NO ALLA GUERRA,
PER UN MONDO NUOVO
PER UNA COALIZIONE POPOLARE CONTRO LA GUERRA, IL LIBERISMO, IL FASCISMO
INDICE
PRIMA PARTE
- CONTRO LA GUERRA IMPERIALISTA, PER UN MULTIPOLARISMO COOPERATIVO
- Socialismo o barbarie
- La deriva distruttiva del capitalismo e la crisi della globalizzazione
- Hanno frammentato il movimento operaio per dominare senza ostacoli
- Ideologia per colonizzare l’immaginario, repressione per passivizzare i corpi
- Il mito dell’Occidente e le sue contraddizioni
- La guerra non è un destino obbligato
- Ci sono le basi materiali per la trasformazione
- LA CRISI ITALIANA NEL FALLIMENTO DELL’UNIONE EUROPEA
- L’espulsione delle masse e della Sinistra dalla politica
- La forza della Destra
- Il pericolo della destra fascista e il capitalismo securitario
- Le contraddizioni della Destra
- Per sconfiggere le destre, fare come Melenchon
- Lo stato di guerra peggiora la situazione
- Le potenzialità del Mezzogiorno
- La condizione giovanile
SECONDA PARTE
- UNA COALIZIONE POPOLARE CONTRO LA GUERRA, IL LIBERISMO, IL FASCISMO
- La nostra proposta
- RIPROGETTARE E RILANCIARE IL PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA
- Per un bilancio della nostra storia
- Compiti e priorità per il partito
- Il rilancio del comunismo
- Il radicamento sociale
- Radicamento, partito sociale, intersezionalità, sindacato
- Valorizzare le risorse sociali
- Per i diritti delle/dei migranti e per l’unità della classe
- Per l’ecosocialismo
- Decostruire il patriarcato per liberare i corpi e la società
- La centralità della comunicazione del partito
- La formazione
- Enti Locali e lotta per i diritti delle cittadine e dei cittadini
- Cambiare il modo di lavorare del partito
- Il rinnovamento generazionale
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Il testo che qui presentiamo non è definitivo ma un testo di lavoro. Non rappresenta il punto di arrivo ma
il punto di partenza che vogliamo discutere e migliorare nell’ascolto delle compagne e dei compagni del
partito. Siamo interessati a sapere cosa ne pensate al fine di poterlo precisare e migliorare.
Camminare domandando continua ad essere la nostra stella polare.
NO ALLA GUERRA, PER UN MONDO NUOVO
PER UNA COALIZIONE POPOLARE
CONTRO LA GUERRA, IL LIBERISMO, IL FASCISMO
Il XII Congresso Nazionale del Partito della Rifondazione Comunista si svolge in una fase di sconvolgimenti
globali, caratterizzata dalla guerra, dall’acuirsi delle contraddizioni capitalistiche, dalla crisi della
globalizzazione neoliberista, dall’emergere contrastato di un nuovo mondo multipolare, da un confronto–
scontro tra il nord e il sud del mondo.
Le dinamiche complessive, proprie di un capitalismo che si è fatto mondiale, non sono per noi “politica estera”
ma ci aiutano a capire e danno il segno della situazione nazionale in cui operiamo. Questa impostazione, che
ha caratterizzato tutta la storia di Rifondazione Comunista – dalla piena partecipazione al movimento
altermondialista, al protagonismo nella costruzione della Sinistra Europea, alle relazioni storiche con i
movimenti di liberazione di tutto il mondo – è oggi più che mai necessaria. Lo stato di belligeranza e l’economia
di guerra, che ormai plasmano le politiche dei governi occidentali, che a loro volta aggrediscono i diritti e le
condizioni di vita delle masse popolari, sottolineano una volta di più la correttezza di questa impostazione.
