’altra ampia alleanza i cui elementi
programmatici e la cui base sociale siano necessariamente diversi dall’attuale centro-sinistra? In
questo senso la nostra proposta esclude il “campo largo”, anzi ne rappresenta l’opposto: il “campo
largo” vuole essere un’alleanza senza principi e programma costruita solo sulla generica opposizione
alla destra (che in realtà finisce per rafforzarla); noi proponiamo al contrario punti dirimenti di
programma, a partire dal no alla guerra e al neoliberismo, su cui verificare a tutti i livelli diverse
possibilità, o impossibilità, di convergenze tattiche, ove queste possano servire alla lotta di classe,
all’impegno contro le devastazioni ambientali e alla difesa delle condizioni di vita e di lavoro delle
masse popolari.
Questa ipotesi richiede dunque come presupposto l’autonomia politica del PRC, la ricostruzione di
una forza di sinistra alternativa significativa e capace di agire sulle contraddizioni che si aprono
nell’attuale centro-sinistra. E anche su una prospettiva di cambiamento significativo dei rapporti di
forza tra sinistra alternativa e centrosinistra liberale.
- PER UN’ALTERNATIVA ANTIFASCISTA ALLA GUERRA E AL NEOLIBERISMO: LA VIA MAESTRA
DELLA COSTITUZIONE
La lotta alla guerra, alla tendenza alla guerra, all’economia di guerra, la lotta contro i cambiamenti
climatici e la devastazione ecologica, la lotta per la democrazia, la giustizia sociale, le libertà e la
civiltà sono per noi strettamente interconnesse perché hanno alla radice il carattere sempre più
distruttivo del capitalismo.
Questa è la base della proposta politica di Rifondazione Comunista. Dentro questo orizzonte
strategico va definita la nostra identità con estrema chiarezza e per questa ragione anche capacità
di gestire la tattica in funzione della strategia. Non piccola, magari anche agile, imbarcazione capace
però di navigare solo in acque interne o comunque prossime, ma solida caravella capace di sfidare
il mare aperto. Dobbiamo e recuperare quel carattere corsaro che all’autonomia e alterità rispetto
al centrosinistra univa anche la capacità di incalzarlo e contendergli l’egemonia almeno su una parte
della società e della sinistra.
La nostra proposta politica non può ridursi nell’attuale scenario politico alla reiterazione della
prospettiva di un terzo o quarto polo alternativo a quelli esistenti. Questo semmai può essere il
risultato di una lotta politica quando si arriverà alle elezioni politiche e potremo valutare lo scenario
che si è determinato.
Noi siamo alternativi a quello che si è configurato come “partito unico” del neoliberismo e della
guerra. Nostro compito è dunque aprire contraddizioni e provare a disarticolare questo blocco.
Come indicava Marx occorre evitare di dover fronteggiare “un’unica grande massa reazionaria”
isolandosi nella sicura sconfitta.
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Ora, come con tattiche diverse hanno fatto altri partiti comunisti e della sinistra radicale in Europa,
dobbiamo evitare di farci marginalizzare e abbiamo il DOVERE di lavorare per mettere al centro la
necessità non solo di costruire un’alternativa all’estrema destra al governo ma anche una netta
discontinuità rispetto alle politiche neoliberiste e guerrafondaie che in Italia e in Europa hanno
contribuito al risorgere dei fascismi e dell’estrema destra.
Dobbiamo formulare una proposta al paese, a quel popolo che si definisce di sinistra, ai movimenti,
ai mondi dell’associazionismo e della cultura, alle classi lavoratrici e popolari. Dobbiamo fare una
proposta politica che non appaia velleitaria e che apra contraddizioni e cerchi di spingere in avanti
gli equilibri politici.
Possiamo chiamarla nuovo fronte popolare, fronte ampio, coalizione pacifista o come vogliamo ma
dobbiamo proporre con forza un’alternativa fondata sul rifiuto della guerra, sul rilancio dello stato
sociale, sui diritti di chi lavora, su un programma antiliberista ed ecosocialista di ricostruzione e
rinnovamento del paese, un’alternativa che indichi “la via maestra” dell’attuazione della
Costituzione.
Ridiventare protagonisti nel nostro Paese significa affrontare le emergenze sociali e democratiche e
darvi una risposta convincente. Senza l’assunzione di una tale prospettiva non ci sarebbe un futuro
per le/i comunisti. Oggi siamo di fronte a emergenze prioritarie:
-la devastazione a livello sociale provocata dalle politiche neo-liberiste con livelli di occupazione
bassi, alti tassi di disoccupazione, crescita delle fasce sociali in povertà, difficoltà dei giovani a
entrare nel mercato del lavoro, diffusione senza precedenti della precarietà, crescita esponenziale
della diseguaglianza, indebolimento drammatico delle strutture di welfare a partire dalla sanità,
emergenza abitativa, emigrazione, in particolare della forza-lavoro giovanile ed intellettuale e dal
meridione;
-l’attacco alla Costituzione con il tentativo attraverso l’autonomia differenziata di territorializzare i
diritti, e con il premierato di accentrare i poteri nell’esecutivo e nel Presidente del consiglio,
riducendo il peso delle opposizioni e ridimensionando seccamente gli organi di garanzia come il
Presidente della repubblica, la separazione assoluta delle carriere della Magistratura che
schiaccerebbe il PM ancor più sulla polizia giudiziaria, le norme liberticide contro la protesta sociale,
l’aumento delle persone ristrette in carcere ed esecuzione delle pene in strutture assolutamente
fatiscenti;
-la devastante crisi ambientale.
Per ottenere risultati su questi fronti, dobbiamo affermare chiaramente che la condizione
fondamentale è battere le destre con i referendum e che sarebbe auspicabile sottrarre loro il
governo del Paese domani. Nello stesso tempo è necessario che contestualmente mutino gli
orientamenti delle forze di opposizione facendo maturare nel Paese un progetto di uscita dal
neoliberismo.
La novità positiva di questi mesi è rappresentata dal costituirsi di uno schieramento referendario
ampio che mette assieme soggetti sociali e in primis, CGIL e ANPI, comitati contro l’autonomia
differenziata, giuristi democratici, ecc. con le forze di opposizione. Merito della CGIL aver posto con
la Via maestra il riferimento alla difesa della Costituzione, contro l’attacco pericolosissimo delle
destre di governo. Lo schieramento referendario costituisce oggi un’importante risorsa alla quale
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le/i comunisti devono dare tutto il loro impegno, per sensibilizzare cittadine/i, per garantire una
mobilitazione ampia, per intrecciare i temi istituzionali con quelli sociali.
Pur partendo da una pulsione difensiva questa mobilitazione sollecita al rilancio di un’opposizione
sociale che travalichi il moderatismo d’ispirazione neo liberista che ha imperversato nel paese.
L’iniziativa della CGIL coi referendum sociali contro il precariato e le condizioni di lavoro costituisce
un segnale di un salutare ripensamento su un tema importante. È interesse del Paese che questa
convergenza dell’opposizione si consolidi in un “Nuovo patto costituzionale” fondato sulla difesa e
attuazione della Costituzione, sulla rinascita di un generale impegno antifascista, sulla difesa
intransigente della democrazia e sulla garanzia del rispetto dei fondamenti del dettato
costituzionale. Le divisioni e le differenze che esistono nel campo dell’opposizione democratica non
devono esser d’impedimento di un impegno comune e in ogni caso le/i comuniste/i devono essere
i più consapevoli dell’esigenza di far riemergere nel paese i principi e il programma della
Costituzione.
Dobbiamo far crescere nel Paese una opposizione di massa non solo contro l’attacco
antidemocratico, ma anche contro il neoliberismo che ispira oggi l’azione del governo delle destre,
come ha ispirato finora le politiche del PD e del centro-sinistra. Le differenze che a tale riguardo
esistono fra le forze di opposizione limitano la possibilità di una battaglia efficace e rendono debole
la proposta di un’alternativa al governo delle destre. È il grande limite che grava sulla proposta del
“campo largo”: un perimetro costruito sulla comune necessità di battere sul piano elettorale le
destre, ma senza un progetto condiviso da porre in alternativa a queste. Sarebbe molto importante
che il nuovo patto costituzionale evolvesse incorporando il rifiuto della guerra e l’uscita dal neo
liberismo, ma ciò non è oggettivamente facile, date le differenze esistenti. Ed è per questo che è
necessario che nel Paese si affermi all’interno di un fronte di opposizione costituzionale un fronte
antiliberista che si proponga non solo di battere le destre, ma anche di far uscire il paese dalla
stagione del neoliberismo e che assuma il tema del rifiuto della guerra come questione dirimente.
Nasce da qui l’assoluta esigenza che – come in Francia o in Spagna- emerga un nuovo fronte di
sinistra antiliberista.
Un fronte popolare in Italia è cosa completamente diversa dalla realizzazione di un piccolo recinto
in cui collocare qualche forza radicale la cui ottica è quella, non tanto di misurarsi effettivamente
con la condizione del Paese e quindi di animare processi politici in grado di produrre un mutamento,
quanto di riproporre un’identità, marcando la propria diversità e ripiegando su un approccio
testimoniale. Questa propensione ha affossato definitivamente Unione Popolare. Un’esperienza
che voleva essere per molti qualcosa di diverso, ma che con l’emergere di atteggiamenti settari in
alcune forze ha alla fine deluso mancando agli stessi compiti che si era data. Per queste ragioni
quell’esperienza non è cresciuta e alla fine è implosa. Non può essere oggi questa la proposta
politica da avanzare alla sinistra di questo paese.
La stessa collocazione nel gruppo della Sinistra nel parlamento europeo di alcune forze come il
Movimento Cinque Stelle e Sinistra italiana, una sensibilità crescente in alcuni settori del sindacato,
nell’antifascismo militante, negli ambienti intellettuali democratici, il lascito dell’esperienza della
lista di Pace terra e dignità e anche il riaprirsi di una dialettica nelle forze politiche, offrono
un’opportunità per la costruzione di un campo dell’alternativa, che si qualifichi per un progetto di
uscita dal neoliberismo e dalla guerra.
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Una proposta di coalizione popolare su un programma che metta al centro il no alla guerra e un
programma antiliberista e intersezionale di giustizia ambientale e sociale può incontrare l’ascolto di
settori larghi della società italiana.
Si tratta di determinare il terreno per una lotta per l’egemonia tra le forze di opposizione con una
prospettiva concreta che sfidi la logica dell’alternanza.
Noi che siamo alternativi al “campo largo” e alla sua indeterminatezza dobbiamo sfidarlo sul piano
dei contenuti e del progetto di Italia e di Europa.
Sdegno e tenacia, scienza e ribellione, rapido impulso, meditato consiglio, fredda pazienza,
perseveranza infinita, intelligenza del particolare e intelligenza del tutto: solo ammaestrati dalla
realtà potremo cambiare la realtà.
Bertolt Brecht, La linea di condotta.
Per la commissione politica
Maurizio Acerbo, Fulvia Bilanceri, Anna Camposampiero, Antimo Caro Esposito, Elena Coccia,
Vincenzo Colaprice, Barbara Evola, Paolo Favilli, Eleonora Forenza, Dino Greco, Antonio Marotta,
Raul Mordenti, Gianluigi Pegolo, Antonella Piraccini, Mirna Testi, Gabriele Zanella.
Documento Congressuale 2: una coalizione popolare
NO ALLA GUERRA,
PER UN MONDO NUOVO
PER UNA COALIZIONE POPOLARE CONTRO LA GUERRA, IL LIBERISMO, IL FASCISMO
INDICE
PRIMA PARTE
- CONTRO LA GUERRA IMPERIALISTA, PER UN MULTIPOLARISMO COOPERATIVO
- Socialismo o barbarie
- La deriva distruttiva del capitalismo e la crisi della globalizzazione
- Hanno frammentato il movimento operaio per dominare senza ostacoli
- Ideologia per colonizzare l’immaginario, repressione per passivizzare i corpi
- Il mito dell’Occidente e le sue contraddizioni
- La guerra non è un destino obbligato
- Ci sono le basi materiali per la trasformazione
- LA CRISI ITALIANA NEL FALLIMENTO DELL’UNIONE EUROPEA
- L’espulsione delle masse e della Sinistra dalla politica
- La forza della Destra
- Il pericolo della destra fascista e il capitalismo securitario
- Le contraddizioni della Destra
- Per sconfiggere le destre, fare come Melenchon
- Lo stato di guerra peggiora la situazione
- Le potenzialità del Mezzogiorno
- La condizione giovanile
SECONDA PARTE
- UNA COALIZIONE POPOLARE CONTRO LA GUERRA, IL LIBERISMO, IL FASCISMO
- La nostra proposta
- RIPROGETTARE E RILANCIARE IL PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA
- Per un bilancio della nostra storia
- Compiti e priorità per il partito
- Il rilancio del comunismo
- Il radicamento sociale
- Radicamento, partito sociale, intersezionalità, sindacato
- Valorizzare le risorse sociali
- Per i diritti delle/dei migranti e per l’unità della classe
- Per l’ecosocialismo
- Decostruire il patriarcato per liberare i corpi e la società
- La centralità della comunicazione del partito
- La formazione
- Enti Locali e lotta per i diritti delle cittadine e dei cittadini
- Cambiare il modo di lavorare del partito
- Il rinnovamento generazionale
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Il testo che qui presentiamo non è definitivo ma un testo di lavoro. Non rappresenta il punto di arrivo ma
il punto di partenza che vogliamo discutere e migliorare nell’ascolto delle compagne e dei compagni del
partito. Siamo interessati a sapere cosa ne pensate al fine di poterlo precisare e migliorare.
Camminare domandando continua ad essere la nostra stella polare.
NO ALLA GUERRA, PER UN MONDO NUOVO
PER UNA COALIZIONE POPOLARE
CONTRO LA GUERRA, IL LIBERISMO, IL FASCISMO
Il XII Congresso Nazionale del Partito della Rifondazione Comunista si svolge in una fase di sconvolgimenti
globali, caratterizzata dalla guerra, dall’acuirsi delle contraddizioni capitalistiche, dalla crisi della
globalizzazione neoliberista, dall’emergere contrastato di un nuovo mondo multipolare, da un confronto–
scontro tra il nord e il sud del mondo.
Le dinamiche complessive, proprie di un capitalismo che si è fatto mondiale, non sono per noi “politica estera”
ma ci aiutano a capire e danno il segno della situazione nazionale in cui operiamo. Questa impostazione, che
ha caratterizzato tutta la storia di Rifondazione Comunista – dalla piena partecipazione al movimento
altermondialista, al protagonismo nella costruzione della Sinistra Europea, alle relazioni storiche con i
movimenti di liberazione di tutto il mondo – è oggi più che mai necessaria. Lo stato di belligeranza e l’economia
di guerra, che ormai plasmano le politiche dei governi occidentali, che a loro volta aggrediscono i diritti e le
condizioni di vita delle masse popolari, sottolineano una volta di più la correttezza di questa impostazione.
Il progetto politico di Rifondazione Comunista può e deve essere rilanciato dentro questo scenario generale:
con i piedi ben piantati nella situazione italiana, nelle comunità locali, nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole,
nella lotta di opposizione al governo delle destre; e con la testa alta, lo sguardo diretto a cogliere le dinamiche
generali. Riprendendo l’impostazione del movimento comunista sin dalla sua nascita, il nostro essere contro
la guerra e contro l’economia di guerra, che distruggono il welfare e impoveriscono le classi popolari, diventa
oggi il punto focale della nostra proposta politica.
La condizione per fare efficacemente politica in Italia, per riprendere una
connessione sentimentale con la nostra gente, è quella di collocarsi in modo chiaro
rispetto alle dinamiche generali, in modo da poterne combattere efficacemente, pur
con tutti i nostri limiti, gli effetti negativi che stanno sconvolgendo le vite delle
persone. Nel momento in cui l’Occidente, sotto l’egemonia statunitense, dichiara
una guerra di civiltà e si fa “nazione combattente”, noi proponiamo di costruire in
modo chiaro e coerente la più ampia coalizione popolare contro la guerra, il
liberismo e la distruzione dell’ambiente, il fascismo: le diverse facce, tra loro
strettamente connesse, di questo capitalismo in crisi, che ha assunto un carattere
distruttivo ferocemente antipopolare che dobbiamo sconfiggere per dare un futuro
all’umanità.
3
PRIMA PARTE
1.CONTRO LA GUERRA IMPERIALISTA, PER UN MULTIPOLARISMO COOPERATIVO
- Socialismo o barbarie
La guerra e il rischio di un suo allargamento distruttivo caratterizzano l’ora presente. A questo si
accompagnano il collasso ambientale, l’aumento delle povertà, l’insicurezza sociale e l’aumento delle
diseguaglianze, la drastica riduzione degli spazi democratici.
Questi aspetti sono tra loro profondamente intrecciati e stanno già producendo effetti drammatici, giorno
dopo giorno, sulle condizioni di vita di milioni di persone. Non stiamo parlando solo di Gaza, dove il governo
Israeliano – con la fattiva collaborazione dei governi occidentali – sta praticando un vero e proprio genocidio
ai danni del popolo palestinese.
Stiamo parlando di come lo stato di guerra permanente, oltre ai morti e feriti e ai rischi dell’olocausto
nucleare, produca giorno dopo giorno l’aumento delle spese militari e la riduzione dei diritti sociali, l’aumento
dello sfruttamento e delle povertà, una spaccatura del mondo che a sua volta alimenta il clima e i rischi di
guerre.
La devastazione ambientale non solo metterà in discussione la sopravvivenza dell’umanità sul pianeta ma già
oggi sta determinando sofferenze e migrazioni bibliche, creando milioni di profughi e a sua volta alimentando
il clima di guerra.
L’allargamento delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico, lungi dal produrre benessere, porta
al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di larghissima parte della popolazione ed in generale alla
precarizzazione complessiva dell’esistenza umana.
In altri termini, si ripropone qui ed ora l’alternativa – evidenziata oltre un secolo fa da Rosa Luxemburg – tra
socialismo e barbarie. - La deriva distruttiva del capitalismo e la crisi della globalizzazione
Questa situazione è il frutto delle dinamiche di fondo e delle contraddizioni che caratterizzano lo sviluppo
capitalistico odierno.
La globalizzazione neoliberista ha dialetticamente determinato, con l’affermarsi di nuovi attori globali, il
progressivo emergere di un multipolarismo che si è manifestato dapprima sul piano economico, poi
tecnologico-militare ed ora anche finanziario. Questa tendenza multipolare ha determinato una modifica dei
rapporti di forza a livello mondiale e un aumento dei conflitti intercapitalistici e delle tensioni economiche,
finanziarie e militari.
Di fronte al rischio di perdere la leadership mondiale e la posizione di rendita imperialistica che questa
determina, le classi dominanti statunitensi hanno reagito in modo molto determinato a tutti i livelli:
economico, tecnologico, militare, finanziario, culturale Abbiamo così visto il centro di comando capitalistico
statunitense passare da una impostazione liberoscambista ad una politica fondata sul protezionismo e sulle
sanzioni, che ha determinato la crisi della globalizzazione. Parimenti, sul versante ideologico, l’impianto
globalista è stato sostituito dallo scontro di civiltà sia sul piano culturale che materiale.
Sul piano militare, gli Stati Uniti – che hanno la maggior spesa militare e la più grande presenza nel mondo di
basi all’estero – hanno scelto la strada della guerra permanente mondializzata e stanno fomentando guerre
con Russia e Cina, considerate i principali nemici.
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Con la guerra permanente, le barriere protezioniste e le sanzioni, le elites statunitensi puntano a indebolire
le potenze nemiche e, nell’immediato, a dividere il mondo in due, impedendo la nascita di un vero
multipolarismo. Parallelamente, operano per ripristinare un pieno controllo sulla propria parte di mondo,
compattarlo militarmente e ideologicamente, ridurre gli spazi di democrazia e porre in essere meccanismi
predatori suoi propri alleati, al fine di difendere la propria posizione di privilegio e confermare per la propria
leadership mondiale.
