(articolo tratto da Transform! Italia)
In Francia, tra il 1789 e il 1792, sotto la monarchia costituzionale istituita dall’Assemblea costituente, il re Luigi XVI disponeva di un diritto di veto sulle leggi approvate dall’Assemblea. Il suo veto ad alcuni decreti ritenuti necessari dai rappresentanti del popolo per la difesa del Paese minacciato dagli eserciti stranieri condusse alla fine della monarchia ed alla sua decapitazione nel 1793.
Oggi, Emmanuel Macron, il Presidente-Jupiter (come da sua autodefinizione), ha posto il suo veto all’incarico di primo ministro per Lucie Castets, la candidata del Nouveau front populaire (NFP) che pure aveva ottenuto la maggioranza sia pure relativa dei suffragi. Dopo avere invocato il “Fronte repubblicano” (il nome francese dell’Arco costituzionale) per sbarrare l’avanzata del Rassemblement national (RN), cercato invano di dividere la sinistra, tergiversato per più di due mesi anche approfittando delle olimpiadi parigine, ha affidato l’incarico ad un esponente della destra gollista, Michel Barnier, con il beneplacito di Marine Le Pen. La sua nomina arriva, infatti, dopo le consultazioni tra l’Eliseo e la dirigente del Rassemblement national che ha scartato successivamente Bernard Cazeneuve (ex-ministro di Hollande), Xavier Bertrand (gollista, ma suo rivale diretto nella regione degli Hauts-de-France) e Thierry Beaudet, Presidente del Conseil économique social et environemental (il CNEL locale), minacciando di votare nei confronti di governi da loro presieduti una mozione di censura all’Assemblea nazionale insieme all’opposizione di sinistra (per la Costituzione francese, il governo nominato dal Presidente della Repubblica non deve ottenere la fiducia del Parlamento ma può esserne sfiduciato). Il rifiuto di Macron di accettare il responso delle urne ha dunque dato al Rassemblement national un ruolo centrale: quello di scegliere il primo ministro e di conseguenza di condizionarne il programma.
Il veto nei confronti di Castets da parte di “Jupiter il piccolo”, come viene deriso il Presidente nei cortei in analogia con il nomignolo di “Napoleone il piccolo” affibbiato da Victor Hugo a Napoleone III, nasce dal suo rifiuto del programma del Nouveau Front Populaire. Un programma che mette in discussione punti essenziali delle politiche neoliberiste portate avanti dalla compagine presidenziale negli ultimi sette anni. Un progetto politico quello della Gauche osteggiato non casualmente anche dal Medef (la Confindustria francese). Ponendo il suo veto nei confronti della volontà popolare che aveva premiato il Nouveau front populaire, il monarca ha curvato in senso ancora più autoritario l’assetto istituzionale della Quinta Repubblica. Macron ha così istituito di fatto un “Fronte antipopolare”, l’inverso del “Fronte repubblicano” e messo il governo francese sotto la tutela dell’estrema destra.
Michel Barnier, l’uomo del Patto Macron-Le Pen
Barnier è un esponente dei Républicains (LR), il partito gollista che è arrivato ad appena il 6,5% al primo turno delle elezioni legislative e l’unica formazione politica che non ha partecipato alla desistenza per ostacolare l’elezione di esponenti di estrema destra. Il Primo Ministro conta di avere con l’inquilino dell’Eliseo ciò che entrambi hanno definito una “coesistenza esigente”, neologismo che vorrebbe sostituire la vecchia nozione di “coabitazione”. Ha promesso di affrontare con priorità il problema migratorio anche prendendo provvedimenti per chiudere le frontiere. Barnier rappresenta il perfetto trait d’union tra l’estremo centro di Macron e l’estrema destra di Le Pen. La
sua carriera politica lo testimonia. Fin dal 1981 si era opposto alla depenalizzazione dell’omosessualità; nel 1982 ha votato contro il rimborso pubblico delle spese per l’aborto; dopo il voto dei francesi che avevano rifiutato la Costituzione europea nel 2005 fu una delle personalità politiche più attive per seppellire la volontà popolare con l’adozione del Trattato di Lisbona; come commissario europeo ha condotto una politica anti-immigrazione, securitaria e di stretta austerità budgetaria; ha auspicato di innalzare l’età del pensionamento a 65 anni; ha condotto un attacco all’indennità di disoccupazione dipingendo i disoccupati come degli assistiti ed ha proposto di abbassare drasticamente le tasse sulle imprese.