Il progetto politico di Rifondazione Comunista può e deve essere rilanciato dentro questo scenario generale:
con i piedi ben piantati nella situazione italiana, nelle comunità locali, nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole,
nella lotta di opposizione al governo delle destre; e con la testa alta, lo sguardo diretto a cogliere le dinamiche
generali. Riprendendo l’impostazione del movimento comunista sin dalla sua nascita, il nostro essere contro
la guerra e contro l’economia di guerra, che distruggono il welfare e impoveriscono le classi popolari, diventa
oggi il punto focale della nostra proposta politica.
La condizione per fare efficacemente politica in Italia, per riprendere una
connessione sentimentale con la nostra gente, è quella di collocarsi in modo chiaro
rispetto alle dinamiche generali, in modo da poterne combattere efficacemente, pur
con tutti i nostri limiti, gli effetti negativi che stanno sconvolgendo le vite delle
persone. Nel momento in cui l’Occidente, sotto l’egemonia statunitense, dichiara
una guerra di civiltà e si fa “nazione combattente”, noi proponiamo di costruire in
modo chiaro e coerente la più ampia coalizione popolare contro la guerra, il
liberismo e la distruzione dell’ambiente, il fascismo: le diverse facce, tra loro
strettamente connesse, di questo capitalismo in crisi, che ha assunto un carattere
distruttivo ferocemente antipopolare che dobbiamo sconfiggere per dare un futuro
all’umanità.
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PRIMA PARTE
1.CONTRO LA GUERRA IMPERIALISTA, PER UN MULTIPOLARISMO COOPERATIVO
- Socialismo o barbarie
La guerra e il rischio di un suo allargamento distruttivo caratterizzano l’ora presente. A questo si
accompagnano il collasso ambientale, l’aumento delle povertà, l’insicurezza sociale e l’aumento delle
diseguaglianze, la drastica riduzione degli spazi democratici.
Questi aspetti sono tra loro profondamente intrecciati e stanno già producendo effetti drammatici, giorno
dopo giorno, sulle condizioni di vita di milioni di persone. Non stiamo parlando solo di Gaza, dove il governo
Israeliano – con la fattiva collaborazione dei governi occidentali – sta praticando un vero e proprio genocidio
ai danni del popolo palestinese.
Stiamo parlando di come lo stato di guerra permanente, oltre ai morti e feriti e ai rischi dell’olocausto
nucleare, produca giorno dopo giorno l’aumento delle spese militari e la riduzione dei diritti sociali, l’aumento
dello sfruttamento e delle povertà, una spaccatura del mondo che a sua volta alimenta il clima e i rischi di
guerre.
La devastazione ambientale non solo metterà in discussione la sopravvivenza dell’umanità sul pianeta ma già
oggi sta determinando sofferenze e migrazioni bibliche, creando milioni di profughi e a sua volta alimentando
il clima di guerra.
L’allargamento delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico, lungi dal produrre benessere, porta
al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di larghissima parte della popolazione ed in generale alla
precarizzazione complessiva dell’esistenza umana.
In altri termini, si ripropone qui ed ora l’alternativa – evidenziata oltre un secolo fa da Rosa Luxemburg – tra
socialismo e barbarie. - La deriva distruttiva del capitalismo e la crisi della globalizzazione
Questa situazione è il frutto delle dinamiche di fondo e delle contraddizioni che caratterizzano lo sviluppo
capitalistico odierno.
La globalizzazione neoliberista ha dialetticamente determinato, con l’affermarsi di nuovi attori globali, il
progressivo emergere di un multipolarismo che si è manifestato dapprima sul piano economico, poi
tecnologico-militare ed ora anche finanziario. Questa tendenza multipolare ha determinato una modifica dei
rapporti di forza a livello mondiale e un aumento dei conflitti intercapitalistici e delle tensioni economiche,
finanziarie e militari.