- Hanno frantumato il movimento operaio per dominare senza ostacoli
Per impedire ai popoli di riconoscere e quindi di perseguire le potenzialità positive di un multipolarismo
solidale, le classi dominanti hanno innanzitutto operato per frantumare la classe operaia multinazionale che
si era costituita in Occidente dando vita al ciclo di lotte degli anni ‘60/’70, base materiale delle esperienze
socialdemocratiche.
Questo peso politico e sociale del movimento operaio è stato considerato insopportabile dalle classi
dominanti, che – a partire dal rapporto sulla crisi della democrazia voluto dalla Trilateral Commission nel 1975
– hanno operato per distruggere non solo la forza ma la nozione stessa di movimento operaio. È superfluo
fare la storia di questa aggressione politica al “nemico interno”, come la Thatcher chiamava i minatori
britannici: la distruzione della densità sociale e politica del tessuto proletario fondato sull’apparato industriale
è stato il punto fondamentale dell’offensiva di classe dagli anni ‘80 in avanti ed è all’origine della stessa
apertura della globalizzazione neoliberista voluta dall’amministrazione statunitense.
Questo processo è stato accompagnato dalla costruzione di una nuova antropologia sociale, fondata
sull’individualismo e sull’autonomia del singolo: classe operaia, padroni, borghesi, interessi collettivi, pubblico
sono parole fatte scomparire in nome di una modernità capitalistica fondata sulla massima concorrenza tra
individui.
La frantumazione dei corpi sociali collettivi, unita alla distruzione della credibilità di ogni ipotesi socialista e
comunista, ha impedito la crescita di un soggetto collettivo in grado di riconoscere la crisi del capitale e di
progettarne il superamento: la guerra tra poveri ha sostituito la lotta di classe.
La “fabbrica della paura” ha generato individui angosciati e soli, incapaci di reggere le contraddizioni e gestire
la rabbia, compatibili con la violenza, con la sopraffazione, con la guerra. - Ideologia per colonizzare l’immaginario, repressione per passivizzare i corpi
Le classi dominanti hanno posto in essere una enorme azione ideologica che non ha pari nella storia
dell’umanità. Sempre il potere ha usato narrazioni di comodo – l’ideologia dominante – al fine di confermare
i rapporti sociali dominanti, ma mai ha avuto una tale necessità di mistificare la realtà, di produrre falsa
coscienza.
La produzione dell’immaginario, il condizionamento degli stili di vita, la spiegazione pseudoscientifica dei
fenomeni sociali ed economici, la gestione delle notizie non sono mai stati così concentrati nelle mani di
multinazionali, le quali detengono un potere inaudito, la proprietà e la gestione di dati importantissimi e reti
attraverso le quali esercitano pericolose forme di controllo e traggono profitto dall’uso spregiudicato delle
piattaforme digitali, dal “lavoro” inconsapevole e involontario di milioni di persone.
Questa capacità pervasiva di colonizzare l’immaginario, la produzione di senso e l’informazione è resa
necessaria proprio dall’enormità del compito che queste elites si sono poste: negare l’attualità e la maturità
del comunismo per imporre una visione del mondo che riproduca catene che oramai sono inutili e dannose
non solo per gli sfruttati ma per l’umanità intera. Ne è un esempio paradigmatico la narrazione della scarsità
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economica con cui è stata giustificata ogni politica di austerità. È completamente falsa, in quanto oggi il
mondo non ha alcuna scarsità economica, anzi la ricchezza non è mai stata così grande. La favola della scarsità
è stata creata ad arte per nascondere l’enorme diseguaglianza nella distribuzione del reddito e per fomentare
la guerra tra i poveri, l’atomizzazione sociale, il razzismo, fino ad arrivare alla guerra di civiltà. Oggi la
situazione di guerra, con la divisione del mondo in amici e nemici, facilita ulteriormente la manipolazione
della realtà. Il mantenimento di questo poderoso paraocchi ideologico è una priorità per i padroni; il suo
abbattimento è una priorità per le comuniste e i comunisti.
Accanto alla manipolazione delle coscienze abbiamo poi la repressione di chi non si sottomette alla narrazione
dominante. Questa va dalla repressione soft, propria della censura – che l’uso dei social ci segnala
quotidianamente – alla caccia alle streghe e alla gogna mediatica contro le opinioni controcorrente, fino ad
arrivare alla repressione del conflitto sociale vero e proprio di cui è esempio il DDL Sicurezza, che mira a
criminalizzare e reprimere. La tendenza allo stato di sorveglianza e la riduzione della democrazia a finzione,
la manipolazione dell’informazione e la repressione delle opinioni difformi e delle lotte danno il senso di
questa azione di fondo delle classi dominanti occidentali. Sono aspetti intrecciati di costruzione
dell’immaginario funzionale alla marginalizzazione del diverso, dipinto come pericolo sociale.
Manipolazione dell’informazione e repressione del conflitto sociale, militarizzazione della società, costruita
sulla presunta necessità di sconfiggere un nemico, sono le due facce del capitalismo della sorveglianza in cui
siamo immersi.
Questo intreccio è sempre più stretto proprio perché la riproduzione del sistema non è garantita dal suo
funzionamento materiale, che – al contrario – apre contraddizioni tali da evidenziare la possibilità e la
necessità di una modifica radicale delle forme di organizzazione sociale.
Da questo punto di vista, lo Stato Israeliano, al di là dei suoi aspetti specifici, tende ad assumere le sembianze
di un modello di gestione sociale che può diventare un punto di riferimento per il mondo occidentale: identità
nazionale forte intrecciata con una vera e propria militarizzazione della società, costruita sulla necessità di
sconfiggere un nemico, che viene completamente spersonalizzato nella repressione e fatto oggetto di
apartheid nella normalità quotidiana, il tutto con una decisa marginalizzazione del dissenso.
- Il mito dell’Occidente e le sue contraddizioni
La situazione attuale è quindi connotata, strutturalmente, da una potenzialità oggettiva, da una maturità di
condizioni su cui fondare la trasformazione sociale e da una difficoltà soggettiva relativa alla coscienza e ai
rapporti di forza tra le classi.
Dopo aver distrutto l’immaginario legato alla lotta di classe, che aveva nel ‘900 strutturato la forza e la
coscienza popolare, dopo aver ridotto ogni soggettività ad atomo competitivo, oggi le classi dominanti
giocano una nuova carta, quella della costruzione di una nuova identità collettiva post-classista. Nel contesto
della guerra di civiltà permanente emerge così, con forza, il tema dell’Occidente, dell’identità occidentale
attorno a cui le classi dominanti cercano di costruire una nuova identità popolare. L’Occidente viene
presentato come aggredito e quindi noi occidentali dobbiamo difendere i valori, gli stili di vita e i nostri
interessi occidentali: l’Occidente come nuova patria diventa l’icona sacra per cui occorre essere disposti a
morire, tutti uniti contro il nemico comune.
Il tentativo di nascondere le differenze di classe è insito nel dominio capitalistico, ma qui abbiamo un passo
in più: la costruzione di una nuova identità, fondata a partire dallo stato di guerra. Non è la prima volta che le
classi dominanti puntano ad una operazione egemonica di questa natura: pensiamo all’ondata nazionalista
che si scatenò in tutta Europa nell’epoca della prima guerra mondiale; ricordiamo che il nascente movimento
operaio e socialista non resse allo scontro con l’ideologia e la pratica nazionalista e militarista. Nonostante il
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movimento operaio fosse tutto pacifista, allo scoppio della guerra solo i bolscevichi e piccole minoranze in
altri paesi seppero resistere alla forza della propaganda e della pratica bellicista: la parola d’ordine dello
sciopero generale contro la guerra – deciso ufficialmente dalla Seconda Internazionale – venne abbandonata
in un battere di ciglia.
Lo stato di guerra odierno viene presentato come la risposta obbligata all’aggressione che stiamo subendo
dall’esterno e viene utilizzato per inventare una inesistente “identità occidentale”, finalizzata ad arruolare i
popoli occidentali nella crociata contro il resto del mondo.
Su questo terreno si costruisce una inedita convergenza tra il campo della destra identitaria e quello del
centrosinistra, uniti nei fatti dalla teorizzazione della superiorità occidentale, da preservare anche attraverso
la guerra e l’aumento delle spese militari.
Noi siamo quindi chiamati a costruire la lotta politica per il socialismo in un contesto in cui – proprio perché
ve ne sono le basi materiali – l’ideologia dominante nega in ogni modo e a reti unificate la possibilità del
cambiamento e non riconosce la legittimità della lotta per l’alternativa,trattando come “traditore della patria”
chi cerca di costruirla.
- La guerra non è un destino obbligato
In Occidente, la guerra e lo scontro di civiltà vengono presentati come un destino ineluttabile, come una
drammatica necessità, fondata sulla difesa degli interessi e dello stile di vita occidentale, dei “valori” dei
popoli occidentali.
Si tratta di una mistificazione: da un lato gli interessi dei popoli occidentali non coincidono e anzi divergono
da quelli delle elites dominanti; dall’altro, proprio i rapporti sociali capitalistici consolidati, che hanno perso
ogni “spinta propulsiva”, sono il principale ostacolo al dispiegarsi di possibili processi positivi e si presentano
come un vincolo distruttivo per l’umanità.
Non si tratta però di un destino obbligato perché – dialetticamente – lo stesso sviluppo capitalistico ed il
protagonismo dei popoli e dei paesi del Sud del mondo hanno posto le basi per un suo superamento. Si tratta
di far entrare come protagonisti in questa contesa i popoli del Nord del mondo ed in particolare quelli europei,
che possono fare la differenza per evitare la guerra, conquistare l’indipendenza dagli Stati Uniti e costruire un
mondo multipolare cooperativo. - Ci sono le basi materiali per la trasformazione
Siamo quindi in una fase di crisi degli assetti capitalistici mondiali, con rischi pesantissimi per il futuro
dell’umanità, ma anche con opportunità di trasformazione positiva: compito dei comunisti e delle comuniste
è operare – a partire dal proprio paese – per la pace, la giustizia sociale, il rispetto dell’ambiente, lo sviluppo
della democrazia, la libertà, la cooperazione internazionale.
Vediamo tre esempi.
-Nel mondo sta emergendo con forza un nuovo multipolarismo, in cui una pluralità di centri capitalistici e
nazioni pongono il problema di confrontarsi alla pari, superando la situazione di dominio unipolare esistente.
Si tratta di un fatto positivo per l’umanità, a cui le elites dei paesi occidentali, in particolare quella degli Stati
Uniti, si oppongono, cercando di riprodurre il proprio dominio imperialista a partire dall’esercizio del potere
finanziario e militare, puntando, nell’immediato, a spaccare il mondo in due: da questo deriva la tendenza
alla guerra e il rischio della terza guerra mondiale.
Questo significa che, per avere un mondo di pace e cooperazione, sia sufficiente sconfiggere il tentativo
statunitense di ripristinare il suo dominio a partire da un mondo bipolare? Certo che no!
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È infatti evidente che, se il multipolarismo è cresciuto sulla base dello sviluppo capitalistico fondato sul libero
scambio e ci ha portato a questa situazione di guerra, non è una soluzione che questo prosegua
semplicemente sugli stessi binari liberoscambisti, com’è successo fino alla crisi della globalizzazione.
È necessario che la sconfitta delle classi dominanti occidentali si accompagni allo sviluppo di un
multipolarismo fondato sulla cooperazione, sull’equilibrio degli scambi, sulla giustizia sociale e quindi divenga
produttore di pace.
Riteniamo che il multipolarismo rappresenti un passo in avanti rispetto all’unipolarismo imperialista o al
mondo spaccato in due, ma non produca di per sé pace ed equilibrio. Apre però un nuovo terreno di lotta di
classe a livello mondiale, in cui noi dobbiamo sostenere l’obiettivo di un multipolarismo cooperativo, che
superi la guerra economica organizzata. Le proposte dei BRICS di dar vita ad una moneta di scambio
internazionale che non coincida con la moneta di alcuno Stato rappresenta un passo positivo in questa
direzione. Il superamento del WTO e la ridefinizione in senso cooperativo degli organismi e delle regole che
presiedono al commercio mondiale non solo rappresentano l’obiettivo per cui si è battuto il movimento
altermondialista, ma hanno oggi maggiore forza materiale su cui poter poggiare la propria realizzazione. In
questo contesto.
La costruzione di un largo movimento contro la guerra e la rivendicazione dell’indipendenza dell’Europa
dagli Stati Uniti sono elementi decisivi per fermare il delirio guerrafondaio e porre le basi di una positiva
trasformazione sociale, in Europa e nel resto del mondo.
- L’enorme aumento della produttività del lavoro permetterebbe finalmente all’umanità di fuoriuscire dalla
situazione di penuria che ne ha largamente caratterizzato la storia. Com’è avvenuto nel secondo dopoguerra,
questo aumento di produttività dovrebbe essere accompagnato da una distribuzione più equa della ricchezza,
da una riduzione dell’orario di lavoro e da un complessivo ripensamento dell’organizzazione sociale in senso
progressivo. Al contrario, le classi dominanti stanno utilizzando la debolezza del movimento operaio per
imporre la completa precarizzazione del lavoro ed un drastico allungamento dell’orario di lavoro nell’arco
della vita lavorativa. Un fatto assolutamente positivo come la riduzione del tempo di lavoro socialmente utile
a produrre i beni necessari all’umanità viene rovesciato nel suo contrario, al fine di continuare a sfruttare il
lavoro umano.
La costruzione di un movimento di opinione e sociale per una radicale riduzione dell’orario di lavoro a parità
di salario, la rivendicazione di un salario minimo e l’abolizione della precarietà sono tre elementi decisivi
per sviluppare positivamente questa opportunità. - Stesso discorso vale per la questione della salvaguardia della natura e dell’ecosistema. Il disastro ambientale
prodotto dall’allargamento del capitalismo va affrontato superando questo modo di produzione e di consumo.
Ad esempio, è del tutto evidente che il possesso individuale di quella specifica merce che si chiama
automobile (poco importa se a benzina o elettrica) non può essere la strada per soddisfare il bisogno di
mobilità di 9 miliardi di persone. Al contrario, si persevera nel tentativo di soddisfare ogni bisogno umano
attraverso processi predatori di mercificazione, perfino del vivente e dei beni naturali: il biocapitalismo si
propone come un nuovo, enorme, mercato green. Il consumo di risorse e l’impoverimento della biodiversità
proseguono in modo dissennato, rendendo impossibili la soluzione della crisi ambientale e l’arresto del
cambio climatico.
La rivendicazione di una reale transizione ecologica, guidata dal pubblico al di fuori dei vincoli del mercato,
finalizzata al soddisfacimento dei bisogni e non alla produzione di merci, che non incida negativamente
sulle condizioni di vita degli stati popolari, è la nostra proposta.
In altre parole, l’umanità vive il disastro della guerra e dello sfruttamento nonostante vi siano tutte le
condizioni oggettive per una realtà di pace e il superamento dello sfruttamento.
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2.LA CRISI ITALIANA NEL FALLIMENTO DELL’UNIONE EUROPEA
- Per l’indipendenza dell’Europa
La crisi europea, figlia dell’ideologia neoliberista, costituzionalizzata nei trattati da Maastricht a Lisbona, è
stata ulteriormente accentuata dalla scelta di guerra che ha caratterizzato questi ultimi anni. Alle restrizioni
del Fiscal Compact e del pareggio di bilancio inserito in Costituzione, oggi si sommano una enorme spesa
militare – a scapito della spesa sociale e degli investimenti – e il sistema delle sanzioni alla Russia, che si
ripercuote negativamente in primo luogo sull’Europa.
Mentre con il Next Generation EU il ricorso al debito comune aveva fatto intravedere qualche possibilità di
ripensamento sull’indirizzo della UE, la scelta di entrare in guerra contro la Russia ci porta in una vera e propria
fase di declino. La rottura delle relazioni economiche con la Russia e le sanzioni alla Cina costituiscono infatti
un enorme fattore di crisi dell’apparato industriale tedesco e italiano, sia dal punto di vista dell’aumento dei
costi che dal punto di vista della riduzione di sbocchi di mercato.
La scelta di rendere l’Unione Europea completamente subalterna ai voleri degli USA e della NATO ha nei fatti
dissolto ogni parvenza di Europa politica: l’asse franco-tedesco è dissolto e gli USA governano la UE sia
attraverso il rapporto stretto con i paesi dell’Est che attraverso il peso che hanno sui governi dei tre paesi
maggiori, Germania, Francia, Italia.
In questo quadro è aumentata l’influenza politica e culturale delle destre xenofobe e razziste, cresciute grazie
alle politiche neoliberiste; parallelamente, i governi si muovono all’unisono verso un supernazionalismo
europeo, guerrafondaio verso l’esterno, autoritario, sicuritario e reazionario al proprio interno.
Il Piano Draghi, a sua volta, utilizza i disastri creati dalle politiche di austerità e successivamente
guerrafondaie, di cui è stato protagonista diretto, per proporre una via di uscita che si fonda su una ulteriore
distruzione del welfare, in cui la spesa sociale viene sostituita da una enorme spesa militare, di cui Draghi
magnifica le ricadute produttive. Questo viene proposto in linea con l’applicazione del nuovo patto di stabilità,
con il quale il vincolo del debito viene utilizzato per imporre agli stati una nuova austerità e con il sostanziale
rinvio della riconversione ecologica, subordinata ai tempi e alle convenienze delle imprese.
È la definitiva sepoltura del modello europeo, in direzione di uno stato di guerra fondato sull’impoverimento
della popolazione e sulla riproposizione di ricette neoliberiste, ad unico vantaggio dei creditori. Si disegna per
l’Europa un ruolo del tutto subordinato al capitale statunitense, che sta saccheggiando il vecchio continente
per mantenere i propri privilegi.
La nuova situazione ci parla quindi dell’irriformabilità di questa Unione Europea, che, dopo aver
costituzionalizzato il liberismo, è oggi diretta nei fatti dalla NATO.
Contro questa Unione Europea è necessario porre in primo piano l’indipendenza dell’Europa dagli Usa.
Occorre, nel contempo, costruire un movimento a scala nazionale ed europea contro la guerra, le politiche
liberiste, le politiche monetarie e fiscali collegate, il pareggio di bilancio in Costituzione, per disobbedire ai
trattati che la governano; per una nuova Europa che metta al centro la riconversione sociale ed ambientale,
la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, un salario minimo orario europeo, il rilancio e la
riqualificazione dell’welfare; per un’Europa democratica sottratta all’influenza delle oligarchie capitalistiche,
in cui tornino a contare i parlamenti, oggi espropriati dai tecnocrati, dagli esecutivi e da organismi non eletti
dai cittadini; per lo sviluppo di una area euromediterranea che assuma la funzione di cerniera nei confronti
del bacino mediterraneo.
Su questa prospettiva, di opposizione all’Unione Europea, alle sue scelte liberiste e guerrafondaie, e sulla
necessità di costruire un movimento di massa per l’indipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti, riteniamo sia
possibile e necessario anche rilanciare la Sinistra Europea, che vive oggi una profonda crisi.
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- La nostra storia recente
Passando ad analizzare più specificatamente la situazione del nostro Paese, la cosa che emerge con maggior
nettezza è che l’Italia conferma le tendenze generali e per certi versi le ha anticipate e vissute.