Nel 2022, candidato alle primarie dei gollisti per la Presidenza della Repubblica, al fine di ottenere il sostegno dei militanti più radicali, tenne un discorso violento contro i migranti e propose una moratoria da tre a cinque anni per ogni nuovo arrivo in Francia. Dunque, un ultraconservatore che proseguirà la politica liberista di Macron e quella xenofoba dell’estrema destra. Il Rassemblement national gli ha promesso di non votare una mozione di censura, almeno nell’immediato, “in attesa di conoscere le sue proposte programmatiche” che con ogni probabilità il Primo ministro starà contrattando in queste ore con Le Pen e Jordan Bardella. In sintesi, Barnier a Matignon (il Palazzo Chigi francese) rappresenta il simbolo del voto rubato al popolo francese.
In ogni caso, la crisi politica non è risolta ed il nuovo Premier non potrà dormire sonni tranquilli; da un lato incombe la redazione del bilancio per il 2025 in una situazione di estrema difficoltà, che ha visto il Paese sottoposto ad una procedura di deficit eccessivo il 16 luglio da parte della Commissione europea (il bilancio 2024 è in rosso del 5,6% rispetto al Pil), dall’altra il governo vivrà sotto la minaccia permanente di una mozione di censura. La stessa Le Pen ha avvisato che questa situazione non potrà reggere a lungo e ha pronosticato una vita breve per il governo Barnier che rimarrà sotto sorveglianza del suo partito: “comunque fra un anno si vota”, ha affermato auspicando una legge elettorale proporzionale.
L’alleanza tra il blocco borghese e l’estrema destra
Ciò che probabilmente il Presidente voleva ottenere sciogliendo l’Assemblea nazionale all’indomani delle elezioni europee era una coabitazione con un governo del Rassemblement national per “normalizzarlo” ed indebolirlo grazie alle difficoltà di una gestione governativa in una situazione sociale e finanziaria non facile, con lo scopo ultimo di sconfiggere Le Pen alle presidenziali del 2027 (per interposto candidato). Non è andata così ed adesso il RN fornisce un appoggio esterno all’esecutivo condizionandolo con la propria agenda ed i suoi riferimenti ideologici senza assumersi alcuna responsabilità diretta per le sue scelte concrete. Il Rassemblement national ha il compito di indirizzare la rabbia sociale inevitabile in questo panorama di politiche austeritarie verso i più precari (gli “assistiti”) ed i francesi di origine straniera. È la scelta della guerra civile a bassa intensità da parte dei poteri forti: non c’è da meravigliarsi, il neoliberismo è di per sé autoritario. I metodi possono essere brutali come in Argentina o più soft con l’utilizzo dei media, il controllo dei programmi scolastici ed universitari, l’individuazione di capri espiatori e così via.
In Francia, il potere macronista ha utilizzato un mix che prevede la repressione poliziesca contro i gilets jaunes, i manifestanti ecologisti o contro la riforma delle pensioni, il controllo degli organi d’informazione nonché l’impiego delle risorse istituzionali dirigistiche tipiche della Quinta Repubblica, imponendo, ad esempio, con l’utilizzo dell’articolo 49, comma 3, della Costituzione, l’innalzamento dell’età per la pensione a 64 anni senza passare per un voto del Parlamento. Per i
neoliberisti i risultati elettorali hanno conseguenze solo relative; per loro la democrazia non consiste nel rispettare il suffragio universale ma nel difendere al di là di ogni contingenza elettorale “i mercati” e le esigenze del capitale; è il “pilota automatico” celebrato da Draghi oppure come si è visto con l’intervento della Troika, sostenuto con convinzione dallo stesso Barnier, dopo il referendum greco del 2015 che aveva bocciato i diktat Ue.
Secondo il politologo Stefano Palombarini il blocco borghese e quello di estrema destra non si sono fusi (almeno per il momento) ma alleati, tenendo conto dell’indebolimento elettorale del primo tramite un riequilibrio interno all’universo neoliberista contro il nemico comune: il blocco di sinistra che si è formato intorno ad un programma di rottura rispetto alle riforme e alla visione liberista del mondo. I francesi devono dunque aspettarsi per i prossimi mesi la realizzazione di un’agenda antisociale e razzista.