Di fronte al rischio di perdere la leadership mondiale e la posizione di rendita imperialistica che questa
determina, le classi dominanti statunitensi hanno reagito in modo molto determinato a tutti i livelli:
economico, tecnologico, militare, finanziario, culturale Abbiamo così visto il centro di comando capitalistico
statunitense passare da una impostazione liberoscambista ad una politica fondata sul protezionismo e sulle
sanzioni, che ha determinato la crisi della globalizzazione. Parimenti, sul versante ideologico, l’impianto
globalista è stato sostituito dallo scontro di civiltà sia sul piano culturale che materiale.
Sul piano militare, gli Stati Uniti – che hanno la maggior spesa militare e la più grande presenza nel mondo di
basi all’estero – hanno scelto la strada della guerra permanente mondializzata e stanno fomentando guerre
con Russia e Cina, considerate i principali nemici.
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Con la guerra permanente, le barriere protezioniste e le sanzioni, le elites statunitensi puntano a indebolire
le potenze nemiche e, nell’immediato, a dividere il mondo in due, impedendo la nascita di un vero
multipolarismo. Parallelamente, operano per ripristinare un pieno controllo sulla propria parte di mondo,
compattarlo militarmente e ideologicamente, ridurre gli spazi di democrazia e porre in essere meccanismi
predatori suoi propri alleati, al fine di difendere la propria posizione di privilegio e confermare per la propria
leadership mondiale.
- Hanno frantumato il movimento operaio per dominare senza ostacoli
Per impedire ai popoli di riconoscere e quindi di perseguire le potenzialità positive di un multipolarismo
solidale, le classi dominanti hanno innanzitutto operato per frantumare la classe operaia multinazionale che
si era costituita in Occidente dando vita al ciclo di lotte degli anni ‘60/’70, base materiale delle esperienze
socialdemocratiche.
Questo peso politico e sociale del movimento operaio è stato considerato insopportabile dalle classi
dominanti, che – a partire dal rapporto sulla crisi della democrazia voluto dalla Trilateral Commission nel 1975
– hanno operato per distruggere non solo la forza ma la nozione stessa di movimento operaio. È superfluo
fare la storia di questa aggressione politica al “nemico interno”, come la Thatcher chiamava i minatori
britannici: la distruzione della densità sociale e politica del tessuto proletario fondato sull’apparato industriale
è stato il punto fondamentale dell’offensiva di classe dagli anni ‘80 in avanti ed è all’origine della stessa
apertura della globalizzazione neoliberista voluta dall’amministrazione statunitense.
Questo processo è stato accompagnato dalla costruzione di una nuova antropologia sociale, fondata
sull’individualismo e sull’autonomia del singolo: classe operaia, padroni, borghesi, interessi collettivi, pubblico
sono parole fatte scomparire in nome di una modernità capitalistica fondata sulla massima concorrenza tra
individui.
La frantumazione dei corpi sociali collettivi, unita alla distruzione della credibilità di ogni ipotesi socialista e
comunista, ha impedito la crescita di un soggetto collettivo in grado di riconoscere la crisi del capitale e di
progettarne il superamento: la guerra tra poveri ha sostituito la lotta di classe.
La “fabbrica della paura” ha generato individui angosciati e soli, incapaci di reggere le contraddizioni e gestire
la rabbia, compatibili con la violenza, con la sopraffazione, con la guerra. - Ideologia per colonizzare l’immaginario, repressione per passivizzare i corpi
Le classi dominanti hanno posto in essere una enorme azione ideologica che non ha pari nella storia
dell’umanità. Sempre il potere ha usato narrazioni di comodo – l’ideologia dominante – al fine di confermare
i rapporti sociali dominanti, ma mai ha avuto una tale necessità di mistificare la realtà, di produrre falsa
coscienza.
La produzione dell’immaginario, il condizionamento degli stili di vita, la spiegazione pseudoscientifica dei
fenomeni sociali ed economici, la gestione delle notizie non sono mai stati così concentrati nelle mani di
multinazionali, le quali detengono un potere inaudito, la proprietà e la gestione di dati importantissimi e reti
attraverso le quali esercitano pericolose forme di controllo e traggono profitto dall’uso spregiudicato delle
piattaforme digitali, dal “lavoro” inconsapevole e involontario di milioni di persone.