Sul piano sociale, il punto decisivo è stata la dissoluzione della classe operaia che era stata protagonista
dell’intero ciclo di lotta successivo alla seconda guerra mondiale. Le grandi fabbriche sono state smantellate
attraverso una opera di ristrutturazione e decentramento produttivo che ha grandemente frantumato il
mondo del lavoro. A questo processo si è accompagnato un vero e proprio processo di deindustrializzazione,
che in Italia si è accompagnato ad un processo di svendita del patrimonio industriale – che oramai non vede
più alcuna grande impresa avere la propria sede in Italia – mentre si è dilatato un sistema di piccole e medie
imprese che non investono su innovazione e ricerca, basato su produzioni a basso valore aggiunto, bassi
salari, lavoro precario e senza diritti.
Frantumazione del mondo del lavoro e indebolimento strutturale di un apparato produttivo dalle molte crisi
e dalle incerte prospettive, si sono accompagnati alla scelta di abdicare ad ogni sovranità monetaria a partire
dall’inizio degli anni ‘80 con l’autonomia e poi la privatizzazione della Banca d’Italia. In questo modo, il debito
pubblico italiano è stato posto integralmente nelle mani degli speculatori – che lo hanno gonfiato a dismisura
– ed è diventato la principale arma di ricatto per comprimere ogni richiesta sociale relativa al welfare: “i soldi
non ci sono”.
A ciò si è aggiunta l’azione dei governi “tecnici”, di centrodestra e di centrosinistra, che si sono distinti per
un’intensa attività legislativa, spesso senza una vera opposizione dei sindacati, finalizzata a smantellare i
diritti, privatizzare e subordinare il pubblico alle logiche d’impresa, deregolamentare il lavoro per ricondurlo
docile e sottomesso sotto il comando del capitale.
Dall’abolizione della scala mobile, all’attacco alle pensioni, all’introduzione e poi generalizzazione della
precarietà, alla privatizzazione del collocamento, fino all’abolizione dell’articolo 18 , cardine dello statuto dei
diritti dei lavoratori, è senza fine l’elenco delle leggi finalizzate a ridurre i salari e le pensioni e a rendere il
lavoro totalmente ricattabile e assoggettato all’impresa, in cui i governi di centrodestra, non meno che quelli
di centrosinistra, si sono distinti in adesione al pensiero unico neoliberista, al primato del privato e del
mercato, al dogma della flessibilità e della concorrenza, all’austerità e ai vincoli dettati da Commissione
Europea e Bce.
Il risultato è che la condizione dei lavoratori in Italia ha raggiunto livelli di degrado neanche immaginabili in
un passato non molto lontano. Bassi salari, precarietà, part time obbligato, lavoro grigio e nero hanno creato
un esercito di milioni di lavoratori, soprattutto lavoratrici e giovani, che sono poveri pur lavorando.
Disoccupazione e diffusa precarietà li costringono ad accettare lavori sottopagati con scarse tutele e livelli di
sfruttamento insopportabili, che, insieme alla mancanza di controlli e di investimenti sulla sicurezza da parte
delle imprese, sono all’origine della catena senza fine di morti sul lavoro e per il lavoro.
I salari delle lavoratrici e dei lavoratori italiani a tempo pieno sono tra i più bassi d’Europa.
Riguardo all’occupazione, la realtà del Paese è molto diversa da come viene raccontata dalla retorica del
governo, che considera nel novero degli occupati milioni di precari, di neet e ignora l’enorme tasso di
inattività che coinvolge un terzo della popolazione.
Milioni di persone sopravvivono senza una pensione dignitosa, aumenta la povertà che colpisce in modo
particolare i giovani e le donne.
A ciò contribuisce il drastico ridimensionamento del welfare e di tutta la sfera pubblica, impoverita nelle
strutture e nel personale, in gran parte precarizzato; la sanità è al collasso; scuola e università, sempre più
subordinate alle imprese, non riescono a garantire il diritto allo studio per milioni di giovani, tra i quali si
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registrano tassi di dispersione scolastica tra i più alti d’Europa; le amministrazioni pubbliche non riescono a
garantire i servizi minimi.
Su questa base sociale ha potuto dispiegarsi un’offensiva ideologica non meno pesante. Oggetto dell’offensiva
neoliberale sono stati l’idea stessa che esista la lotta di classe, che svolga una funzione positiva per superare
le ineguaglianze e soprattutto che questa possa portare ad una trasformazione sociale che superi i limiti del
capitalismo. Su questo piano, i risultati sono stati enormi: da un lato la decisione della maggioranza del gruppo
dirigente del PCI di smantellare il più grande partito comunista dell’Occidente per dar vita ad un partito
liberale moderato e di distruggere il sistema elettorale proporzionale; dall’altra la scelta del sindacato
confederale di trasformarsi in sindacato della concertazione e dei servizi. Questa vera e propria resa
all’avversario di classe da parte della maggioranza del gruppo dirigente del movimento operaio si è poi saldata
con una grande campagna anticomunista di cui sono stati protagonisti non solo gli anticomunisti di sempre
ma soprattutto gli ex comunisti appena diventati liberali. Lo sdoganamento dei fascisti è venuto in questo
contesto e il revisionismo storico prodotto sulla vicenda delle foibe ha rappresentato la vera e propria ciliegina
sulla torta.
È bene aggiungere che questa campagna ideologica non si è limitata a scardinare il movimento operaio
organizzato ma ha forgiato una nuova antropologia sociale, fondata sulla centralità dell’impresa,
sull’individualismo sfrenato ed in generale sul dipingere l’Italia come una paese allo sfascio, che sta in piedi
per miracolo dopo lo strapotere sindacale; e quindi che nessuna rivendicazione può essere soddisfatta perché
gli imprenditori finirebbero fuori mercato e lo stato a gambe all’aria. La dissoluzione dei legami sociali e la
diffusione di un senso di rabbiosa impotenza sociale è stata costruita anche dipingendo l’Italia come un paese
allo sbando.
- L’espulsione delle masse e della Sinistra dalla politica
Dal bipolarismo vengono espunti gli interessi delle classi subalterne, dando vita al gigantesco fenomeno
dell’astensionismo, vera e propria forma di reazione di strati popolari che non si sentono più rappresentati sul
terreno istituzionale. Parimenti, vengono espunte le politiche socialiste per condannarle alla marginalità e
all’autoreferenzialità.
Il bipolarismo è la forma istituzionale a parvenza democratica dell’Occidente. L’alternanza che origina dal
bipolarismo non è la premessa per l’alternativa ma la negazione strutturale e strategica di ogni cambiamento
sostanziale, di ogni alternativa reale. L’alternanza serve a costruire una contrapposizione teatrale, che occupi
tutto lo spazio della politica, puntando ad assorbire le istanze che chiedono il cambiamento e a impedire che
si aggreghi una proposta alternativa dotata di massa critica sufficiente. L’alternanza serve a cambiare i colori
del “pilota automatico”, senza che ne vengano messe in discussione le decisioni di fondo.
Sul piano politico, lo scenario richiama la situazione che si viveva in Italia nell’800, prima della nascita dei
partiti e delle organizzazioni del movimento operaio, in cui un sistema elettorale fondato sul censo dava
origine a rappresentanze parlamentari di destra e sinistra, ma entrambe espressioni degli interessi delle classi
dominanti. Oggi siamo ritornati ad una situazione simile, con un bipolarismo istituzionale e mediatico,
suggellato da un tasso di astensionismo enorme, che riguarda soprattutto le classi popolari.
Non si tratta però solo di un fatto istituzionale: registriamo una situazione in cui le classi subalterne sono state
sconfitte socialmente, cancellate ideologicamente, espulse dal sistema politico e non hanno ad oggi strumenti
validi per ricominciare ad esprimersi collettivamente e a difendere i propri interessi sul piano politico. La
nostra esperienza in maggioranza con i 2 governi Prodi ha segnalato in modo indelebile che il centro-sinistra
è nel suo complesso impermeabile alle istanze sociali di cui siamo portatori (pensiamo alla decisiva vicenda
delle 35 ore). Il PCI, dall’opposizione, ha cambiato il Paese molto di più di quanto noi siamo riusciti a farlo
partecipando a maggioranze parlamentari.
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Mentre la Prima Repubblica era un terreno di mediazione della dialettica sociale e politica, possibile base per
una democrazia progressiva in cui si poteva puntare a realizzare il dettato costituzionale attraverso riforme di
struttura, la Seconda Repubblica, caratterizzata dalla legge elettorale maggioritaria – voluta dal PDS di Achille
Occhetto – e dal pareggio di bilancio in Costituzione – introdotto dal governo Monti e votato in regime
bipartisan – è stata costruita con il preciso scopo di renderla impermeabile ed estranea agli interessi delle
classi popolari. La metà della popolazione che non va a votare non è un fenomeno di qualunquismo
individuale ma la principale domanda di riforma dello Stato e della politica, a cui i comunisti e le comuniste
debbono rispondere per poter riprendere i fili della trasformazione sociale, oggi tranciati.
Il tema della rappresentanza politica dei/lle comunisti/e e delle masse popolari non può quindi porsi al di
fuori di un percorso di riforma della politica e di messa in discussione del ruolo che le classi dominanti le
hanno oggi assegnato. Il superamento delle leggi elettorali maggioritarie, del bipolarismo e dei fondamenti
regressivi della Seconda Repubblica è quindi un nostro obiettivo politico centrale.
- La forza della Destra
La Seconda Repubblica ha costituito il contesto in cui è cresciuta la forza della destra.
La destra italiana, inventata da Silvio Berlusconi, nasce sin da subito – e per prima in Europa – come destra
che ingloba i fascisti e la loro tradizione. All’inizio, questo avvenne in forma contraddittoria, ma il clima
bipartisan anticomunista e di revisionismo storico – pensiamo alla vicenda delle foibe e dei combattenti di
Salò – ha determinato la legittimazione pubblica dei fascisti e modificato conseguentemente il profilo della
destra stessa.
La legittimazione della destra fascista è quindi andata avanti di pari passo con la delegittimazione della
Resistenza da cui è nata la Costituzione repubblicana, che non a caso è stata fatta oggetto di manomissioni, a
cominciare dalla modifica del titolo V, votata nel 2001 dal centro-sinistra, per proseguire con il tentato scasso
costituzionale voluto nel 2016 da Renzi, allora segretario del PD – e sconfitto nel referendum – fino all’attuale
tentativo di scardinamento del governo Meloni.
La destra, quindi, è cresciuta non per un improvviso rigurgito fascista della maggioranza del popolo italiano,
ma in sintonia con il contesto culturale e istituzionale della Seconda Repubblica – fortemente voluta dal PDS - in palese contrapposizione con la Repubblica nata dalla Resistenza e fondata sul lavoro.
In questo nuovo clima la destra fascistoide ha segnato una capacità di alludere, con una risposta reazionaria,
alle ingiustizie sociali determinate dal neoliberismo, in un contesto in cui il centro-sinistra è stato nei fatti il
maggiore responsabile di politiche antipopolari.
Pensiamo agli effetti che il voto compatto del centro-sinistra alla legge Fornero e la pressoché inesistente
azione sindacale contro questo provvedimento hanno prodotto nel mondo del lavoro: disorientamento,
rabbia, senso di abbandono e di impotenza. Il voto contrario della Lega Nord e la successiva raccolta di firme
per il referendum abrogativo hanno contribuito notevolmente a spostare voti operai verso il centro-destra.
Potremmo proseguire a lungo, ma è del tutto evidente che la condivisione delle politiche liberiste da parte
del centro-sinistra ha aperto un’autostrada alla destra che, in modo demagogico e populista, si presenta “dalla
parte del popolo italiano”.
La destra cresce dove non viene agita la lotta e dove muore la speranza, dove l’egoismo individuale e di gruppo
pare divenire l’unica strada praticabile.
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- Il pericolo della destra fascista e il capitalismo securitario
Da dove nasce il feroce securitarismo del governo e del sistema?
La prima considerazione è che l’Italia è in guerra; la guerra “pretende” lo “stato di eccezione” permanente,
l’assoluta sospensione dei diritti costituzionali. La guerra è, infatti, “costituente” e costruisce un vero e proprio
“salto di paradigma”, militarizza la società, dall’economia alla scuola, alla formazione: il capitale ha bisogno
della guerra.
Marx ci ha insegnato che “il capitale è, per sua natura, un sistema globale. Deve annidarsi ovunque, insediarsi
ovunque, stabilire connessioni ovunque”.
La tendenza in atto verso la centralizzazione dei capitali porta ad un’analoga concentrazione del potere
politico: un vero e proprio “liberismo autoritario”. Esso sta assorbendo anche il concetto di “sicurezza”, con
una torsione fortemente securitaria. Viene abbattuto lo Stato sociale e diventa sempre più pervasivo lo Stato
penale assolutista, connesso all’unificazione del potere. Del resto, le politiche centrate sulla repressione e
l’ipertrofia carceraria non nascono oggi: esse si pongono nella scia di normative feroci e incostituzionali,
volute sia dal centro-destra che dal centro-sinistra. Oggi non siamo solo dinanzi a norme che inventano nuovi
reati e comminano sanzioni enormi. Siamo di fronte ad un impianto autoritario della medesima governabilità.
Si va configurando un “salto di fase”, una simbiosi tra tutela della formazione sociale e immaginario della
sicurezza, che genera una “società della sorveglianza”, uno “Stato del controllo “, lo stravolgimento del
rapporto tra statualità e cittadinanza. Si sta rafforzando una vera e propria architettura globale di sorveglianza
capillare, pervasiva. Rispetto a questo salto di qualità, vi è una rimozione pressoché totale, nelle forze
parlamentari, sindacali, associative.
L’attuale normativa nega alla radice il conflitto, che è considerato nemico della “ragion di Stato”. Ma
riconoscere il conflitto è fondamentale, per gli anticapitalisti e per i comunisti, perché esso produce dignità,
autodeterminazione, permette la legittimazione degli oppressi e degli sfruttati. La storia è “storia di lotta di
classi”, scrive Marx. Senza il pluralismo, senza la partecipazione, se il popolo è muto e inerte, muore la stessa
Costituzione.
Le norme introdotte dalle destre ci riportano al carcere come luogo disumanizzante, punitivo, disperato. Chi
osa agire attraverso disobbedienza, diritto di resistenza, conflitto, in base al secondo comma dell’articolo 3
della Costituzione, è considerato “terrorista”, “delinquente”. Pensiamo alla norma che cancella il differimento
obbligatorio del carcere per le donne incinte o le madri con figli sino ad un anno. Qui l’ipertrofia carceraria
cancella ogni civiltà ed umanità dello Stato di diritto. Così come pensiamo alla misura che punisce chi,
all’interno delle strutture carcerarie, si oppone ad un ordine, ritenuto illegittimo, opponendo una “resistenza
passiva”. È stata definita la norma “anti Gandhi”. Basti, infine, pensare al trattamento previsto nei confronti
delle persone migranti, di quelle trattenute nei CPR. Non hanno commesso reati, ma sono costretti in galere
etniche peggiori del carcere: il migrante viene considerato un “nemico” a prescindere, a cui togliere perfino
la dignità. La misura introdotta, che vieta di vendere le SIM a chi non possiede il permesso di soggiorno, non
è solo incostituzionale, ma dimostra ferocia, cattiveria, odio.
Questa caratteristica repressiva si salda con la proposta di premierato, che è in realtà una proposta di
presidenzialismo anticostituzionale. Una forma di premierato plebiscitario, senza equilibri costituzionali e
contrappesi, che non esiste in alcun paese al mondo. Il Parlamento evapora in un ruolo ancillare, anche perché
una legge elettorale ipermaggioritaria (peggiore della legge Acerbo) costruisce una democrazia a numero
chiuso, da cui vengono escluse tutte le istanze critiche, anticapitaliste, comuniste. Così nascono le autocrazie
e si rinsaldano le oligarchie, abbattendo l’intera Costituzione, che va applicata, non smantellata. La ricerca
della passivizzazione sociale si salda quindi con la proposta di un impianto istituzionale che completi lo
svuotamento democratico delle istituzioni, con un presidenzialismo che si mostri impermeabile alle istanze
sociali.
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Contro questo indirizzo repressivo e presidenzialista, siamo impegnati alla costruzione della più ampia
opposizione sociale, rafforzando questa mobilitazione attraverso l’intreccio della lotta per la democrazia
con la lotta per i diritti sociali e civili.
- Le contraddizioni della Destra
Abbiamo visto come la destra italiana, che interpreta, radicalizzandole, le tendenze negative sopra descritte,
non abbia una sua piena forza autonoma, ma sia cresciuta in larga parte grazie al clima culturale e alle
politiche poste in essere o rese possibili dal centro-sinistra. Non a caso la destra vive le sue contraddizioni
maggiori proprio quando va al governo, dove si evidenzia la contraddizione tra la demagogia della propaganda
e la realtà dell’azione politica.
Questo è particolarmente evidente per quanto riguarda il governo Meloni, che ha abbandonato
completamente le promesse elettorali su pensioni e welfare ed ha assunto un profilo di politica economica in
totale continuità con Mario Draghi, una collocazione geopolitica completamente subalterna alla NATO e agli
Stati Uniti, un’azione di scardinamento costituzionale fondata sulla spaccatura del paese e sulla
criminalizzazione del conflitto sociale.
Che queste contraddizioni restino sul terreno potenziale, oppure si dischiudano e aprano veri e propri
elementi di crisi, dipende unicamente dall’azione di opposizione che viene fatta concretamente.
La qualità dell’opposizione sui contenuti sociali del governo rappresenta la vera leva per scardinare la forza
delle destre.
Emblematico il caso dell’autonomia differenziata, inizialmente condivisa in modo bipartisan, che oggi, grazie
ad una intelligente e determinata azione politica del “Comitato contro ogni autonomia differenziata”, trova
un fronte di opposizione assai vasto, che ha realizzato la grande campagna per il referendum abrogativo della
Legge Calderoli, in grado di modificare la percezione del Paese sugli effetti devastanti del regionalismo
competitivo. Questo risultato, nè semplice nè scontato, si è fondato su due elementi: in primo luogo la
radicalità dell’obiettivo, l’assoluta autonomia politica del Comitato nella sua azione di contrasto, a partire dalle
intese sottoscritte dal Governo Gentiloni fino alla precipitazione attuale del Governo Meloni, la
determinazione nel tenere fermo l’obiettivo anche quando larghissima parte del centro-sinistra si attestava
su posizioni di mediazione; in secondo luogo, la pratica unitaria della lotta, il lavoro tenace per la costruzione
dell’ampio schieramento referendario, con cui si sono poste le basi per cancellare nell’immediato lo
“SpaccaItalia” del Governo Meloni – che affonda le sue radici nella modifica del Titolo V della Costituzione ad
opera del governo Amato – per poi aprire la prospettiva di una radicale inversione di tendenza.
Molto più difficile far emergere le contraddizioni del governo laddove non vi è una dispiegata azione politica:
è il caso della posizione del governo sulla guerra, del raddoppio delle spese militari, del mancato
abbassamento dell’età pensionabile, della mancata approvazione di una norma sul salario minimo e, più in
generale, delle politiche di austerità. La sostanziale condivisione del centro-sinistra – e dei giornali che lo
sostengono – dell’orientamento di fondo del governo e l’assenza di una autonoma capacità di iniziativa politica
su questi temi, determinano una situazione in cui la contrarietà alle politiche del governo non diventa oggetto
di iniziativa politica. - Per sconfiggere le destre, fare come Melenchon
In questa situazione, è del tutto evidente che la strada per sconfiggere le destre non può fondarsi sulla
sommatoria delle diverse forze di opposizione così come sono organizzate nel sistema bipolare. Questo lo
abbiamo fatto varie volte in questi trent’anni – dalla desistenza all’accordo di maggioranza, a quello di governo
– ma non si è mostrata una strada efficace. Ogni volta che le destre sono state sconfitte sul piano elettorale
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la politica concreta attuata dal centro-sinistra – a prescindere dal tipo di accordi da cui scaturiva – ha
determinato la successiva vittoria del centro-destra e – come abbiamo visto – un progressivo rafforzamento
delle forze più estreme al suo interno. Il tema della sconfitta della destra fascista non è quindi linearmente
risolvibile con la sommatoria di chi oggi è all’opposizione perché, dati i rapporti di forza presenti
nell’opposizione, le politiche che emergerebbero, per l’ennesima volta, non farebbero altro che poi rafforzare
le forze reazionarie.