La gara di velocità del Nouveau front populaire con il Rassemblement national
Il NFP è stato accusato dal raggruppamento macronista di avere la responsabilità della nomina di Barnier, avendo costretto il Presidente a questa scelta con il rifiuto di ricercare accordi con altre rappresentanze parlamentari. Un falso che serve a Macron per costruirsi un fragile alibi ma che è stato smascherato da Castets che nell’incontro avuto con l’inquilino dell’Eliseo aveva precisato che il NFP avrebbe cercato, tema per tema, accordi con le altre forze politiche ovviamente partendo dal programma presentato agli elettori. Il punto è proprio questo: negando l’incarico alla candidata della sinistra si è voluto salvaguardare le acquisizioni liberiste e pro-business.
Sabato 7 settembre, le organizzazioni studentesche e tre dei quattro partiti del NFP (assente il PS) hanno indetto manifestazioni di protesta in 130 città francesi contro il rifiuto del responso delle urne da parte di Macron. La partecipazione è stata buona (300mila manifestanti in tutta la Francia) ma forse non proprio all’altezza della posta in gioco; inoltre, la CGT ed altri sindacati hanno deciso di manifestare autonomamente il 1° ottobre. I sindacati ed i movimenti sociali nel recente passato hanno dato luogo a fortissime mobilitazioni, da quella dei gilets jaunes alle proteste contro la riforma delle pensioni, per la difesa della sanità pubblica o contro i mega bacini d’acqua richiesti dall’agro- industria, movimenti che però si sono conclusi con sostanziali sconfitte. La loro debolezza è dipesa in larga misura dalla separazione tra lotte sociali ed ecologiche e la dimensione più prettamente politico-istituzionale. I sindacati non vogliono intervenire nella sfera politica mentre le diverse organizzazioni padronali non si imbarazzano certo ad agire pienamente come attori politici.
Il Nouveau front populaire si è costituito, malgrado una non indifferente spinta dal basso, sostanzialmente come alleanza elettorale di convenienza tra i partiti della sinistra. Il Fronte dovrebbe invece offrire un quadro che investa la società civile in tutte le sue articolazioni, tutte le vittime delle politiche liberiste, i cittadini attivi, i sindacati, le associazioni, i movimenti femministi, gli attori dell’economia sociale e solidale, gli artisti, i ricercatori ed altri ancora. Se resta un accordo tra i vertici dei partiti rischia di non sopravvivere alle difficoltà del momento. In altri termini, occorre democratizzare il NFP per farne il bene comune di tutti i cittadini e le cittadine di sinistra.
Pur avendo vinto le elezioni il Nouveau front populaire è stato relegato ai margini della vita istituzionale e deve fare fronte ad un attacco massiccio da parte dei media che l’accusano di essere succube della strategia di Jean-Luc Mélenchon. L’intento è quello di spaccare il Partito socialista (PS) e di marginalizzare la France insoumise (LFI). Molte delle tattiche e delle strategie politiche dei diversi protagonisti della politica francese si spiegano avendo a mente che dal punto di vista
istituzionale le elezioni decisive sono quelle presidenziali che in teoria si dovrebbero svolgere nel 2027, ma che stante l’instabilità politica e la crisi di regime incombente potrebbero avere luogo molto prima. Certo, non si può prescindere dal rafforzamento dell’estrema destra i cui progressi sono in larga misura dovuti all’indebolimento del blocco centrista. Si è dunque instaurata una gara di velocità in vista di questa scadenza tra il Rassemblement national e la Gauche per la quale esistono, per fortuna, margini significativi di crescita.