Questa capacità pervasiva di colonizzare l’immaginario, la produzione di senso e l’informazione è resa
necessaria proprio dall’enormità del compito che queste elites si sono poste: negare l’attualità e la maturità
del comunismo per imporre una visione del mondo che riproduca catene che oramai sono inutili e dannose
non solo per gli sfruttati ma per l’umanità intera. Ne è un esempio paradigmatico la narrazione della scarsità
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economica con cui è stata giustificata ogni politica di austerità. È completamente falsa, in quanto oggi il
mondo non ha alcuna scarsità economica, anzi la ricchezza non è mai stata così grande. La favola della scarsità
è stata creata ad arte per nascondere l’enorme diseguaglianza nella distribuzione del reddito e per fomentare
la guerra tra i poveri, l’atomizzazione sociale, il razzismo, fino ad arrivare alla guerra di civiltà. Oggi la
situazione di guerra, con la divisione del mondo in amici e nemici, facilita ulteriormente la manipolazione
della realtà. Il mantenimento di questo poderoso paraocchi ideologico è una priorità per i padroni; il suo
abbattimento è una priorità per le comuniste e i comunisti.
Accanto alla manipolazione delle coscienze abbiamo poi la repressione di chi non si sottomette alla narrazione
dominante. Questa va dalla repressione soft, propria della censura – che l’uso dei social ci segnala
quotidianamente – alla caccia alle streghe e alla gogna mediatica contro le opinioni controcorrente, fino ad
arrivare alla repressione del conflitto sociale vero e proprio di cui è esempio il DDL Sicurezza, che mira a
criminalizzare e reprimere. La tendenza allo stato di sorveglianza e la riduzione della democrazia a finzione,
la manipolazione dell’informazione e la repressione delle opinioni difformi e delle lotte danno il senso di
questa azione di fondo delle classi dominanti occidentali. Sono aspetti intrecciati di costruzione
dell’immaginario funzionale alla marginalizzazione del diverso, dipinto come pericolo sociale.
Manipolazione dell’informazione e repressione del conflitto sociale, militarizzazione della società, costruita
sulla presunta necessità di sconfiggere un nemico, sono le due facce del capitalismo della sorveglianza in cui
siamo immersi.
Questo intreccio è sempre più stretto proprio perché la riproduzione del sistema non è garantita dal suo
funzionamento materiale, che – al contrario – apre contraddizioni tali da evidenziare la possibilità e la
necessità di una modifica radicale delle forme di organizzazione sociale.
Da questo punto di vista, lo Stato Israeliano, al di là dei suoi aspetti specifici, tende ad assumere le sembianze
di un modello di gestione sociale che può diventare un punto di riferimento per il mondo occidentale: identità
nazionale forte intrecciata con una vera e propria militarizzazione della società, costruita sulla necessità di
sconfiggere un nemico, che viene completamente spersonalizzato nella repressione e fatto oggetto di
apartheid nella normalità quotidiana, il tutto con una decisa marginalizzazione del dissenso.
- Il mito dell’Occidente e le sue contraddizioni
La situazione attuale è quindi connotata, strutturalmente, da una potenzialità oggettiva, da una maturità di
condizioni su cui fondare la trasformazione sociale e da una difficoltà soggettiva relativa alla coscienza e ai
rapporti di forza tra le classi.
Dopo aver distrutto l’immaginario legato alla lotta di classe, che aveva nel ‘900 strutturato la forza e la
coscienza popolare, dopo aver ridotto ogni soggettività ad atomo competitivo, oggi le classi dominanti
giocano una nuova carta, quella della costruzione di una nuova identità collettiva post-classista. Nel contesto
della guerra di civiltà permanente emerge così, con forza, il tema dell’Occidente, dell’identità occidentale
attorno a cui le classi dominanti cercano di costruire una nuova identità popolare. L’Occidente viene
presentato come aggredito e quindi noi occidentali dobbiamo difendere i valori, gli stili di vita e i nostri
interessi occidentali: l’Occidente come nuova patria diventa l’icona sacra per cui occorre essere disposti a
morire, tutti uniti contro il nemico comune.