Per sconfiggere le destre fasciste occorre quindi porsi il problema di modificare i rapporti di forza dentro
l’opposizione e di sconfiggere l’ala guerrafondaia e liberista che è oggi maggioritaria.
È esattamente il percorso compiuto da Melenchon in Francia, il quale si era posto coerentemente questo
problema già anni fa. Per anni ha lavorato a costruire una sinistra di alternativa, sviluppare il conflitto sociale
contro le politiche di austerità, rifiutando ad ogni livello accordi con il Partito Socialista. Solo dopo aver
ribaltato i rapporti di forza elettorali con il Partito Socialista nelle elezioni presidenziali, dopo aver costruito
una forte sintonia con i movimenti di lotta e dopo la sconfitta all’interno del Partito Socialista della linea
liberista, Melenchon ha proposto e costruito l’unità della sinistra su contenuti largamente antiliberisti ed in
sintonia con i movimenti sociali. Com’è evidente, abbiamo forti differenze con i compagni francesi sulla
questione della guerra in Ucraina, ma questo non toglie che la strategia seguita da France Insoumise in questi
anni si è mostrata corretta sul punto fondamentale: per sconfiggere le destre occorre costruire un punto di
riferimento di sinistra e costruire conflitto sociale, non allearsi con la sinistra liberista.
Contro il regime fascista, quando la lotta è stata principalmente di tipo militare, l’unità di tutte le forze
antifasciste, anche quelle monarchiche, è stata decisiva e necessaria. Nello scontro militare, o si sta da una
parte o dall’altra e l’alternativa è tra vincere e morire. Ma oggi noi non siamo nel ‘44, non siamo dentro uno
scontro militare con un regime fascista. Oggi lo scontro è sul terreno della ricerca del consenso. Su questo
piano, la strada per sconfiggere le destre non può quindi fondarsi sull’accordo elettorale – e per forza di cose
anche politico – con chi sostiene le politiche guerrafondaie e antipopolari che sono alla base della crescita
della destra e dell’aumento del suo consenso presso vasti strati popolari. Dobbiamo operare per costruire il
più ampio fronte di lotta contro il governo di destra sapendo che non vi è un rapporto causale e
consequenziale tra lotte di opposizione e possibile schieramento politico: lo schieramento politico-elettorale
deve costruirsi su una proposta politica chiara, come hanno fatto in Francia.
- Lo stato di guerra peggiora la situazione
La scelta dell’Unione Europea e del governo Meloni di appoggiare supinamente le scelte degli Stati Uniti sta
portando l’Europa ad una crisi verticale.
In primo luogo, le sanzioni alla Russia ed in generale la politica di decoupling voluta dagli USA, che punta a
spaccare in due l’economia mondiale, hanno messo radicalmente in crisi i fattori di competitività dei settori
produttivi europei fondati sull’esportazione, a partire dell’industria tedesca. In questa situazione l’apparato
produttivo italiano, che è in buona parte legato a quello tedesco, è destinato a pagare prezzi pesantissimi, che
si accompagnano alle difficoltà in altri settori colpiti direttamente dalle sanzioni alla Russia (dall’agricoltura al
settore del lusso). Questo determinerà una riduzione del PIL italiano e delle esportazioni, con conseguenti
riverberi negativi sulla bilancia commerciale: si apre cioè una situazione in cui potrà ricominciare una
campagna sul fallimento del sistema-paese e quindi sulla necessità di tagliare ulteriormente salari, diritti,
welfare.
In secondo luogo, l’enorme aumento della spesa militare determina una compressione delle risorse a
disposizione per il welfare. Oltre 15 miliardi di aumento della spesa militare determineranno un taglio delle
spese sociali di pari ordine, un ulteriore sconquasso sociale.
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Vi è quindi uno stretto rapporto tra la lotta contro guerra e aumento delle spese militari e quella contro le
politiche liberiste: per questo la nostra opposizione al governo deve mettere in discussione le politiche NATO
ed europee che Meloni condivide con il PD. Si badi bene, non con il PD di Renzi, ma con il PD di Schlein, che
ha votato la risoluzione del Parlamento Europeo.
- Le potenzialità del Mezzogiorno
Nel quadro sin qui descritto, il Mezzogiorno è completamente escluso dai processi di integrazione, dai modelli
strutturali dei processi di accumulazione in atto. Esso, allora, è metafora della necessità di un rovesciamento
di campo, di un punto di vista complessivamente alternativo.
La “questione meridionale”, oggi, non può che essere “questione euromediterranea”. Essa può essere una
leva, controcorrente, per rafforzare una visione “policentrica”, contro l’attuale configurazione dell’Unione
Europea. L’Europa del Sud può assumere la funzione di cerniera nei confronti del bacino mediterraneo. I
Brics costituiscono un orizzonte geopolitico, ma anche economico, per importanti cooperazioni
interregionali. La crescita di mercati regionali in aree molto popolate può essere la risposta alternativa al
progetto di Europa “escludente”.
Combatteremo da subito la funzione che i poteri economici vogliono affidare al Sud, quella di un hub
petrolifero, di una piattaforma antiecologica, carbonizzata, gassificata, trivellata, di transito verso il Nord,
verso le macroregioni mitteleuropee, delle risorse energetiche mediterranee. Dovremo ripensare ed
attualizzare lezioni postcoloniali serie, che lo sviluppismo liberista ha violentemente rimosso. Dall’altra parte
vi sono, infatti, le gabbie salariali, la completa militarizzazione del territorio, la scuola confindustriale e
confessionale, la salute ridotta ad assicurazioni per soli ricchi. Perfino l’acqua diventa terreno di
accumulazione predatrice.
I processi politici, strutturali, mafiosi, si intrecciano. Le mafie sparano meno, ma la borghesia mafiosa controlla
tutti i percorsi di valorizzazione del capitale. Del resto, il Sud è la vittima predestinata dell’“autonomia
differenziata”, che è un vero e proprio passaggio di Repubblica, un colpo di Stato privatistico basato sulla
mercificazione di territori, servizi, persone, vite.
Ma il SUD non è pacificato, non sta accettando passività ed inerzia, vi sono conflitti e fermenti di
autorganizzazione. Sono aspirazioni, comportamenti critici individuali e collettivi che possono dare slancio e
passione all’identità del Sud, che è stata per decenni seppellita dalle destre e dallo sviluppismo liberista del
centrosinistra.
Noi siamo impegnati a favorire l’emersione di questa nuova soggettività meridionale, che ci richiama al
ruolo dei Comuni, al rapporto tra i “nostri” territori e quelli euromediterranei, alle marce per il lavoro e la
pace, alle piazze che diventano di nuovo spazi di comunità, alla valorizzazione dell’autonomia siciliana e
sarda, alla ripresa di un ruolo politico di un Mezzogiorno che le classi dominanti vorrebbero ridurre a
passiva periferia dell’impero. - La condizione giovanile
(questa la scriviamo insieme)
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SECONDA PARTE
3.UNA COALIZIONE POPOLARE CONTRO LA GUERRA, IL LIBERISMO, IL FASCISMO
Come abbiamo visto, l’attuale fase mondiale è caratterizzata da uno stato di guerra permanente, frutto delle
contraddizioni interne al capitalismo e del tentativo degli Stati Uniti di impedire la costruzione di un mondo
multipolare e di arrestare il proprio declino attraverso l’arma militare. La guerra permanente voluta dagli USA
si presenta come una vasta serie di guerre locali, tra loro interconnesse e tutte a rischio di escalation nucleare.
Da oltre un anno assistiamo al genocidio del popolo palestinese perpetrato da Israele con il pieno appoggio
delle potenze occidentali. Adesso Israele cerca di allargare il conflitto in tutta la regione mediorientale. In
Ucraina ogni tentativo di arrivare ad una trattativa e ad un compromesso viene stroncato sul nascere dalle
forze legate alla NATO. In questo contesto, assume un valore fondativo che il 19 settembre 2024 il Parlamento
Europeo abbia approvato – con il voto favorevole di Fratelli d’Italia, Forza Italia e Partito Democratico – una
risoluzione sul proseguimento del sostegno finanziario e militare all’Ucraina da parte degli Stati membri
dell’UE. Questa risoluzione, oltre a prevedere l’aumento della fornitura di armi all’Ucraina, delle sanzioni alla
Russia e ai suoi alleati: “invita gli Stati membri a revocare immediatamente le restrizioni all’uso dei sistemi
d’arma occidentali forniti all’Ucraina contro legittimi obiettivi militari sul territorio russo (…)”.
In pratica, il Parlamento Europeo, non solo ha chiuso ogni porta alla ricerca di una soluzione pacifica alla
guerra in corso in Ucraina, ma si è apertamente schierato a favore di una escalation che – viste le posizioni in
campo – porterebbe inevitabilmente ad un conflitto nucleare sul suolo europeo e molto probabilmente alla
Terza guerra mondiale.
Si tratta di un drammatico salto di qualità negativo dell’Unione Europea, che unisce la follia guerrafondaia alla
politica di austerità economica e al restringimento degli spazi democratici. La guerra, le sanzioni e l’aumento
delle spese militari portano infatti con sè una gravissima aggressione ai diritti e alle condizioni di vita degli
strati popolari, aggravando gli squilibri e la sofferenza sociale: l’alternativa tra socialismo e barbarie torna a
presentarsi in tutta la sua drammatica chiarezza.
Questo indirizzo politico vede una piena convergenza di indirizzi guerrafondai e antipopolari tra la
Commissione Europea presieduta da Von Der Leyen, il partito Democratico e il governo Meloni.
Noi riteniamo che il compito di fase del Partito della Rifondazione Comunista sia quello di costruire una
opposizione e un’alternativa a questa follia guerrafondaia antipopolare ed antidemocratica, al governo e a
tutte le forze politiche che in Italia e in Europa, al di là degli schieramenti, la sostengono.
- La nostra proposta
1) Sul piano politico proponiamo di dar vita ad una coalizione popolare contro la guerra, il liberismo e il
fascismo, in grado di lottare in Italia per dar vita ad un’alternativa politica, culturale, sociale ed istituzionale
alla barbarie che le classi dominanti italiane ed europee vogliono imporci, alle forze politiche che le
sostengono, al sistema bipolare e all’impianto della Seconda Repubblica.
La lotta per la pace, la giustizia sociale e ambientale, la libertà costituiscono la condizione per ricostruire in
Italia una speranza tra le masse popolari e per sconfiggere le forze dominanti guerrafondaie di cui fa parte la
destra fascista. È infatti evidente che, in assenza di una chiara e dispiegata opposizione di sinistra, le destre
fasciste hanno buon gioco a presentarsi come i difensori del popolo italiano di fronte ai diktat europei.
Ci poniamo pertanto l’obiettivo di contrastare le politiche di guerra, di salvaguardare il welfare, gli interessi
degli strati popolari e l’ambiente, di impedire che il Paese venga ulteriormente impoverito attraverso i bassi
salari, la precarietà, l’aumento delle diseguaglianze, la desertificazione del suo sistema produttivo.
Proponiamo di aggregare una coalizione di popolo che dica di no alla guerra, alla NATO, alle spese militari,
alle sanzioni. Una convergenza tra soggetti diversi, uniti a partire dalla consapevolezza che l’alternanza nel
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bipolarismo non costituisca, oggi in Italia, la premessa per l’alternativa, ma la sua negazione, dominata
com’è da forze politiche e mediatiche completamente subalterne ai diktat della NATO e degli USA.
Una coalizione quindi che si ponga l’obiettivo di trasformare il sistema politico, al fine di renderlo nuovamente
permeabile alle istanze popolari, intrecciando la più radicale opposizione al governo di destra con la difesa
dei diritti sociali e civili, la lotta al patriarcato, la valorizzazione delle enormi risorse materiali ed immateriali
del nostro bellissimo paese, il territorio e le sue produzioni, la varietà delle culture, rafforzi i legami sociali e
comunitari, vera alternativa alle politiche migratorie securitarie.
Avanziamo questa proposta di convergenza a tutte le forze politiche, sociali, culturali, a tutte le donne e gli
uomini che si sono espressi contro la guerra e condividono la necessità di costruire una alternativa visibile
e credibile alla guerra, al liberismo, alla devastazione ambientale, al fascismo. Proponiamo che la coalizione
popolare sia il progetto a cui lavorare da subito per le prossime elezioni politiche italiane, al fine di costruire
in tempi utili una proposta visibile e riconoscibile, che si presenti in alternativa ai poli politici esistenti ed
alle forze, come il PD, che sostengono la guerra e l’austerità. Le alleanze elettorali su nodi come la guerra e
la pace non sono passaggi tattici ma strategici.
La lotta contro il sistema di guerra non si vince, però, solo sul piano politico.
2) Sul piano culturale avanziamo un appello a tutte e tutti coloro che operano nel campo della formazione
dei saperi, in primo luogo Scuola, Università e Ricerca, i primi ad essere aggrediti da un progressivo
smantellamento del ruolo pubblico. Lo stato di guerra porta alla chiusura degli spazi di dibattito, alla
criminalizzazione del pensiero critico, alla messa in discussione della libertà di insegnamento. Proponiamo di
dar vita ad una mobilitazione straordinaria, una ripresa del movimento per una scuola democratica, laica,
pluralista, con il protagonismo di tutte le componenti del sistema d’istruzione e universitario, dei soggetti che
operano nel campo della cultura e dell’arte. La valorizzazione dei saperi sociali e la produzione di cultura
critica non possono essere sottoposte ad un progetto politico, ma devono intrecciarsi dialetticamente con
questo. Proponiamo quindi agli operatori della scuola e della cultura di dar vita ad una rete di relazioni stabili
che, nella loro piena autonomia, possano costituire una soggettività plurale della cultura critica. Pensiamo
infatti che il protagonismo degli intellettuali interessati a produrre un sapere critico sia la condizione per
capovolgere il paradigma del primato del mercato e impedire che la cultura venga arruolata nello scontro di
civiltà.
3) Sul piano sociale riteniamo decisiva la ripresa di un forte conflitto e di un protagonismo popolare, la rottura
della passività sociale, la costruzione di una opposizione di massa alla guerra, al governo Meloni, alla
Commissione Europea ed ai loro provvedimenti.
La mobilitazione sociale, per sua natura, avviene su obiettivi specifici, chiari e definiti e non implica la
condivisione di una specifica proposta politica. Questi conflitti esistono, ma sono oggi molto frammentati.
Proponiamo di sviluppare nei prossimi mesi il massimo di opposizione alle politiche antipopolari,
antidemocratiche e guerrafondaie, sulla base della condivisione della piattaforma sui temi concreti.
Riteniamo infatti che la mobilitazione sociale rappresenti una necessità assoluta, sia per fermare gli attacchi
ai ceti popolari sia per ricostruire un protagonismo sociale indispensabile per l’alternativa. Su temi come la
sanità, la precarietà, i bassi salari vi è una grande rabbia sociale a cui dobbiamo proporre uno sbocco collettivo
attraverso la lotta e la vertenzialità diffusa.
Noi riteniamo necessario operare per lo sviluppo di lotte e movimenti di scopo, aggregando tutte le forze, le
organizzazioni e i partiti disponibili con l’unico discrimine dell’antifascismo, a prescindere dalla condivisione
del progetto politico complessivo.
Come partito, opereremo all’interno della costruzione unitaria del conflitto portando le nostre proposte,
dentro una costruzione unitaria del conflitto sociale affinché possa coinvolgere il maggior numero possibile
di persone. A questo riguardo, riteniamo che l’esempio della lotta all’autonomia differenziata rappresenti un
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punto di riferimento di questa impostazione politica: l’avvio del percorso referendario, con l’ampio
schieramento a suo sostegno, ha dato ragione al lungo lavoro di radicale opposizione a ogni forma di
regionalismo competitivo e differenziato. L’obiettivo condiviso di abrogazione della legge Calderoli non porta
in sé il precipitare in una comune prospettiva politica, ma per noi è un passo verso la messa in discussione
delle manomissioni costituzionali, a partire da quella del Titolo V nel 2001. Riteniamo necessario progettare,
con gli stessi presupposti di radicalità dei contenuti, di approccio unitario e plurale e di autonomia delle
soggettività, una mobilitazione contro la guerra e le spese militari, per il rilancio di sanità e scuola pubbliche,
sul salario minimo, sulla lotta alla precarietà ed in generale contro le politiche antipopolari e autoritarie del
governo e dell’Unione Europea.
4.RIPROGETTARE E RILANCIARE IL PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA
La costruzione di una coalizione popolare, il protagonismo dei portatori di saperi critici e la ripresa del
conflitto sociale sono obiettivi impossibili senza un forte ruolo di Rifondazione Comunista, che dobbiamo
rilanciare attraverso una vera e propria riprogettazione. Il punto focale attorno a cui riorganizzare il nostro
lavoro politico, contro questo capitalismo distruttivo delle relazioni sociali e della natura, è il NO alla guerra
ed alle politiche antipopolari di guerra che stanno distruggendo la sanità pubblica e il welfare. Noi siamo
contro la guerra sempre, senza se e senza ma, e chiediamo l’immediato cessate il fuoco in Ucraina come in
Medio Oriente e l’immediato riconoscimento dello Stato di Palestina.
Per rilanciare il Partito è necessario fare i conti con la nostra debolezza, con l’incapacità di attrarre e di
aggregare in particolare le giovani generazioni. Noi riteniamo che ciò sia dovuto innanzitutto all’incapacità a
definire con chiarezza una prospettiva, un ruolo da svolgere nell’Italia di oggi, galleggiando con un indirizzo
altalenante quando non subalterno ai progetti politici altrui. Si tratta di rilanciare Rifondazione Comunista
come cuore della lotta per la pace, di opposizione al governo nazionale ed europeo, di dar vita alla costruzione
di una coalizione popolare alternativa al sistema di guerra e liberista che ha fatto risorgere i fascisti. Rilanciare
Rifondazione, il suo radicamento sociale, l’internità ai conflitti, la capacità di operare con metodo
intersezionale alla ricomposizione sociale è la nostra proposta comunista, non semplicemente di sinistra. Il
comunismo, il superamento del patriarcato e dei processi di mercificazione, dello sfruttamento degli esseri
umani e della natura, non sono per noi orizzonti religiosi con cui consolarsi, ma la forma necessaria e possibile
di relazioni sociali per rispondere oggi ai problemi dell’umanità. Una umanità altrimenti destinata ad essere
travolta dalla distruttività del capitalismo imperialista. Oggi non vi è solo un’attualità, ma una necessità del
comunismo per uscire dalla barbarie.
Rifondazione Comunista non può vivere e nemmeno sopravvivere nel tatticismo politicante o nella ricerca
spasmodica di qualche scialuppa di salvataggio. Rifondazione comunista è la forza politica che in Italia è nata
trenta anni fa per porre il tema dell’alternativa, di una terza via concreta, popolare, sociale. A questo siamo
impegnati nel proporre a tutto il partito la riprogettazione e il rilancio della nostra organizzazione, affinché
possa tornare ad essere un punto di riferimento per chi lotta nel nostro Paese per la pace, libertà e la giustizia,
per il comunismo. Lo dobbiamo a noi stessi, alle giovani generazioni.
È evidente che oggi il nostro partito si trova in una situazione di particolare debolezza, spesso utilizzata per
indicare come unica via di salvezza quella di rientrare, anche dalla porta di servizio, nell’ambito del centro-
sinistra, cercando per quella via l’accesso alle istituzioni. Al di là della considerazione empirica per cui nelle
grandi città l’unico consigliere comunale è a Firenze, eletto in una coalizione che si è presentata in alternativa
al PD, mentre non risulta che i vari esperimenti di entrismo nel centro-sinistra abbiano prodotto qualche
risultato, noi riteniamo che i limiti attuali, la nostra debolezza, l’invecchiamento del corpo militante, non
debbano diventare un alibi per assumere il comportamento di quei naufraghi, che impauriti, smettono di
nuotare e, in modo scomposto, cominciano ad agitarsi alla ricerca di qualche relitto a cui aggrapparsi.