La strategia del quarto blocco
A questo fine, la France insoumise punta sulla “strategia del quarto blocco” (la definizione è di Manuel Bompard, coordinatore nazionale di LFI) che ha già dato buona prova nelle scorse elezioni europee e legislative. Se TUTTI i sondaggi (ben 27!) alla vigilia delle elezioni dell’Assemblea nazionale davano vincente il Rassemblement national con più di 300 seggi allorquando ne ha realizzato “soli” 142, la spiegazione va ricercata non soltanto nella realizzazione di un Fronte anti- RN, ma anche in una visione distorta delle dinamiche elettorali. Partendo da un’analisi rigorosa dei risultati delle elezioni presidenziali e legislative del 2022, al seguito delle quali il campo politico si è organizzato in tre blocchi di importanza simile (il blocco popolare del NFP, un blocco liberale che unisce i macronisti con quello che rimane della destra (i gollisti), un blocco di estrema destra) e constatando che i passaggi degli elettori tra i vari blocchi sono ridotti (con eccezione di quelli dal centro all’estrema destra), si desume che il Nouveau front populaire per raggiungere la vittoria deve convincere i componenti del “quarto blocco”, tutti quelle e quelli che non partecipano più alle elezioni e che rappresentano una parte significativa del popolo francese: tra un terzo e la metà del corpo elettorale.
L’astensione non è distribuita uniformemente tra la popolazione, sia tra le fasce reddituali che tra le generazioni (Thomas Piketty e Julia Cagé). Negli anni tra il 1960 ed il 2000 la partecipazione elettorale era più importante tra le classi a basso reddito che tra i ceti più agiati, mentre oggi accade il contrario. Si trattava del voto operaio in favore del Partito comunista francese (PCF). All’epoca, la mobilitazione dei ceti popolari avveniva sulla base di un progetto politico chiaro e radicale di trasformazione della società. Questa progettualità è dunque una delle chiavi importanti della strategia del quarto blocco. Analisi dettagliate (tra le quali quelle di Tristan Haute e Maxime Champion) hanno dimostrato che una parte significativa di questo quarto settore dell’elettorato è più vicino al blocco popolare che agli altri raggruppamenti per quanto concerne le proprie rivendicazioni politiche sui salari, il welfare, l’ambiente oppure l’indennità di disoccupazione.
Certo i risultati elettorali del PCF in quegli anni erano anche la traduzione concreta di una presenza militante e di un radicamento del partito nelle banlieues. A questo scopo la France insoumise ha scelto di utilizzare strumenti nuovi come le carovane popolari, i referenti di condominio, i porta a porta per, in particolare, sollecitare l’iscrizione nelle liste elettorali (non automatica in Francia) e ha moltiplicato le azioni di solidarietà concreta, alimentare e scolastica. Da qui l’orientamento verso messaggi radicali e di rottura con il quadro neoliberista e il sistema politico-mediatico.
Nel corso delle elezioni europee del 2024, una consultazione che ha spiccate caratteristiche censitarie e coinvolge di solito quasi esclusivamente i ceti urbani agiati, la France insoumise è riuscita, applicando questa strategia, ad ottenere un milione di voti in più rispetto al 2019. La lista capeggiata da Manon Aubry ha ottenuto più del 30% tra i giovani di 18-24 anni e risultati straordinari nei comuni tra i più poveri del Paese: ad esempio, 56% a Garges-lés-Gonesse, 53% a
Stains, 50% a Saint-Denis o 42% a Vénissieux. Si è realizzata in quell’occasione una forte correlazione tra il voto a LFI, l’aumento della partecipazione nonché le iscrizioni alle liste elettorali. Basti pensare che il 50% degli elettori tra i 18 ed i 24 anni ha votato per il Nouveau front populaire alle legislative ed il 43% di questa categoria non è andata a votare; ossia 10 punti percentuali in più rispetto alla media della popolazione. Parallelamente, il NFP ha ottenuto i suoi migliori risultati tra le categorie più precarie (35% di coloro che guadagnano meno di 1.250 euro hanno votato per il NFP) ed anche questa frazione della popolazione si è astenuta nella misura del 43%. In altri termini, se i più giovani ed i più poveri fossero andati a votare come la media della popolazione, il Nouveau front populaire avrebbe sconfitto il Rassemblement national al primo turno e ottenuto al secondo turno una maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale.
È prevedibile che la delusione del popolo francese lascerà presto il posto alla rabbia. Il 7 settembre scorso alla manifestazione parigina, Mélenchon ha chiamato ad una lotta di lunga durata, affermando che se Macron vuole una prova di forza alla lunga “il popolo sarà il più forte”. Oggi nessuno vuole la ghigliottina per Macron come fu per Luigi XVI, se non in senso metaforico, ma “Jupiter” sarà costretto a scendere prima o poi dall’Olimpo ed a sottomettersi alla volontà popolare.
Alessandro De Toni