Il tentativo di nascondere le differenze di classe è insito nel dominio capitalistico, ma qui abbiamo un passo
in più: la costruzione di una nuova identità, fondata a partire dallo stato di guerra. Non è la prima volta che le
classi dominanti puntano ad una operazione egemonica di questa natura: pensiamo all’ondata nazionalista
che si scatenò in tutta Europa nell’epoca della prima guerra mondiale; ricordiamo che il nascente movimento
operaio e socialista non resse allo scontro con l’ideologia e la pratica nazionalista e militarista. Nonostante il
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movimento operaio fosse tutto pacifista, allo scoppio della guerra solo i bolscevichi e piccole minoranze in
altri paesi seppero resistere alla forza della propaganda e della pratica bellicista: la parola d’ordine dello
sciopero generale contro la guerra – deciso ufficialmente dalla Seconda Internazionale – venne abbandonata
in un battere di ciglia.
Lo stato di guerra odierno viene presentato come la risposta obbligata all’aggressione che stiamo subendo
dall’esterno e viene utilizzato per inventare una inesistente “identità occidentale”, finalizzata ad arruolare i
popoli occidentali nella crociata contro il resto del mondo.
Su questo terreno si costruisce una inedita convergenza tra il campo della destra identitaria e quello del
centrosinistra, uniti nei fatti dalla teorizzazione della superiorità occidentale, da preservare anche attraverso
la guerra e l’aumento delle spese militari.
Noi siamo quindi chiamati a costruire la lotta politica per il socialismo in un contesto in cui – proprio perché
ve ne sono le basi materiali – l’ideologia dominante nega in ogni modo e a reti unificate la possibilità del
cambiamento e non riconosce la legittimità della lotta per l’alternativa,trattando come “traditore della patria”
chi cerca di costruirla.
- La guerra non è un destino obbligato
In Occidente, la guerra e lo scontro di civiltà vengono presentati come un destino ineluttabile, come una
drammatica necessità, fondata sulla difesa degli interessi e dello stile di vita occidentale, dei “valori” dei
popoli occidentali.
Si tratta di una mistificazione: da un lato gli interessi dei popoli occidentali non coincidono e anzi divergono
da quelli delle elites dominanti; dall’altro, proprio i rapporti sociali capitalistici consolidati, che hanno perso
ogni “spinta propulsiva”, sono il principale ostacolo al dispiegarsi di possibili processi positivi e si presentano
come un vincolo distruttivo per l’umanità.
Non si tratta però di un destino obbligato perché – dialetticamente – lo stesso sviluppo capitalistico ed il
protagonismo dei popoli e dei paesi del Sud del mondo hanno posto le basi per un suo superamento. Si tratta
di far entrare come protagonisti in questa contesa i popoli del Nord del mondo ed in particolare quelli europei,
che possono fare la differenza per evitare la guerra, conquistare l’indipendenza dagli Stati Uniti e costruire un
mondo multipolare cooperativo. - Ci sono le basi materiali per la trasformazione
Siamo quindi in una fase di crisi degli assetti capitalistici mondiali, con rischi pesantissimi per il futuro
dell’umanità, ma anche con opportunità di trasformazione positiva: compito dei comunisti e delle comuniste
è operare – a partire dal proprio paese – per la pace, la giustizia sociale, il rispetto dell’ambiente, lo sviluppo
della democrazia, la libertà, la cooperazione internazionale.
Vediamo tre esempi.
-Nel mondo sta emergendo con forza un nuovo multipolarismo, in cui una pluralità di centri capitalistici e
nazioni pongono il problema di confrontarsi alla pari, superando la situazione di dominio unipolare esistente.