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Occorre piuttosto analizzare seriamente la situazione in cui ci troviamo per individuare limiti ed errori.
In questa situazione, se davvero si ritiene doveroso “un bilancio veritiero” sul progressivo indebolimento del
nostro partito, riteniamo opinabile che lo si faccia a partire dalla scelta che facemmo nel 2008 di costruire,
“in basso a sinistra”, un’alternativa ai due poli che non siamo riusciti a concretizzare”.
- Per un bilancio della nostra storia
Riteniamo sbagliato e molto indicativo che il fotogramma scelto per far partire il film della crisi di
Rifondazione Comunista sia quello del congresso di Chianciano. Questo è sicuramente il punto di vista di
Vendola e compagni, ma nasconde un fatto: grande come una casa: la Sinistra-L’arcobaleno, con Bertinotti
candidato Presidente, lista dotata di una enorme visibilità mediatica, prese il 3,1% e sancì l’uscita di
Rifondazione Comunista dal Parlamento italiano, prima del Congresso di Chianciano.
Non partire dalla sconfitta elettorale della Sinistra Arcobaleno – e quella dell’anno precedente alle
amministrative – e far risalire i problemi al Congresso, che venne dopo e che con quella sconfitta dovette fare
i conti, è un modo per aprire la discussione dando per scontato che prima di Chianciano tutto andasse bene,
compreso evidentemente l’accordo con il centro-sinistra.
L’estromissione di Rifondazione dal Parlamento e la sua crisi non nascono dal congresso di Chianciano ma
prima, ed erano palesemente maturate nella fase in cui apparivamo fortissimi, stavamo in maggioranza con
Mastella, Gentiloni, Dini e Rutelli ed eravamo tutti i giorni in televisione. Far partire la sconfitta del progetto
di Rifondazione da Chianciano determina un unico risultato: costruire una narrazione in cui qualunque
ammorbidimento e compromesso nel rapporto con il PD rappresenterebbe un fatto positivo e di buon senso
realista rispetto ad una linea “troppo rigida”.
La realtà ci dice che la crisi di Rifondazione Comunista è nata quando era nella maggioranza che sosteneva il
governo Prodi. Quella collocazione ne ha corroso pesantemente la credibilità, il valore simbolico e i rapporti
di massa costruiti dopo le giornate di Genova, nella costruzione del movimento altermondialista e nell’attività
di opposizione al governo Berlusconi.
A meno che non si voglia usare Rifondazione Comunista per giocare al gioco dell’oca, noi riteniamo sia
necessario prendere atto che è la collocazione in maggioranza con il centro sinistra che aperto la nostra crisi
come, del resto, la partecipazione alla maggioranza del primo governo Prodi aveva prodotto un nulla di fatto
sul piano dei risultati concreti e una pesante scissione del Partito.
Proprio per questo riteniamo necessario capire dove abbiamo sbagliato nell’applicazione o nella mancata
applicazione dell’indirizzo scelto a Chianciano nel 2008.
Negli anni immediatamente successivi al 2008 due sono stati gli errori principali,che riteniamo necessario
sottolineare.
Il primo è stato una insufficiente cura del Partito. La consapevolezza della necessità di dar vita ad una sinistra
di alternativa, riassunta dalla formula “siamo necessari ma non sufficienti”, ha lasciato sullo sfondo la
definizione del ruolo centrale che il partito doveva svolgere. Il non aver definito chiaramente quali dovevano
essere i suoi compiti, rispetto a quelli dell’aggregazione più ampia, ha teso a sminuire il ruolo del partito
invece di rafforzarlo nella nuova fase che occorreva aprire. Questa sottovalutazione del ruolo e della cura del
partito ha caratterizzato tutta la fase post-Chianciano e costituisce un errore di cui prendere atto.
Il secondo errore è stato quello di aver concentrato il tema della costruzione di una sinistra di alternativa quasi
solo sul piano strettamente politico-elettorale. Abbiamo trascurato il fatto che il bipolarismo è la forma con
cui si struttura non solo il terreno istituzionale ma il complesso della sfera pubblica (comunicazione, relazione
con i corpi sociali intermedi). Di conseguenza, la sola costruzione politico-elettorale non è per nulla sufficiente
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a dare gambe e respiro all’alternativa, se si rimane sul solo piano elettorale, il più difficile e il più “blindato”
dalle leggi maggioritarie, non si penetra sul terreno sociale e dell’immaginario.
In questo modo, anche intuizioni positive, come quella del partito sociale, sono rimaste a mezz’aria, una
specie di settore di lavoro accanto ad altri, che però non ha ridisegnato la nostra identità e oggi non compare
più nella narrazione del partito. Sul terreno sociale, a queste considerazioni si somma l’incapacità – ma anche
lo scarso impegno – di costruire una sinistra sindacale – in Cgil come nel sindacalismo di base – in grado di
incidere sul decisivo terreno della mobilitazione sociale.
La centralità data al terreno strettamente politico, ha anche fatto perdere di vista il lavoro di costruzione di
un immaginario, di una prospettiva culturale e di una narrazione dell’alternativa. Il nostro stesso essere
comunisti e comuniste, in una fase in cui il capitalismo mostra appieno la sua tendenza distruttiva, è stato
lasciato del tutto sullo sfondo, invece che essere proposto nella sua attualità necessaria. Al di là del meritorio
lavoro di demistificazione delle politiche di austerità, non abbiamo contrastato a sufficienza la colonizzazione
dell’immaginario collettivo e non abbiamo nemmeno costruito quella rete di relazioni stabili con il tessuto
dell’intellettualità a noi vicino, decisivo per elaborare una proposta di alternativa.
Siamo cioè rimasti sul piano della costruzione politica, senza operare per costruire una vera proposta politico-
sociale-culturale e progettuale.
Nell’ultima fase, ai limiti precedenti se ne sono sommati di nuovi:
1) La mancata rigenerazione. In un contesto in cui l’età media del partito è diventata molto alta e vi sono
palesi problemi di ricambio generazionale, l’aver volutamente disatteso la decisione assunta unitariamente
nell’ultimo congresso, di fare un passaggio di consegne generazionale nel gruppo dirigente centrale, ha
costituito un grave errore. Ha pesato negativamente sulla possibilità di rinnovare l’immagine del partito, ha
creato un clima di scontro e di sospetti che ha contribuito alla spaccatura del gruppo dirigente.
2) La mancata applicazione della linea di chiara alternativa al centro-sinistra a tutti i livelli. Per stare solo
all’ultima fase, nelle elezioni regionali e delle grandi città, questo indirizzo, assunto all’unanimità nell’ultimo
congresso, è stato largamente disatteso.
3) L’incongruenza delle scelte. Il mancato rispetto del mandato congressuale è stato particolarmente evidente
nell’ultimo periodo, con la scelta attuata in vista delle elezioni europee di sfasciare Unione Popolare. Invece
di lavorare per una lista unitaria contro la guerra e il liberismo, una vera lista unitaria per la pace, ci siamo
aggregati in modo subalterno alla lista Santoro, ponendo le condizioni per l’ennesimo insuccesso elettorale e
per un ulteriore indebolimento del partito.
4) La riduzione della capacità di iniziativa e di proposta. L’intervento del partito è stato improntato al
commento quotidiano delle notizie,senza sviluppare capacità di analisi e di iniziativa autonoma. Emblematica
l’assenza di una iniziativa forte e continuativa contro guerra, spese militari, sul rapporto tra economia di
guerra e disagio sociale.
5) La struttura leggera, la scelta di non procedere alla nomina dei responsabili di numerosi dipartimenti di
lavoro. Il partito, al di fuori degli incarichi di Segreteria, non è stato strutturato, come sempre era avvenuto,
per organizzare, istruire e supportare l’elaborazione politica e l’iniziativa, ma è stato ridotto a partito leggero,
utile per andare con le bandiere alle manifestazioni – degli altri – e per raccogliere firme, quando necessario.
6) La centralizzazione delle scelte e l’atrofia della discussione. In sintonia con questo modo di procedere,
mentre nell’ultimo congresso si era sottolineata la necessità di allargare la discussione e il confronto, abbiamo
assistito ad una centralizzazione autoritaria nel partito, senza discussione reale al suo interno. Solo per fare
un esempio, l’ultima volta in cui la Direzione Nazionale è stata convocata per una discussione politica risale al
23 novembre 2023…
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In questo modo è venuta al pettine una crisi di prospettive che, sommata agli errori precedenti, è alla base di
molti dei problemi che pesano sul partito, della sua debolezza e dello scoramento dei militanti.
- Compiti e priorità per il Partito
Dai limiti che abbiamo riscontrato nel bilancio sopra esposto emergono in larga parte le cose necessarie per
rilanciare Rifondazione Comunista. Non si tratta di mosse magiche, di atti salvifici o di puro volontarismo, che
in modo miracoloso risolveranno tutti i problemi. Si tratta di un rilancio chiaro della prospettiva politica di
alternativa da riempire però di contenuti, proposte concrete, capacità di parlare al Paese, di organizzare una
risposta sociale. La proposta di alternativa, se non si articola in una politica concreta, è semplicemente muta,
pura propaganda. Si tratta quindi di partire dalle forze che abbiamo per riprogettare e rilanciare il partito
ponendo le condizioni per aggregare nuove forze e nuove intelligenze. - Il rilancio del comunismo
Innanzitutto dobbiamo operare per l’attualizzazione della proposta comunista: oltre che fattore identitario
riferito alla nostra storia, dobbiamo declinarlo affinché diventi l’immaginario positivo della trasformazione
sociale odierna. Occorre rifondare il significato del comunismo non solo nell’analisi critica della nostra storia
ma come proposta di trasformazione per le giovani generazioni. Il comunismo non è un ricordo del passato
ma deve essere rivolto alla trasformazione del presente e quindi parlare di futuro.
Il comunismo è una grande risorsa che dobbiamo valorizzare, perché per lottare contro la pervasiva ideologia
della guerra nell’era neoliberista, occorre essere portatori di un’idea forte, avere punti di riferimento che
vadano oltre la contingenza. Occorre essere parte di una storia, la storia della lotta degli umani per la libertà
dallo sfruttamento.
Abbiamo bisogno di un pensiero universalista dispiegato, che inglobi e superi l’ideologia dominante di questo
capitalismo distruttivo, sviluppando tutte le potenzialità del pensiero comunista.
Il capitalismo ha posto le condizioni per la fuoriuscita dell’umanità dall’era della scarsità e
contemporaneamente ci sta portando alla guerra e alla distruzione delle condizioni di vita sul pianeta.
Scegliere il capitalismo significa scegliere la morte, scegliere il comunismo significa incamminarsi sulla strada,
possibile, della pace, del rispetto dell’ambiente, dell’eguaglianza e della libertà. Essere comunisti oggi significa
riconoscere che vi sono tutte le condizioni oggettive per una uscita dell’umanità dalla condizione di bisogno
e di sfruttamento e che questo è impedito dal persistere di rapporti sociali capitalistici che non hanno più
alcuna ragione di esistere. Al riconoscimento e al superamento di quei rapporti sociali noi siamo impegnati.
Parallelamente, ora più che mai occorre rilanciare un’idea di rivoluzione come freno d’emergenza da azionare
senza riserve nel momento in cui l’evoluzione storica, legata al capitalismo, sembra effettivamente arrivare
sull’orlo dell’abisso. Si presenta l’occasione per riprendere e valorizzare le critiche che la modernità capitalista
ha generato, mettendo in evidenza, accanto allo sfruttamento e all’oppressione, altre fonti di malessere, come
la perdita di senso, il deterioramento dei rapporti umani, la deturpazione del mondo e l’impoverimento della
vita quotidiana. Non si tratta di recuperare un passato mitico, ma di rifiutare l’ideologia storicistica del
progresso e con Marx avere consapevolezza che il liberismo di oggi rappresenta comunque “un passo indietro,
dal punto di vista umano, rispetto alle comunità del passato”.
Parimenti dobbiamo sviluppare il tema del comunismo qui ed ora, sui territori, con il rilancio del tema dei
beni comuni, del controllo sul territorio, dell’autogoverno.
Rilanciare il comunismo come l’immaginario di chi lotta per la libertà e la giustizia, come movimento reale
che abolisce lo stato di cose presente, che va oltre la dimensione contingente del conflitto, che modifica i
rapporti sociali, è uno dei nostri compiti principali.
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Il Congresso impegna quindi la Direzione Nazionale ad aprire una fase di riflessione sull’attualità del
comunismo e ad operare per dar vita ad un vero e proprio intellettuale collettivo, sia attraverso il
potenziamento della rivista “Su la testa” sia attraverso la costruzione di una consulta degli intellettuali che
condividono la sostanza della nostra impostazione, al fine di valorizzarne il contributo di idee, per la
formazione e la produzione di saperi e di programmi.
- Il radicamento sociale
Tutto oggi indica la necessità una grande stagione di lotte, che unifichi le lotte isolate oggi esistenti in un
grande movimento unitario antiliberista, contro il governo delle destre, la dura austerità preannunciata dalla
legge finanziaria, per ribaltare la situazione e avviare il cambiamento.
Per questo è indispensabile ricostruire l’unità e il protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori, riunificare
tutti quelli che l’offensiva neoliberista ha diviso e messo in concorrenza tra di loro. Occorre anche saldare
nello stesso fronte unitario tutti i proletari che oggi soffrono la mancanza di reddito, lavoro, salario e pensione
dignitosi, i tanti e le tante che la mancanza di protezioni sociali relega in condizioni di povertà e di marginalità
sociale.
Per questo proponiamo di riprendere le lotte per:
-l’aumento generalizzato di tutti i salari, delle pensioni, l’istituzione di un salario minimo legale e
l’indicizzazione piena all’inflazione;
-la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per la piena occupazione, una necessità di fronte ai
progressi tecnologici che aumentano la produttività;
-la garanzia del reddito per tutte e tutti tramite un reddito di cittadinanza slegato dalle politiche attive del
lavoro;
-un grande piano nazionale del lavoro partendo dall’assunzione di 500 mila nuovi dipendenti pubblici;
-il ripristino dell’articolo 18, l’abrogazione del jobs act e di tutte le leggi che hanno ridotto diritti, tutele e
precarizzato il lavoro;
-l’abolizione della legge Fornero e la garanzia della pensione con 60 anni di età o 40 di contributi;
-il riordino del fisco in direzione progressiva, riducendo le aliquote più basse e istituendo una tassa
patrimoniale sulle grandi ricchezze. - Radicamento, partito sociale, intersezionalità, sindacato
In questa prospettiva è necessario ricostruire un radicamento sociale del partito nei principali conflitti,
formando quadri in grado di costruire e dirigere lotte, sviluppando le pratiche di solidarismo conflittuale, che
ricostruiscano il tessuto sociale popolare drammaticamente devastato dalle politiche liberiste. Negli anni
scorsi, il lavoro sul partito sociale è stato un elemento di innovazione significativa, che non ha però
caratterizzato, come sarebbe stato possibile, il profilo complessivo del partito. A partire dall’analisi di
esperienze molto positive che sono state sviluppate su questo terreno, sia dal partito comunista austriaco che
dal PTB belga, si impegna la Direzione Nazionale a fare un bilancio di quanto realizzato, per riprogettarle in
modo più efficace.
Nella ricostruzione del nostro lavoro sociale, riteniamo assolutamente necessario utilizzare un approccio
intersezionale. Si tratta cioè di riconoscere che, oltre allo sfruttamento di classe, esistono altri sistemi di
oppressione (legata al genere, al colore della pelle, etc.) e che questi sistemi di oppressione si sommano, si
intersecano colpendo in più modi la stessa persona. Questo approccio intersezionale, da un lato ci permette
di cogliere nella sua complessità il sistema di sfruttamento e di discriminazione superando una concezione
economicista della classe; dall’altro ci aiuta a riconoscere la stretta relazione che deve esistere tra diritti sociali
e diritti civili e a combattere ogni separazione tra il piano del riconoscimento dei diritti delle minoranze e il
piano della costruzione dell’unità della classe. L’approccio intersezionale, che permette di coniugare i diversi
aspetti collettivi ed individuali dello sfruttamento, è indispensabile per la ricomposizione della classe, in
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quanto supera l’idea che l’unità si possa costruire solo tra eguali, così come l’idea che ogni differenza debba
portare a percorsi separati di emancipazione. La lotta di liberazione è per noi un percorso di rispecchiamento
e di riconoscimento, che apre la strada alla lotta collettiva contro tutti i dispositivi di oppressione.
Nella riorganizzazione del conflitto sociale importantissima è la questione sindacale.
Alle sconfitte subite e alla conseguente perdita di potere contrattuale è corrisposta l’affermazione, nelle
organizzazioni sindacali maggioritarie, tra cui purtroppo anche la Cgil, di logiche e schemi concertativi, che
hanno compromesso l’autonomia e l’indipendenza del sindacato. Le stesse regole che governano i diversi
aspetti della “democrazia sindacale” sono diventate largamente deficitarie e compromesse dal prevalere di
logiche burocratiche e verticistiche. Per contro, esistono oggi una miriade di sigle sindacali, talvolta veri e
propri settori di classe organizzati, certamente conflittuali ma spesso poco rappresentativi, anche a causa di
un’accentuata tendenza alla frammentazione e, talvolta, di un settarismo identitario che rischia di dividere la
classe.
In questa situazione, noi pensiamo, come Lenin, che i comunisti devono “lavorare assolutamente dove sono
le masse” per far crescere l’autonomia e l’unità della classe.
Quindi, le comuniste e i comunisti operano nei sindacati e nelle realtà in cui si è presenti per far crescere un
punto di vista di classe, le lotte e l’autorganizzazione.
Come comunisti e comuniste, abbiamo dunque il compito di indicare, per i/le compagni/e che operano nel
sindacato, contenuti e linee di lavoro unificanti, al di là delle appartenenze sindacali, da verificare
costantemente nel rapporto con le lavoratrici ed i lavoratori.
Nei sindacati confederali e nella Cgil la nostra iniziativa è volta alla ricostruzione di un sindacato di classe,
democratico e conflittuale, sulla base di una chiara linea di opposizione alla logica concertativa, alle tendenze
alla moderazione salariale e all’illusione nefasta che alla cessione di salario e di diritti possano corrispondere
maggiore occupazione e sicurezza.
Alle/ai tante/i compagne/i che militano nei sindacati di base indichiamo come prioritaria l’iniziativa per l’unità
contro la frammentazione delle sigle – della stessa classe lavoratrice – e riteniamo importante la costruzione
di forme di coordinamento degli iscritti e delle iscritte che operano dentro i sindacati.
Va proseguito lo sforzo del partito per ricostruire le condizioni organizzative e politiche per rilanciare
l’intervento sui temi e nei luoghi di lavoro, con l’obiettivo centrale di costituire gruppi di lavoro e intervento
di iscritti e simpatizzanti, in prospettiva anche circoli, a tutti i livelli, regionale, di federazione, di settore o di
grandi aziende, indipendentemente dal sindacato di appartenenza; organismi politici di riferimento per il
partito, con il compito di indagare in profondità la “condizione lavorativa”, produrre analisi sul nuovo mondo
del lavoro e sulle strategie, costruire le campagne e verificare le proprie proposte.
Dobbiamo avviare un capillare lavoro d’inchiesta, al fine di ricostruire condizioni di lavoro, coscienza di sé,
aspettative e tutta la complessità e le articolazioni del mondo del lavoro.
Va analizzata a fondo la crisi del lavoro salariato che riguarda non solo più la sua riproduzione, il lavoro in
temini quantitativi, ma il rifiuto del lavoro salariato in quanto tale, che si esprime non nella forma della lotta
collettiva, ma con l’uscita individuale che nel mondo sta assumendo dimensioni di massa.
Occorre indagare attraverso lo studio e l’inchiesta sulle ricadute e i cambiamenti prodotti dall’applicazione
delle tecnologie digitali, dell’intelligenza artificiale e della connettività sulla produzioni e sulla gestione delle
filiere, sull’uso capitalistico della tecnologie, per ristrutturare le aziende espellendo lavoratrici e lavoratori,
per aumentare il comando, il controllo e lo sfruttamento nella fabbrica digitalizzata e connessa, con la
diffusione dello smart working e nelle piattaforme digitali, dove il lavoro è ridotto a mera prestazione anonima
e milioni di lavoratori, disponibili 24 h su 24, sono resi invisibili.
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- Valorizzare le reti sociali
Il fatto che il principale partito di “opposizione”, il PD, sia inservibile per costruire una alternativa politico-
elettorale che prosciughi la palude in cui si abbevera e prospera la destra fascistoide, non significa che non si
possa avere una politica delle alleanze verso altri soggetti e di allargamento del fronte di lotta.
Esiste nel Paese un tessuto militante ancora assai diffuso. Stiamo parlando di centinaia di migliaia di persone
che contribuiscono a tenere in vita il tessuto democratico e solidale. Le decine di migliaia di persone che la
vertenza GKN – gestita con rara intelligenza e lungimiranza – oppure la lotta contro il TAV in Val di Susa, quella
contro il Ponte sullo Stretto di Messina hanno mobilitato e portato in piazza più volte, ci parlano di questo.
Di ciò fa parte anche la rete militante del sindacalismo di base, che è andata via via allargandosi, pur non
essendo stata in grado di unificarsi. Inoltre, per rimanere al sul terreno delle organizzazioni di base, vi è una
importante realtà di comitati, associazioni e comunità locali, che si muovono sui temi più disparati,
dall’ambiente alla solidarietà internazionale passando per la difesa del welfare, la tutela dei diritti sociali e
civili, la difesa del territorio.
Vi è poi il vasto mondo delle organizzazioni storiche, dalla CGIL all’ANPI, all’ARCI, che, nella pluralità di posizioni
e di ruoli, contribuisce alla tenuta del tessuto sociale, pur nella fortissima presa che esercita la costrizione
bipolare.
Sul piano direttamente politico, sia il Movimento 5 stelle che, in qualche misura, AVS vivono una
contraddizione reale tra i contenuti che propongono e la alleanza con il PD nel sistema bipolare. Una parte
degli stessi votanti del PD non si riconosce nelle scelte generali di questo partito.
Abbiamo quindi una situazione che non è pacificata o normalizzata, in cui vi è un grande tessuto di attivismo
sociale, che però fatica a trovare un comune denominatore e a incrociare quella metà di popolazione italiana
che non ritiene più che la politica possa essere lo strumento attraverso cui cambiare le cose. Non a caso
l’associazionismo gode di un consenso sociale – a partire dai non votanti – incomparabilmente più alto di
quello di cui godono i partiti e anche i sindacati.
Esiste dunque una potenzialità a cui dobbiamo guardare con grande attenzione, alla quale avanzare una
proposta politica chiara, in grado di interagire positivamente con le contraddizioni in essere, aggregando forze
e favorendo il protagonismo sociale.
- Per i diritti dei /delle migranti e per l’unità di classe
L’Europa di Maastricht, nell’attuare le politiche neoliberiste, ha usato strumenti potentissimi per cambiare i
rapporti di forza fra capitale e lavoro, per i/le proletarie europei/e, con la precarizzazione del lavoro e l’assalto
allo stato sociale; per i/le migranti la costruzione di una legislazione nazionale ed europea (in Italia la Legge
Turco-Napolitano e poi la Bossi Fini) permette un intervento sul mercato del lavoro funzionale alle esigenze
dell’impresa e determina una divisione netta fra la classe operaia locale e un crescente esercito di riserva di
proletari/e, condannato alla illegalità, a disposizione delle mafie, del lavoro nero, della tratta sessuale: la
nuova schiavitù. Questa divisione della classe che mette le parti in competizione è la struttura su cui cresce la
narrazione della Fortezza Europa che difende le sue frontiere, il leitmotiv della Lega e delle destre europee,
che aggrega nella guerra di civiltà parti dell’elettorato moderato incalzato dal sentimento di paura e di perdita.
Il processo migratorio è originato prevalentemente dall’azione devastatrice del capitalismo estrattivista e dal
cambiamento climatico, ma soprattutto dalle guerre, quelle provocate dalla Nato e dagli Usa nella ex-
Iugoslavia, in Irak, in Afghanistan, in Siria, dalle repressioni seguite alle primavere arabe.
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La linea politica del PRC sui migranti è ben rappresentata da pratiche di solidarietà attiva, in prima fila nei
movimenti per la difesa dei diritti dei/delle migranti. Questo fronte di lotta, democratico, dell’uguaglianza
dell’accoglienza, ha dato occasioni di grandi mobilitazioni unitarie e campagne sostenute da forti richiami
etici.
Rimane fermo il nostro impegno a lottare per la chiusura dei CPR, contro la criminalizzazione delle ONG che
salvano i naufraghi, contro il cinico allungamento delle rotte delle loro navi per un porto sicuro, contro i
respingimenti collettivi, contro l’esternalizzazione in Albania delle strutture di raccolta di migranti. Dobbiamo
contrastare le logiche securitarie, del decreto Minniti del 2017, del Decreto Cutro del 2023, che si riflettono
nella disumanità del DDL sicurezza, là dove si fa divieto di vendere una SIM a chi non ha permesso di
soggiorno.
Mettiamo in campo anche una serie di obiettivi parziali, per abbreviare l’ottenimento della cittadinanza e per
darla subito alla seconda e terza generazione.
È anche il momento di progettare percorsi che concretizzino momenti di unità di classe
1) collegando i migranti fra di loro mettendo in comune storie dei singoli, dei popoli, delle lotte anticoloniali;
2) intervenendo sul lavoro dei migranti con permesso di soggiorno, che dipendono dal suo rinnovo, sono sotto
ricatto, accettano salari bassi, buste-paga false, orari stremanti. Gli omicidi sul lavoro di migranti hanno
rivelato la densità dei problemi nella riunificazione della classe: le rigide gerarchie, con le donne sempre in
posizione di doppio svantaggio e all’ultimo gradino la posizione del/della richiedente asilo. La situazione
giuridica lo/la colloca in un limbo amministrativo e la/lo rende appetibile per agenzie di somministrazione per
lavori brevi, per la catena dei subappalti per false cooperative. Le vertenze nella logistica, nella grande
distribuzione hanno dimostrato che la lotta non solo ottiene risultati ma cambia le relazioni fra lavoratori/trici
italiani/e migranti, superando quella frattura che il neoliberismo ha costruito perché i poveri lottino tra di loro
e si dimentichino del loro avversario.
- Per l’ecosocialismo
Una vera riconversione ecologica richiede una profonda trasformazione generale, che investe tutti i settori
della vita e dell’economia, cambiando il paradigma del modello di sviluppo lineare: estrazione-produzione-
consumo-scarto.
La transizione ecologica a livello nazionale, in linea con quello europeo e mondiale, si configura nel nostro
PNRR come una diluizione temporale del programma complessivo, come se la transizione fosse un
intermezzo, e non un processo da percorrere, assegnando obiettivi e tempistiche inderogabili, ovvero non
decostruisce il modello capitalistico, ma lo adegua a una sensibilità green.
Il Green New Deal prevede l’introduzione di una serie di modifiche strutturali mirate a ridurre l’impatto
ambientale dei processi produttivi attraverso una maggiore efficienza energetica e tecnologica. Si produce un
nuovo, enorme, mercato green da cui trarre profitto, a cui sottomettere le risorse naturali attraverso la loro
privatizzazione, rendendo apparentemente compatibile la conservazione dell’ambiente con il mantenimento
di alti tassi di profitto.
Questa forma di ecocapitalismo non coinvolge solo la sfera produttiva, ma anche la distribuzione delle merci
e del loro consumo e, in virtu’ di una fittizia sostenibilità ambientale, cerca un generale consenso sociale e
ideologico, da cui non sono esclusi anche alcuni degli attuali movimenti ambientalisti, che però non risolve i
problemi.
La strada per una reale riconversione ecologica, capace di scardinare le logiche capitalistiche distruttive,
fondata sull’uguaglianza e la giustizia ambientale, non può che muovere dalla necessità di abbattere ogni
forma di oppressione, di genere, di classe, di specie.
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Occorre uscire dalla visione antropocentrico/capitalistica, che subordina il pianeta e i suoi viventi al profitto
e allo sfruttamento, mettendo innanzitutto in discussione il modello di crescita infinita.
Le attuali sfide ambientali che ci troviamo ad affrontare, dalla pesante eredità del nucleare, alla progressiva
sostituzione delle energie fossili con quelle rinnovabili, alla produzione di cibo non inquinato, non possono
essere vinte attraverso microriforme e “aggiustamenti” come vorrebbe farci intendere il New Deal, o
addirittura con il ritorno all’energia nucleare, ma richiedono una radicale trasformazione dei modelli di
produzione e sviluppo a partire dall’accettazione che le risorse naturali non sono illimitate, ma un bene
comune da gestire attraverso politiche partecipate, non affidandolo ai privati.
È necessario imboccare una strada ecosocialista.
Infine occorre sottolineare come il più devastante agente inquinante è la guerra, i cui costi in termini di
impatto ambientale non sono inferiori alla distruzione, alla crisi economica, alle perdite in termini di vite
umane e risorse naturali che ogni guerra lascia dietro di sè. Il No alla guerra ha anche questo significato.
- Decostruire il patriarcato per liberare i corpi e la società
All’interno della nostra analisi non possiamo non considerare e analizzare una delle colonne portanti del
sistema capitalista in quanto tale: il patriarcato, con le sue evoluzioni e i suoi effetti sui corpi e la società. Non
si può ignorare l’oppressione insopportabile che il patriarcato esercita sulle donne e sulle soggettività altre,
costrette a forza in un ruolo produttivo e riproduttivo degradante e che nega la loro libertà.
Il patriarcato, una struttura dal punto di vista storico e sociale molto più antica di quella capitalistica (Engels,
Origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato), insieme al razzismo e all’economia schiavile, ha
disegnato il paradigma di oppressione e sfruttamento applicato dal capitale in tutti i suoi fenomeni. Le donne
sono state consegnate storicamente a un ruolo produttivo e riproduttivo, vitale per la sussistenza stessa del
capitalismo, basti pensare al modello di welfare italiano di carattere familista, costringendole in uno
stereotipo che da secoli le relega in una posizione di subalternità, tenendone sotto controllo i corpi attraverso
la violenza sessuale, economica, medica, giuridica, vanificandone spesso l’impegno politico e sociale.
L’intersezione tra questi due sistemi è ancora attuale e continua a produrre vittime attraverso l’oppressione e
lo sfruttamento di quella che è circa la metà della popolazione mondiale.
Una lettura intersezionale è necessaria.
Kimberlé Crenshaw, avvocata statunitense, introdusse negli anni 80 il concetto di intersezionalità che
evidenzia come i vari sistemi di oppressione (basati su genere, razza, classe, orientamento sessuale, disabilità)
interagiscono per generare esperienze complesse di discriminazione, non riducibili alla somma delle singole
oppressioni.
La lotta per la giustizia di genere deve essere strettamente collegata alla lotta contro il capitalismo: è questo
il concetto di “transfemminismo anticapitalista”, che considera come la struttura economica globale sfrutti
non solo le donne, ma anche gli individui marginalizzati di ogni genere e di ogni provenienza geografica,
compresi gli animali e la natura.
Occorre, quindi, ridefinire i femminismi come una lotta collettiva e rivoluzionaria che pone al centro i bisogni
e i diritti di tuttə e aspira a produrre uguaglianza.
Le donne subiscono quindi un’oppressione multipla nel mondo capitalista, partendo dal dramma della guerra
e della crisi climatica, di cui sono le prime vittime. Calandoci poi all’interno della società italiana, il peso
dell’oppressione patriarcale si fa sentire attraverso discriminazioni lavorative, sanitarie, nel mondo
dell’istruzione. Tutto ciò viene aggravato dal peso politico e culturale di una maggioranza di governo
portatrice di un’ideologia catto-conservatrice e maschilista, che sia nelle parole che nei fatti sembra voler di
nuovo relegare i corpi femminili all’interno delle mura domestiche, sotto il controllo serrato del maschio
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padrone. Non da ultimo è da considerare il problema endemico della violenza patriarcale, che culmina nel
femminicidio, ma che passa prima per la violenza verbale, la manipolazione psicologica, la violenza sessuale.
Decostruzione del partito monosessuato per costruire un partito per tuttə
L’attuale Partito della RC è un’organizzazione ingessata nelle proprie strutture, nelle proprie pratiche, nei
propri linguaggi, in un’analisi del reale di cui non si sono ancora aggiornate le chiavi di lettura. Il nostro sguardo
sul mondo è rivolto all’indietro, è necessario ora riconoscere il presente per immaginare il futuro.
Occorre una riorganizzazione dei tempi e delle modalità di relazione che finora non hanno incoraggiato nè
agevolato la piena partecipazione delle donne e delle persone queer alla vita del partito.
Un approccio intersezionale in un mondo patriarcale.
Occorre intrecciare le lotte, superando l’interpretazione binaria della società, facendo proprie le elaborazioni
dei movimenti femministi e transfemministi. In un contesto globale in cui assistiamo al progressivo
smantellamento dei diritti acquisiti nel XX secolo, il movimento LGBTQIA+ rappresenta una delle poche
eccezioni che continua a fare passi in avanti: il diritto delle persone LGBTQIA+ a godere di piena dignità in ogni
aspetto della vita, inclusi salute, istruzione, sport e partecipazione sociale.
La battaglia per i diritti delle donne e delle persone LGBTQIA+ non è separata dalla lotta per una società più
giusta e libera da ogni forma di oppressione; è, anzi, parte integrante di quel cammino verso la libertà e
l’uguaglianza per tuttə e la giustizia sociale: non sono diritti individuali, è lotta di classe!
- La centralità della comunicazione del partito
Occorre riprogettare completamente il settore di Comunicazione del partito, che deve diventare il principale
impegno della Direzione nazionale. Con ogni evidenza, oggi la comunicazione non può essere ridotta alla
trasmissione di comunicati o alla propaganda. Nella riduzione dell’informazione a manipolazione propria del
capitalismo guerrafondaio, occorre non solo commentare le notizie degli altri, ma produrre notizie, analisi,
schemi di lettura di cosa sta succedendo e nel contempo sviluppare metodi interattivi per fare inchiesta.
Occorre cioè far politica attraverso la produzione di analisi complesse, la produzione di comunicazione rapida
immediatamente utilizzabile per intercettare o modificare il senso comune ma anche costruendo canali di
ascolto sociale.
È quindi necessario interloquire con la grande quantità di intellettuali che sono in sintonia con il nostro
progetto politico al fine di far diventare Rifondazione Comunista un polo di comunicazione e informazione
finalizzato a produrre un punto di vista sul mondo. Parimenti occorre documentare le lotte e i conflitti che vi
sono, occorre farli parlare. Il capitalismo della sorveglianza, oltre a manipolare le informazioni, reprime il
dissenso, trasformando le lotte in un problema di ordine pubblico. Noi dobbiamo valorizzare le lotte,
documentarle e far parlare i protagonisti, far emergere la politicità intrinseca nei conflitti e la produzione di
soggettività che nei conflitti sempre emerge. Così come dobbiamo dar vita ad un bollettino telematico
settimanale, non per fare informazione generalista ma per comunicare le poche cose fondamentali utili a
incidere sul senso comune di massa: Un bollettino telematico, eventualmente riproducibile anche in forma
cartacea, che “dia la linea” e segnali ciò che di fondamentale vogliamo comunicare.
Dobbiamo quindi far funzionare la testa e le gambe, ma anche la voce. Dobbiamo porre al centro dell’attività
del partito la sua capacità di comunicare nelle forme rapide della società digitale e nelle forme lente della
necessità di elaborare un pensiero critico all’altezza della sfida. Occorre usare i social, ma anche costruire
forme di comunicazione autonome che non siano censurabili e manipolabili.
Il progetto di ripensamento e potenziamento complessivo della comunicazione deve costituire il più grande
impegno del partito nella prossima fase; impegniamo quindi la Direzione Nazionale a predisporre un piano
di lavoro che applichi questa decisione e che questa venga seguita contestualmente da verifiche periodiche.
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- La formazione
La formazione deve assumere un ruolo inedito nel nostro partito. In una fase di transizione così forte come
quella che stiamo attraversando, la formazione non può essere un settore di lavoro indirizzato a “chi sa di
meno” ma deve essere il modo di esistere del partito a partire dal suo gruppo dirigente.
Al di là degli elementi storici, non abbiamo oggi una conoscenza già acquisita come partito da riversare su chi
è appena arrivato. Nel contesto della guerra, in cui la produzione di falsa coscienza da parte delle classi
dominante è enorme, l’elaborazione di un sapere critico che padroneggi l’insieme dei problemi non può
essere dato per scontato e non è automatico che si generi nemmeno tra gli iscritti e le iscritte al partito.
La costruzione di un punto di vista alternativo a quello dominante deve essere il frutto di un lavoro collettivo
e non può essere affidato al caso. Il ruolo di Rifondazione Comunista, in una fase come questa, è fortemente
determinato dalla capacità di saper spiegare la realtà in termini diversi da quelli imposti dall’ideologia
dominante, al fine di poter proporre soluzioni diverse da quelle che ci propinano le classi dominanti a reti
unificate. Occorre quindi avere una formazione legata alla discussione politica come seconda pelle del partito.
Per questo la formazione deve coinvolgere tutti e tutte, occorre una formazione, intrecciata
all’autoformazione, permanente e diretta a tutti i livelli, da chi si è appena iscritto ai dirigenti nazionali, per
fornire strumenti utili a orientarsi in questo in rapido cambiamento.
Solo alcuni esempi per temi: lo stato di guerra, la modifica del quadro internazionale, l’intelligenza artificiale,
l’ingegneria genetica, la società multietnica, la crisi del lavoro salariato…
Questa formazione, oltre all’innalzamento della cultura generale del partito deve essere finalizzata alla
formazione e al funzionamento dei dipartimenti di lavoro nazionali e alle strutture dirigenti del partito sul
territorio, che, insieme, debbono formare la spina dorsale del lavoro politico del partito nazionale.
Occorre fornire strumenti per leggere da un punto di vista marxista i nuovi fenomeni che si presentano,
garantire il necessario dibattito sugli stessi e far diventare questa attività un punto fisso per il complesso dei
compagni e delle compagne, a partire dai quadri dirigenti. La rete di relazioni che abbiamo con numerosi
intellettuali e portatori di saperi sociali – iscritti/e e non al partito – ci garantiscono l’accesso ai saperi necessari
e gli strumenti telematici ci permettono di sviluppare a costo zero questa attività.
Riteniamo quindi che la Direzione Nazionale debba discutere e varare, subito dopo il congresso, un piano
di formazione permanente che abbia le caratteristiche sopra indicate. - Enti Locali e lotta per i diritti delle cittadine e dei cittadini
Nei decenni, la furia neoliberista Si è abbattuta pesantemente sugli enti locali, tagliando pesantemente gli
organici, riducendone gli stipendi, precarizzando ed esternalizzando il lavoro. Oltre a questo, consistenti tagli
ai trasferimenti diretti hanno incentivato la riduzione di servizi ai cittadini e le privatizzazioni sostenute sia dai
partiti del centro-destra che da quelli del centro-sinistra, uniti dal mito dell’efficacia ed efficienza.