Si tratta di un fatto positivo per l’umanità, a cui le elites dei paesi occidentali, in particolare quella degli Stati
Uniti, si oppongono, cercando di riprodurre il proprio dominio imperialista a partire dall’esercizio del potere
finanziario e militare, puntando, nell’immediato, a spaccare il mondo in due: da questo deriva la tendenza
alla guerra e il rischio della terza guerra mondiale.
Questo significa che, per avere un mondo di pace e cooperazione, sia sufficiente sconfiggere il tentativo
statunitense di ripristinare il suo dominio a partire da un mondo bipolare? Certo che no!
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È infatti evidente che, se il multipolarismo è cresciuto sulla base dello sviluppo capitalistico fondato sul libero
scambio e ci ha portato a questa situazione di guerra, non è una soluzione che questo prosegua
semplicemente sugli stessi binari liberoscambisti, com’è successo fino alla crisi della globalizzazione.
È necessario che la sconfitta delle classi dominanti occidentali si accompagni allo sviluppo di un
multipolarismo fondato sulla cooperazione, sull’equilibrio degli scambi, sulla giustizia sociale e quindi divenga
produttore di pace.
Riteniamo che il multipolarismo rappresenti un passo in avanti rispetto all’unipolarismo imperialista o al
mondo spaccato in due, ma non produca di per sé pace ed equilibrio. Apre però un nuovo terreno di lotta di
classe a livello mondiale, in cui noi dobbiamo sostenere l’obiettivo di un multipolarismo cooperativo, che
superi la guerra economica organizzata. Le proposte dei BRICS di dar vita ad una moneta di scambio
internazionale che non coincida con la moneta di alcuno Stato rappresenta un passo positivo in questa
direzione. Il superamento del WTO e la ridefinizione in senso cooperativo degli organismi e delle regole che
presiedono al commercio mondiale non solo rappresentano l’obiettivo per cui si è battuto il movimento
altermondialista, ma hanno oggi maggiore forza materiale su cui poter poggiare la propria realizzazione. In
questo contesto.
La costruzione di un largo movimento contro la guerra e la rivendicazione dell’indipendenza dell’Europa
dagli Stati Uniti sono elementi decisivi per fermare il delirio guerrafondaio e porre le basi di una positiva
trasformazione sociale, in Europa e nel resto del mondo.
- L’enorme aumento della produttività del lavoro permetterebbe finalmente all’umanità di fuoriuscire dalla
situazione di penuria che ne ha largamente caratterizzato la storia. Com’è avvenuto nel secondo dopoguerra,
questo aumento di produttività dovrebbe essere accompagnato da una distribuzione più equa della ricchezza,
da una riduzione dell’orario di lavoro e da un complessivo ripensamento dell’organizzazione sociale in senso
progressivo. Al contrario, le classi dominanti stanno utilizzando la debolezza del movimento operaio per
imporre la completa precarizzazione del lavoro ed un drastico allungamento dell’orario di lavoro nell’arco
della vita lavorativa. Un fatto assolutamente positivo come la riduzione del tempo di lavoro socialmente utile
a produrre i beni necessari all’umanità viene rovesciato nel suo contrario, al fine di continuare a sfruttare il
lavoro umano.
La costruzione di un movimento di opinione e sociale per una radicale riduzione dell’orario di lavoro a parità
di salario, la rivendicazione di un salario minimo e l’abolizione della precarietà sono tre elementi decisivi
per sviluppare positivamente questa opportunità. - Stesso discorso vale per la questione della salvaguardia della natura e dell’ecosistema. Il disastro ambientale
prodotto dall’allargamento del capitalismo va affrontato superando questo modo di produzione e di consumo.
Ad esempio, è del tutto evidente che il possesso individuale di quella specifica merce che si chiama
automobile (poco importa se a benzina o elettrica) non può essere la strada per soddisfare il bisogno di
mobilità di 9 miliardi di persone. Al contrario, si persevera nel tentativo di soddisfare ogni bisogno umano
attraverso processi predatori di mercificazione, perfino del vivente e dei beni naturali: il biocapitalismo si
propone come un nuovo, enorme, mercato green. Il consumo di risorse e l’impoverimento della biodiversità
proseguono in modo dissennato, rendendo impossibili la soluzione della crisi ambientale e l’arresto del
cambio climatico.