Il caso più rilevante è quello della privatizzazione dell’acqua pubblica, spesso con l’affidamento a multiutility
sostenute nel Nord soprattutto da personale politico e amministrativo del Pd, che ha progressivamente
sottratto ai comuni il controllo di un bene comune reso sempre più scarso a causa dei cambiamenti climatici,
per il quale è in gestazione una nuova spinta privatizzatrice da parte del nuovo governo. Ma la stessa cosa si
può dire per altri servizi, come i trasporti e la gestione dei rifiuti.
Il Comune vede ridotto in modo significativo il ruolo di riequilibrio sociale proprio nel momento in cui milioni
di lavoratori, in particolare i giovani e le donne sole con figli, hanno salari sotto il minimo necessario, i
pensionati non arrivano a fine mese, la povertà è sempre più diffusa e in molte città è pressoché impossibile
affittare una casa. Sulla mancanza di servizi prosperano le politiche familistiche conservatrici delle destre che
sostituiscono i diritti con l’elargizione dei vari bonus, sui quali costruiscono il consenso elettorale.
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A fronte di questi bisogni, che avrebbero richiesto una maggiore apertura alle istanze sociali, la risposta è
stata l’emanazione di leggi elettorali ipermaggioritarie che hanno reso i Comuni sempre più impermeabili alla
domanda di diritti delle cittadine e dei cittadini.
A questo si è aggiunto negli anni il progressivo svuotamento dei poteri del consiglio comunale e
l’accentramento dei poteri nella figura del sindaco, cosa che ha favorito i fenomeni di corruzione in cui si sono
distinti sia le destre che il centrosinistra.
Questa situazione pone all’ordine del giorno la necessità di lottare per il ripristino della centralità delle
assemblee elettive nei comuni e negli enti locali di livello superiore per ripristinare istanze fondamentali di
rappresentanza proporzionale e democratica.
In questa situazione è chiaro che non basta costruire dei buoni programmi: è oggi più che mai necessario che
il programma venga costruito in stretta connessione con i soggetti sociali organizzati, di cui i candidati e le
candidate devono essere espressione diretta, espressione delle più diverse forme di organizzazione nei vari
terreni in cui si può esprimere la domanda di diritti, dalla casa alla scuola, agli asili nido, all’ambiente e al
territorio.
Il primo problema non è dunque quello delle alleanze, ma la costruzione delle condizioni di partecipazione
dal basso attraverso lotte, pratiche sociali e mutualistiche, vertenze sulla base delle quali costruire i
programmi, che diano voce ai reali bisogni popolari, difendano l’ambiente e i beni comuni.
Sulla base di questa ispirazione di fondo e di programmi condivisi, proponiamo a livello regionale e nelle città
medio-grandi la costruzione di coalizioni – valutando di volta in volta l’uso del simbolo del partito – che
condividano i programmi verificati nella costruzione di forti legami sociali locali e si pongano in alternativa
alle forze di centrodestra e centrosinistra che hanno sostenuto e tradotto a livello nazionale e locale le
politiche neoliberiste e di attacco ai diritti economici e sociali delle persone.
Non è quindi possibile allearsi con forze che, come il Pd, non solo hanno portato avanti a livello nazionale le
politiche neoliberiste, ma anche a livello locale si sono distinte nelle scelte privatizzatrici, nella realizzazione
delle grandi opere, nelle peggiori operazioni di speculazione edilizia, nel consumo di suolo, nella promozione
di ipermercati e di megastrutture invasive per il profitto delle multinazionali.
Nei comuni sotto i 15 mila abitanti, nei quali le leggi elettorali sono particolarmente antidemocratiche, la
presenza organizzata dei partiti spesso è nulla o molto limitata. In questi casi la nostra indicazione è la
costruzione di liste civiche non direttamente partitiche, che, esprimano un’idea di cambiamento,
un’alternativa alle politiche neoliberiste, che mettano al primo posto la tutela dei diritti e dell’ambiente e
siano radicate nella realtà locale rappresentando comitati, associazioni movimenti, forze della sinistra
alternativa, che promuovano la partecipazione e garantiscano la piena autonomia e distanza da fenomeni e
condizionamenti clientelari.
- Cambiare il modo di lavorare nel partito
L’attuale modo di funzionare del partito non valorizza che in minima parte i saperi e le competenze dei e delle
militanti e non produce sinergie in grado di moltiplicare il lavoro politico. Tolte le raccolte di firme, pochissime
volte il partito è chiamato a lavorare come un corpo collettivo. In questo modo le poche forze tendono a
disperdersi in una miriade di attività poco visibili e poco incidenti sulla realtà del Paese. Occorre superare
questo modo frammentato di funzionare, in cui ognuno agisce artigianalmente, per costruire
un’organizzazione che valorizzi al massimo le poche ma preziose forze militanti e che sia attrattive di nuove
energie.
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Il punto fondamentale su cui operare è la costruzione dei dipartimenti nazionali, come strutture in grado di
produrre analisi, proposte, materiali che permettano di svolgere il lavoro politico sui territori e materiali di
comunicazione facilmente diffondibili. I dipartimenti inoltre si debbono occupare di diffondere le buone
pratiche che avvengono sui territori o in determinati settori.
In altri termini, proprio a partire dalla nostra debolezza, dobbiamo promuovere e valorizzare i dipartimenti
nazionali come motori e facilitatori del lavoro politico sui territori. Dobbiamo aggregare attorno al lavoro dei
dipartimenti i compagni e le compagne disponibili, gli intellettuali che si occupano del tema in questione ed
essere produttori di iniziativa politica diffusa. Per non fare che un esempio, una campagna contro la guerra,
le spese militari e l’austerità, necessita di un dipartimento che funzioni, produca materiale, analisi, proposte
di iniziativa e tutte le cose che abbiamo citato poco sopra; la stessa cosa per fare una campagna contro le liste
d’attesa in sanità e così via in tutti i settori.
Riteniamo quindi indispensabile che la Direzione nazionale, subito dopo il congresso, decida i dipartimenti
di lavoro, ne fissi l’orientamento di massima da verificare periodicamente e decida di volta in volta le
campagne nazionali da agire come partito tutto, anche al fine di ricostruire una visibilità ed una
riconoscibilità della proposta politica di Rifondazione Comunista.
- Il rinnovamento generazionale
Occorre attuare con determinazione il passaggio generazionale nei punti apicali dell’organizzazione che era
già stato deciso allo scorso congresso. Si tratta di un problema di presentazione del partito, di immagine
complessiva, ma si tratta anche di adeguare il suo modo di funzionare e di comunicare alle nuove generazioni.
Se vogliamo rilanciare il tema del comunismo come prospettiva necessaria per dare un futuro all’umanità,
questo messaggio deve essere comunicato da chi oggi si misura con i problemi di un capitalismo distruttivo.
Il ricambio generazione è decisivo per rimettere il partito in condizioni di operare efficacemente e di
comunicare correttamente il proprio progetto politico. Questo non significa alcuna rottamazione. Abbiamo
bisogno di tutti e tutte, ad ogni livello; abbiamo bisogno di una vera discussione interna e di un vero confronto
tra posizioni politiche e tra generazioni. Ma abbiamo bisogno che questo confronto avvenga con i giovani
posti in condizione di sviluppare le loro capacità e assumere le loro responsabilità.
Valeria Allocati
Paolo Bertolozzi
Marina Boscaino
Paolo Ferrero
Mara Ghidorzi
Tonia Guerra
Cristian Iannone
Enrico Lai
Roberta Leoni
Nicolò Martinelli
Chiara Marzocchi
Dimitrij Palagi
Nello Patta
Tania Poguisch
Roberto Villani
Inizia la fase congressuale! Documento Alternativo. CPN 29/30 giugno 2024.
Uscire dal tatticismo, rilanciare Rifondazione Comunista come protagonista dell’alternativa al sistema di guerra e austerità.
La tornata elettorale europea si è conclusa con uno spostamento a destra del quadro politico. In
questo contesto si delinea il profilo politico della maggioranza di Popolari e Socialdemocratici, che
in accordo con i Liberali, eleggono Ursula von der Leyen Presidente della Commissione Europea
per il secondo mandato. Questo accordo fra centrosinistra e centrodestra europeo ha grande
compattezza sui temi della austerità, della sicurezza e del sostegno economico e militare alla guerra
contro la Russia, e una prospettiva stabile, anche perché ha a disposizione, avendole già preparate,
alleanze variabili a destra e con i verdi, con chi insomma condivide fedeltà alla Nato e appoggio
all’Ucraina fino alla vittoria. Questo scenario preannuncia oltre che la continuazione della guerra
nel cuore dell’Europa, con possibile allargamento e coinvolgimento di altri paesi, un aumento
vertiginoso delle spese militari, una politica di austerità più severa a discapito dello stato sociale in
una economia europea devastata dalla rottura dei rapporti economici con la Russia, a partire dalla
recessione in Germania. Saranno sacrifici e miseria per i popoli europei e possibile guerra.
In questo contesto occorre registrare con preoccupazione due elementi.
A) In primo luogo, l’incapacità delle forze di sinistra di proporre un orizzonte
complessivamente alternativo alla situazione attuale, a partire da una chiara strategia
contro la guerra, che si prospetta essere, per i prossimi anni, il criterio di divisione tra
forze progressiste alternative al liberismo e all’espansionismo della NATO e le forze
che in Europa come in Italia ripropongono le stesse politiche antipopolari e
guerrafondaie. E ’illusorio e mistificante dire di essere alternativi e
contemporaneamente partecipare ad alleanze elettorali con il PD.
B) In secondo luogo, la preoccupante crescita di forze di destra – tutte connotate da una
proposta politica con tendenze autoritarie ed a volte esplicitamente fasciste – talvolta
portatrici di posizioni critiche verso la guerra.
Ed è proprio questo regime bipolare che governa l’Europa, con le sue politiche guerrafondaie e di
austerità, ad avere aperto la strada e la crescita delle destre estreme.
Per questo Rifondazione deve rigenerarsi politicamente ed organizzativamente, abbandonare il tatticismo esasperato, che ne ha caratterizzato il percorso politico degli ultimi anni, e rimettere a tema la costruzione di un polo alternativo e di classe al partito della guerra e dell’austerità in Italia come in Europa.
In assenza della costruzione di questo polo, che disegni una proposta di alternativa concreta, comprensibile a livello popolare, la dialettica politica in Europa come in Italia rimarrà imprigionata tra il partito unico del sistema bipolare e le destre estreme fasciste: un disastro.
Grande è quindi la responsabilità che abbiamo di fronte, per sconfiggere questa ennesima offensiva
nei confronti dei diritti delle classi popolari a vantaggio dei ricchi e dell’industria bellica, a cui ha
spianato la strada il centrosinistra, con le sue riforme regressive, allargando il consenso alla destra
guerrafondaia e repressiva.
Pace, terra, dignità non raggiunge lo scopo per la quale era nata
Pace, terra e dignità, in quanto lista di scopo volta a creare un movimento largo e non
necessariamente delineato a sinistra, per stessa ammissione del suo fondatore e leader indiscusso
Michele Santoro, non raggiunge lo scopo prefissato del 4% fermandosi a un 2,19%, che non è
paragonabile a liste del passato chiaramente delineate a sinistra e con programmi ben più avanzati.
Una lista per la quale il partito ha compiuto grandi sacrifici e forzature, abdicando ai propri processi
democratici, in favore di linee e candidati calati dall’alto di Servizio Pubblico. Dopo aver presentato
la lista PTD come il possibile veicolo per tornare nelle istituzioni, oggi si sentono disquisizioni sul
risultato comunque positivo della lista, come se nulla fosse. La lista non è mai decollata e il dato
impietoso del voto giovanile e dei settori popolari, segnala il suo totale distacco dalle lotte sociali e
dai movimenti, soprattutto giovanili, che si sono sviluppati in questi mesi a sostegno della Palestina.
Le principali ragioni della sconfitta
In primo luogo, la lista non ha mai perseguito un profilo unitario, plurale, aperto e inclusivo verso soggettività politiche, movimenti e comitati locali contro la guerra e il liberismo. Lo stesso mancato coinvolgimento di UP nella costruzione della lista, frutto in primo luogo di una interlocuzione discontinua e dilazionata e del tutto inadeguata per costruire un percorso unitario, ha rafforzato questo tratto chiuso e autoreferenziale della lista: una lista che nasce da una rottura e non da una azione unitaria. I ritardi e la gestione fortemente personalistica della lista hanno contribuito a rafforzare un connotato ristretto della lista, senza la capacità di presentarsi come uno strumento a disposizione di vasti strati di opposizione alla guerra e al liberismo.
In secondo luogo, la lista ha affrontato il tema della guerra staccato dalle drammatiche questioni economiche e sociali, non riuscendo a interagire con i ceti popolari spinti dalle politiche neoliberiste verso l’astensione, peggio, a votare le forze della destra più estrema. Le questioni del salario minimo – – su cui abbiamo raccolto 70.000 firme – della precarietà, delle pensioni, dell’occupazione, sono rimaste completamente sullo sfondo nella comunicazione pubblica della lista. Invece di coniugare i bisogni materiali degli strati popolari con la necessità di combattere la guerra e l’economia di guerra, la lista si è mossa su un terreno etico che non ha colto per nulla la sofferenza degli strati popolari e il disagio e la voglia di cambiamento dei giovani.
In terzo luogo la lista non ha interloquito significativamente nemmeno con i movimenti sociali e per la pace presenti sul territorio. L’offerta di una candidatura non corrisponde alla proposta di costruire insieme una lista. Le stesse affermazioni sulla NATO non hanno certo dato alla lista quel mordente che era necessario per suscitare passione e celta all’interno dello stesso mondo che si oppone alla guerra a partire dalle giovani generazioni.
Il contesto attuale non deve però spingerci a soluzioni facili e di comodo, abbiamo di fronte un grande terreno su cui lavorare, ad oggi non rappresentato da alcun partito, caratterizzato dall’astensionismo e della mancanza di credibilità, per molte persone, dei due poli dominanti. A questo terreno dobbiamo avanzare una proposta credibile, che metta al centro la pace e la difesa dei diritti sociali a partire dal lavoro, con la messa in discussione di un sistema che vive dello sfruttamento dei nostri corpi, delle nostre vite e del pianeta stesso.
Rifondazione Comunista può rafforzarsi e tornare ad essere percepita come forza politica credibile solo se collocata nello spazio politico dell’alternativa, come motore che porta alla riaggregazione di classe, dei movimenti e di chi non si sente rappresentato.
Tale scopo è la natura fondante della stessa Rifondazione Comunista, altre opzioni comporterebbero il suo scioglimento di fatto, per il venir meno della natura del partito stesso e la chiusura definitiva, per molti anni, di qualsiasi opzione alternativa alle sinistre subalterne alla NATO e al fascioleghismo.
Da questa prospettiva va letta la necessità di non rompere con l’esperienza di Unione Popolare, che con tutti i suoi limiti politici e organizzativi, ha rappresentato un elemento per la ricostruzione di uno spazio politico dell’alternativa.
Il congresso per ridare senso e ruolo a Rifondazione Comunista
Il congresso deve definire in modo chiaro dove vogliamo andare, ridefinendo il progetto politico di
Rifondazione, al di là del tatticismo che ci ha caratterizzato negli ultimi anni. Un congresso che abbia uno spazio reale per la discussione dei circoli, in modo che il corpo del partito, troppo spesso interloquito solo per raccogliere le firme, possa dire la sua e decidere comunemente del nostro futuro.
E’ indispensabile rimettere all’ordine del giorno i compiti difficilissimi che ci attendono: la tenuta e il rilancio del Prc a partire dal massimo impegno per il tesseramento 2024, della sua credibilità messa gravemente in crisi, del suo insediamento politico e sociale e la necessità della riaggregazione di classe e sociale. Si tratta di un compito politico ed organizzativo su cui concentrare le nostre energie da subito, curando il radicamento sociale, le relazioni con i movimenti sociali, evitando adesioni a progetti di altra natura, che lederebbero l’autonomia politica del partito. Il Congresso deve essere posto nella possibilità di decidere sul futuro, evitando di essere posto dinnanzi a fatti compiuti: dallo scioglimento o congelamento di UP all’adesione a nuovi quanto indefiniti progetti politici.
Riteniamo pertanto che il prossimo congresso debba intrecciarsi con un rilancio dell’iniziativa politica del partito e pertanto il CPN impegna tutto il partito:
- A contribuire a rafforzare e allargare lo schieramento democratico che si oppone alla autonomia differenziata e alla introduzione del premierato, a partire dalla nostra posizione politica contro ogni autonomia differenziata, contro il maggioritario e il presidenzialismo, per la difesa della Costituzione. Essere unitari non significa essere sussunti nel centrosinistra. Il modo con cui il Tavolo contro ogni autonomia differenziata ha saputo lavorare e unire posizioni diverse, non rinunciando a chiarire le responsabilità del centro sinistra nella modifica dell’art. V della Costituzione o nel tentativo di dar vita concretamente al percorso dell’autonomia differenziata, è il metodo con cui dobbiamo affrontare questi percorsi unitari contro le destre, a cui saremo chiamati a livello nazionale e nei territori. Lotta comune nella chiarezza dei contenuti e delle prospettive politiche non coincidenti.
- A costruire lotte, vertenze, relazioni sociali e politiche e proposte sugli elementi materiali crescenti di sofferenza sociale (pensioni, salari, sanità, casa) e giovanile, come i movimenti per il clima e i diritti civili, oggi fortemente sotto attacco come per esempio il diritto all’aborto, con l’obiettivo di intersecare queste lotte e rivendicazioni, come l’esperienza della GKN ci ha insegnato. Il centro sinistra costruisce un’opposizione parziale, che di fatto marginalizza questi obiettivi, che invece sono decisivi per la costruzione dell’alternativa,
per il radicamento sociale e per il superamento della passività e del disincanto. Costruire la connessione tra uscita dalle politiche di austerità e lotta contro le spese militari, la NATO e le politiche di guerra è un punto decisivo di questa iniziativa che ponga al centro la difesa delle condizioni di vita e di lavoro degli strati popolari. - A intrecciare in tutti territori la costruzione del conflitto sociale, della lotta per la democrazia e la partecipazione, con la proiezione nelle istituzioni di una proposta politica alternativa ai poli politici esistenti.
- Al rilancio e allo sviluppo della campagna per il salario minimo garantito sviluppata nell’ambito di Unione Popolare col nostro decisivo contributo, da continuare a portare avanti come Partito, così come delle campagne referendarie della CGIL.
- A riprendere la costruzione di un ampio movimento popolare per la pace, che tenga insieme la lotta contro la guerra con quella alle sue conseguenze economiche sui ceti popolari mettendo a valore e connettendo tutte le soggettività politiche e di movimento, a partire dagli studenti, che nelle università lottano per la fine del genocidio in Palestina e per la rottura della collaborazione con le Università Israeliane, da chi fa la campagna
per il boicottaggio dei prodotti palestinesi, a quanti si spendono per il disarmo, la tregua in Ucraina, la lotta per l’uscita dalla NATO, le associazioni di volontariato . Per questo vogliamo far vivere e costruire la parola d’ordine della mobilitazione e dello sciopero generale contro la guerra. - A contrastare il DDL Nordio sulla sicurezza che criminalizza le azioni di lotta dei movimenti sociali.
La lotta contro il tratto fascistoide ed autoritario del governo non può essere confinata negli ambiti scelti dal centro sinistra: la nostra lotta per la democrazia deve essere a tutto campo.
Il CPN impegna in particolare la Direzione Nazionale a predisporre un piano concreto ed operativo di ristrutturazione della comunicazione del partito. La nostra capacità comunicativa è infatti del tutto inadeguata rispetto ai compiti che abbiamo e questo nodo non può essere ulteriormente dilazionato. Giovanna Capelli
Mara Ghidorzi
Nando Mainardi
Riccardo Gandini
Inizia la fase congressuale! Documento approvato dal CPN 29/30 giugno 2024.
Il Comitato Politico Nazionale ringrazia tutte le/i militanti del partito che hanno dato il loro contributo nella campagna elettorale europea con la consapevolezza che la lotta per la pace per le/i comunisti è il terreno prioritario nel momento in cui un capitalismo sempre più finanziarizzato affronta le sue contraddizioni con una “guerra mondiale a pezzi” in continua escalation che ci pone di fronte al rischio sempre più concreto di conflitto nucleare.
PACE TERRA DIGNITA’
Il risultato della lista PACE TERRA DIGNITA’ è certo insoddisfacente dato che non è stato raggiunto il quorum e anche per le aspettative che la lista per la pace aveva suscitato. Va però sottolineato che PTD ha ottenuto il nostro risultato migliore dell’ultimo decennio.
L’elemento essenziale di bilancio è politico: rivendichiamo di avere fatto la giusta lotta, quella per mettere al centro della discussione pubblica in Italia e in Europa la questione della guerra.
È stata una grande campagna pacifista, la più grande da molti anni a questa parte.
È stata una grande campagna contro la propaganda di guerra in tutti gli spazi mediatici disponibili e in centinaia di piazze, teatri, incontri. La lista ha portato dentro la competizione elettorale un punto di vista contro la guerra chiaro, senza sconti per chi porta la responsabilità della scelta della subalternità alla NATO e agli USA. Abbiamo invitato a disertare e rifiutare di farsi arruolare da un Occidente suprematista, neocolonialista e neoimperialista, in aperto scontro con le altre potenze. Abbiamo dato voce alla richiesta di cessate il fuoco in Ucraina, come condizione per rilanciare un programma di giustizia sociale e ambientale. Abbiamo cercato di dare voce – anche attraverso le candidature di esponenti della comunità palestinese – all’indignazione per la complicità italiana e europea con il genocidio che il governo Netanyahu sta commettendo a Gaza.
Abbiamo posto le questioni cruciali di questo momento storico di scontro sempre più diretto tra Stati Uniti/NATO e Russia, Cina e resto del pianeta mentre tutto il sistema politico-mediatico ha evitato di far emergere la drammaticità della situazione. Ci ha penalizzato il fatto che nell’ultimo decisivo mese di campagna elettorale lo schieramento trasversale a favore del proseguimento del conflitto ucraino ha preferito evitare lo scontro e la polemica con chi come noi è contro la guerra per non entrare in conflitto con il sentimento popolare.
La proposta di una lista unitaria per la pace poteva essere una grande occasione per lanciare dall’Italia un messaggio forte a tutta l’Europa. Purtroppo la resistenza delle altre formazioni politiche della sinistra alla convergenza in un’aggregazione che mettesse “la pace al primo posto” ha determinato molti mesi di stallo durante il quale il progetto avrebbe potuto crescere nel paese coinvolgendo i territori. Il rifiuto di AVS si è accompagnato alla speculare chiusura settaria di PAP che ha portato alla crisi e al blocco del progetto di Unione Popolare di cui va preso atto l’oggettivo esaurimento. Continueremo come sempre a lavorare e cooperare con tutte le formazioni della sinistra anticapitalista e antiliberista, ma è evidente che non vi sono le condizioni politiche per proseguire nella costruzione di una soggettività unitaria essendo stato manifestamente negato l’impegno per l’unità del fronte pacifista che era alla base del progetto originario di UP. E’ giusto affidare al dibattito congressuale il tema delle forme e delle modalità di relazione e dell’aggregazione della sinistra popolare, anticapitalista, antiliberista, pacifista, femminista e ambientalista.
Con Michele Santoro e Raniero La Valle, e tutte le personalità e i gruppi che hanno condiviso l’esperienza della lista, intendiamo verificare la possibilità e le modalità per proseguire le iniziative di Pace Terra Dignità come movimento contro la guerra con la convinzione che nel nostro paese e in Europa ci sia bisogno di un pacifismo che sfidi la politica irresponsabile delle classi dirigenti.
La costruzione di un largo fronte contro la guerra rimane per noi impegno prioritario in questa fase storica e continueremo a lavorare in questa direzione. Ne dimostrano la necessità la riunione del G7 che ha confermato la linea guerrafondaia dell’Occidente sull’Ucraina, contro la Cina e il sostegno a Israele. Le stesse nomine proposte dal Consiglio Europeo portano questo segno. La conferma di Ursula Von Der Leyen è la conferma del sostegno alla guerra, del riarmo come scelta strategica, della austerità e della subalternità alle multinazionali. Kallas alla autorità per la politica estera non è una scelta solo anti Putin ma anti russa, densa di revisionismo storico e di revanscismo. L’accordo tra Popolari, Socialisti e Liberali è in continuità con le pessime scelte di tutti questi anni. E la ricerca di voti in Parlamento Europeo verte già su dossier condivisi con le destre come quelli contro i migranti e i richiedenti asilo, come può contare dall’altro lato su un possibile sostegno dei Verdi che hanno esplicitato la loro disponibilità a un ingresso formale in maggioranza. Il modello intergovernativista guarda sempre più a quella Europa delle Nazioni cara alle estreme destre che possono andare al governo se proseguono l’impegno bellico, come accaduto nell’Olanda del nuovo segretario generale della NATO Rutte.
IL RISULTATO ELETTORALE
Il dato politico inquietante delle elezioni europee è che nel nostro paese la guerra per ora non mette in crisi i partiti che la sostengono e anzi esce penalizzata una formazione come il M5S che, pur tra grandi contraddizioni e dopo aver votato per l’invio di armi, ha assunto una posizione per la pace. È evidente che persino nella sinistra e nei movimenti più radicali, in Italia come in Europa, la guerra non si afferma come discriminante prioritaria.
È prevalso anche dentro una competizione come quella europea lo schema della contrapposizione bipolare anche se nel parlamento europeo PD e FdI, entrambi rafforzati, voteranno di nuovo insieme per la prosecuzione del conflitto con la Russia e per l’economia di guerra come “pilastro” dell’UE. È già accaduto e continua a accadere lo stesso per le scelte neoliberiste condivise per decenni a Bruxelles dai due poli come alla vigilia delle elezioni per il nuovo Patto di Stabilità.
L’elettorato continua a essere diviso in maniera bipolare con spostamenti all’interno delle stesse ma senza grandi spostamenti.
Il governo di destra ha portato a una crescita, in cifra assoluta oltre che percentuale, di tutte le formazioni dell’area “progressista”, tranne il M5S che ha perso 2 milioni di voti, e a un’avanzata del PD e ancor più notevole di AVS. Si tratta di un dato politico con cui non possiamo non confrontarci perché c’è una domanda popolare di unità contro la prepotenza della destra e AVS si va affermando come il soggetto politico a sinistra che elegge e che per questa ragione viene ritenuto credibile nello spazio della rappresentanza.
Il risultato clamoroso non porta purtroppo il segno politico del no alla guerra ma quello del rafforzamento della linea di Bonelli e Fratoianni che mai hanno aperto un minuto di scontro col PD sul tema. Il fatto che questo successo sia stato ottenuto soprattutto grazie al consenso raccolto da due candidature dal profilo radicale come quelle di Mimmo Lucano e Ilaria Salis non modifica il fatto che il risultato rafforza la linea di quella formazione e la sua scelta di mettere al primo posto sempre e comunque l’alleanza subalterna col PD.
Ben altro sarebbe stato il segno dei risultati se ci fosse stata una lista unitaria per la pace. Potevamo avere una lista contro la guerra al 10% e non c’è stata, non certo per responsabilità nostra che l’abbiamo proposta per mesi accogliendo l’appello di Santoro e La Valle che non implicava la scomparsa o l’invisibilità delle formazioni politiche esistenti ma semplicemente l’assunzione di un comune impegno contro la guerra.
L’astensione altissima continua a testimoniare una crisi democratica profonda e il crescente distacco delle classi popolari dalla politica. Si tratta, almeno per la sinistra che non rinuncia a costruire un progetto di trasformazione sociale, della principale emergenza perché proprio i soggetti più penalizzati dalle politiche neoliberiste tendono alla passivizzazione, alla spoliticizzazione e alla non partecipazione. Non è possibile ricostruire una sinistra di classe di massa senza la ripoliticizzazione delle classi popolari, la ricostruzione di una cultura conflittuale e solidale, la ripresa delle lotte e dell’azione collettiva. Senza una rottura esplicita con l’agenda dei governi neoliberisti degli ultimi decenni non si riconquista la credibilità necessaria presso le classi popolari e tra lavoratrici e lavoratori.
Nelle elezioni amministrative si è confermata una ripresa del centrosinistra e anche una fisiologica maggiore affluenza al voto che comunque è molto al di sotto del passato. Il rarefarsi della nostra presenza organizzata ha fatto sì che in molti comuni non fossimo presenti come accade ormai da anni. Alcune esperienze molto positive però segnalano che una linea radicale ma non settaria e un’articolazione delle scelte nei differenti territori hanno prodotto risultati significativi. Le coalizioni con il M5S (a cui PAP ha opposto sempre in UP una contrarietà di principio e che anche nel nostro partito erano state contrastate) hanno condotto alla vittoria in tre comuni toscani (Borgo San Lorenzo, Rosignano Marittima, Calenzano) e a San Giovanni Rotondo (Fg). Sono da registrarsi anche affermazioni delle liste del partito con il nostro simbolo in comuni delle regioni un tempo rosse, da Poggibonsi a Granarolo. A Firenze la nostra coalizione alternativa ai poli ha eletto un consigliere che potrà proseguire l’opposizione al sistema di potere del PD. A Giulianova (Te) una lista unitaria della sinistra in alternativa ai poli è riuscita a eleggere due nostri compagni superando il 10%. A Rapallo una lista di UP ha ottenuto un grande risultato. A Bari pur non eleggendo abbiamo contribuito al primo turno a una coalizione che ha superato il 20% mantenendo la connessione sentimentale con un’area larga di sinistra. A Perugia la candidata sindaca proposta da Rifondazione ha guidato tutte le forze del centrosinistra alla vittoria contro la destra.
Il quadro che emerge dal voto evidenzia che non è possibile calare uno schema identico su tutto il territorio nazionale senza lasciare alle compagne/i dei territori la possibilità di valutare le modalità più efficaci di presentazione elettorale per incidere nella vita delle proprie comunità. Si indica comunque, la priorità alla ricerca di una coerenza credibile, a livello locale, con la nostra alternatività oggi rafforzata e ancora più necessaria al blocco unico della guerra che, anche nei territori, ripropone l’impianto neoliberista. Nel prossimo congresso dovremo discutere e approfondire la nostra posizione sugli enti locali che è unica in Europa tra i partiti del gruppo The Left e nel partito della Sinistra Europea. Ribadiamo la nostra critica della linea di AVS di internità subalterna al centrosinistra a prescindere, come si vede a Napoli con la trasformazione in spa dell’unica azienda dell’acqua effettivamente pubblica in Italia, a Roma con l’inceneritore, a Milano con l’immobiliarismo di Sala. Non possiamo però contrapporre la semplice reiterazione di una posizione di alternatività di principio che non tenga conto dei contesti locali e che spesso ci pone nelle condizioni di non essere nemmeno in grado di presentarci. Dobbiamo maggiormente recuperare quel carattere corsaro che all’autonomia e alterità rispetto al centrosinistra univa anche la capacità di incalzarlo e contendergli l’egemonia almeno su una parte della società e della sinistra.
UN’ESTATE DI MOBILITAZIONE DEMOCRATICA E ANTIFASCISTA
La possibile vittoria del RN di Marine Le Pen in Francia suscita la preoccupazione di tutte le antifasciste e gli antifascisti in Europa. Non pare però preoccupare settori del capitale che la sostengono e parte dell’establishment neoliberista che apertamente indica nel programma economico-sociale del Nuovo Fronte Popolare il pericolo principale.
Nel ribadire il nostro impegno nella lotta contro le destre ribadiamo che a fomentare il risorgere del fascismo sono le politiche neoliberiste e di guerra dentro il quadro della crisi della globalizzazione capitalista. Solo un antifascismo popolare, in netta rottura con le politiche antipopolari che le hanno favorite, può contrastare efficacemente le destre. Senza una rottura con il neoliberismo non si fermano le destre in Europa come dimostra l’ascesa di Le Pen grazie alle politiche antipopolari di Macron, per tanti anni punto di riferimento della classe dirigente del PD e centrista.
La lotta contro le destre e l’opposizione al governo Meloni richiede il massimo di unità ma senza perdere il nostro punto di vista critico, la nostra autonomia, la nostra linea di alternativa.
Dobbiamo in primo luogo ribadire che un fronte popolare antifascista e per la Costituzione non può accantonare l’articolo 11 e il ripudio della guerra.
E’ la logica della guerra che sta sdoganando l’estrema destra in Europa, come l’Ucraina, il governo Meloni e quello Rutte dimostrano.
Il governo Meloni e la coalizione di destra non solo hanno un’agenda antipopolare, classista, neoliberista, razzista, xenofoba, omofoba, sessista, conservatrice e reazionaria oltre che una matrice fascista che continuamente emerge. Il governo Meloni sta portando avanti un attacco che profila il definitivo stravolgimento della Costituzione, lo smantellamento dello Stato sociale, la fine dell’unitarietà della repubblica, la messa in discussione dell’indipendenza della magistratura.
Un partito come il nostro – che si autodefinisce come “il partito della Costituzione” – non può assolutamente tenere un atteggiamento di sottovalutazione della necessità della costruzione del più largo fronte unitario contro l’autonomia differenziata, il premierato, la separazione delle carriere, le leggi repressive contro lotte sociali e in generale nell’opposizione al governo delle destre.
Ribadiamo la contrarietà alla separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante e della conseguente separazione dei CSM, dunque, condurrà fin dall’ approdo del ddl in Parlamento una campagna massimamente unitaria. Un partito garantista non può tollerare che chi svolge le indagini e sostiene l’accusa sia, nei fatti, diretto dalla polizia giudiziaria dunque dall’esecutivo.
La nostra opposizione al premierato è nettissima perché rappresenta il colpo definitivo e di segno autoritario a quel che rimane della democrazia costituzionale. Sappiamo che sarà davvero difficile vincere il referendum confermativo perché tre decenni di pessime riforme istituzionali e leggi maggioritarie, di elezioni dirette dei sindaci e dei presidenti di regione, di delegittimazione del ruolo del parlamento, di mediatizzazione e americanizzazione della politica hanno preparato il terreno al colpo di grazia alla democrazia costituzionale.
Su questi terreni dobbiamo lavorare al fronte più largo possibile, con la Cgil, l’ANPI, l’ARCI, le associazioni, le reti e i movimenti e anche con i partiti del centrosinistra come con le formazioni della sinistra anticapitalista e i sindacati di base. Senza uno schieramento di questo genere non sarebbe neanche possibile raccogliere le firme in due mesi estivi per il referendum contro l’autonomia differenziata.
La nostra partecipazione al comitato promotore del referendum abrogativo della legge Calderoli rappresenta la naturale continuazione del lavoro che abbiamo condotto per anni promuovendo i comitati contro l’autonomia differenziata e il tavolo no AD con una approccio assai radicale nei contenuti ma aperto al necessario dialogo e alla cooperazione con forze assai diverse da noi. Una pratica non settaria ma rigorosa sui contenuti che ha fatto crescere dal basso e dall’esterno del parlamento la critica delle proposte di regionalismo differenziato e la consapevolezza delle conseguenze. Si tratta di una esperienza esemplare di costruzione di movimento in un contesto in cui il movimento di massa non c’era per determinarne le condizioni.
Nel paese è fortissima a sinistra e nei movimenti una legittima domanda di unità contro la destra al governo che noi dobbiamo saper cogliere senza rinunciare alle nostre discriminanti. La più larga unità è necessaria non solo per raccogliere le centinaia di migliaia di firme indispensabili per presentare il quesito abrogativo ma anche per tentare di vincere il referendum. Non dimentichiamo che la legittimazione e il via libera all’autonomia differenziata lo hanno dato dal 2001 il centrosinistra con la modifica del titolo V della Costituzione a cui solo noi ci opponemmo e poi il PD con il si ai referendum per l’autonomia e le intese di Gentiloni con le regioni del nordest a cui si è associata anche l’Emilia-Romagna. E dentro questa campagna dobbiamo imprimere un segno antiliberista forte e anche la nettezza del no a ogni autonomia differeniata rispetto ai messaggi ambigui degli esponenti del PD come Bonaccini.
Il doppio appuntamento referendario l’anno prossimo con i quesiti contro il jobs act e quello contro l’autonomia differenziata sarà nel segno non solo dell’opposizione alla destra ma anche una palese dimostrazione del fallimento delle politiche del centrosinistra neoliberista dato che i quesiti riguardano provvedimenti legislativi che hanno origine diretta o indiretta dai loro governi.
I referendum possono e debbono essere occasione per una mobilitazione politica di massa sulla via maestra della difesa e dell’attuazione della Costituzione.
Il Partito della Rifondazione Comunista lavora all’apertura di una fase nuova di movimento e lotta, per dare un orientamento di sinistra, antiliberista, anticapitalista e pacifista all’opposizione al governo Meloni.
La manifestazione nazionale di sabato prossimo indetta dalla Cgil a Latina rappresenta un momento fondamentale di lotta. La parola d’ordine dell’abrogazione della Bossi è oggi finalmente condivisa da uno schieramento largo. L’abbiamo sempre considerata essenziale dal punto di vista di una qualificazione di classe della stessa lotta antirazzista. L’omicidio di Satman Singh ha fatto riemergere la realtà della creazione di un’enorme sottoclasse di forza lavoro schiavizzata perché ricattabile attraverso norme prodotte nel clima creato dalle campagne xenofobe e razziste delle destre.
La nostra partecipazione ai Pride ieri, con lo slogan #noprideingenocide sullo striscione e le bandiere palestinesi, è tesa a respingere la strumentalizzazione dei diritti lgbtqi+ per legittimare la nuova versione della “missione civilizzatrice dell’Occidente” che viene usata per giustificare la complicità con il genocidio a Gaza. Lavoriamo per la convergenza delle lotte.
️VERSO IL CONGRESSO
L’apertura del percorso congressuale non è semplicemente una scadenza statutaria ma corrisponde a una necessità di riflessione collettiva per affrontare le difficoltà che il nostro partito vive da più di un quindicennio e il quadro nuovo che si è determinato nell’ultimo triennio sul piano internazionale, in Europa e anche nel nostro paese. E’ necessaria una riflessione strategica e un confronto costruttivo che coinvolga l’insieme del nostro corpo militante. Il percorso verso il congresso nazionale, da svolgersi entro la metà di gennaio 2025, dovrà essere accompagnato da momenti di analisi, approfondimento e autoformazione.
Il rafforzamento organizzativo, l’iniziativa politica e sociale, l’autonomia del partito hanno come condizione una cultura e una pratica unitaria al suo interno e la capacità di funzionare come intellettuale collettivo superando il correntismo che cristallizza le posizioni e impedisce un dibattito aperto sugli enormi problemi che deve affrontare una formazione anticapitalista e antimperialista in questa fase storica.
Questo CPN apre la fase congressuale e nella prossima riunione, da convocarsi entro il 20 luglio, procederà alla costituzione delle commissioni.
Il CPN impegna il partito al massimo impegno nel rilancio della campagna di tesseramento e nelle mobilitazioni che ci attendono a partire dalla manifestazione di Latina di sabato 6 luglio e nella campagna di raccolta delle firme contro l’autonomia differenziata.
(Il documento politico proposto dal segretario nazionale Maurizio Acerbo è stato approvato con 82 voti, 71 al doc. alternativo, 1 astenuto)