La rivendicazione di una reale transizione ecologica, guidata dal pubblico al di fuori dei vincoli del mercato,
finalizzata al soddisfacimento dei bisogni e non alla produzione di merci, che non incida negativamente
sulle condizioni di vita degli stati popolari, è la nostra proposta.
In altre parole, l’umanità vive il disastro della guerra e dello sfruttamento nonostante vi siano tutte le
condizioni oggettive per una realtà di pace e il superamento dello sfruttamento.
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2.LA CRISI ITALIANA NEL FALLIMENTO DELL’UNIONE EUROPEA
- Per l’indipendenza dell’Europa
La crisi europea, figlia dell’ideologia neoliberista, costituzionalizzata nei trattati da Maastricht a Lisbona, è
stata ulteriormente accentuata dalla scelta di guerra che ha caratterizzato questi ultimi anni. Alle restrizioni
del Fiscal Compact e del pareggio di bilancio inserito in Costituzione, oggi si sommano una enorme spesa
militare – a scapito della spesa sociale e degli investimenti – e il sistema delle sanzioni alla Russia, che si
ripercuote negativamente in primo luogo sull’Europa.
Mentre con il Next Generation EU il ricorso al debito comune aveva fatto intravedere qualche possibilità di
ripensamento sull’indirizzo della UE, la scelta di entrare in guerra contro la Russia ci porta in una vera e propria
fase di declino. La rottura delle relazioni economiche con la Russia e le sanzioni alla Cina costituiscono infatti
un enorme fattore di crisi dell’apparato industriale tedesco e italiano, sia dal punto di vista dell’aumento dei
costi che dal punto di vista della riduzione di sbocchi di mercato.
La scelta di rendere l’Unione Europea completamente subalterna ai voleri degli USA e della NATO ha nei fatti
dissolto ogni parvenza di Europa politica: l’asse franco-tedesco è dissolto e gli USA governano la UE sia
attraverso il rapporto stretto con i paesi dell’Est che attraverso il peso che hanno sui governi dei tre paesi
maggiori, Germania, Francia, Italia.
In questo quadro è aumentata l’influenza politica e culturale delle destre xenofobe e razziste, cresciute grazie
alle politiche neoliberiste; parallelamente, i governi si muovono all’unisono verso un supernazionalismo
europeo, guerrafondaio verso l’esterno, autoritario, sicuritario e reazionario al proprio interno.
Il Piano Draghi, a sua volta, utilizza i disastri creati dalle politiche di austerità e successivamente
guerrafondaie, di cui è stato protagonista diretto, per proporre una via di uscita che si fonda su una ulteriore
distruzione del welfare, in cui la spesa sociale viene sostituita da una enorme spesa militare, di cui Draghi
magnifica le ricadute produttive. Questo viene proposto in linea con l’applicazione del nuovo patto di stabilità,
con il quale il vincolo del debito viene utilizzato per imporre agli stati una nuova austerità e con il sostanziale
rinvio della riconversione ecologica, subordinata ai tempi e alle convenienze delle imprese.
È la definitiva sepoltura del modello europeo, in direzione di uno stato di guerra fondato sull’impoverimento
della popolazione e sulla riproposizione di ricette neoliberiste, ad unico vantaggio dei creditori. Si disegna per
l’Europa un ruolo del tutto subordinato al capitale statunitense, che sta saccheggiando il vecchio continente
per mantenere i propri privilegi.
La nuova situazione ci parla quindi dell’irriformabilità di questa Unione Europea, che, dopo aver
costituzionalizzato il liberismo, è oggi diretta nei fatti dalla NATO.
Contro questa Unione Europea è necessario porre in primo piano l’indipendenza dell’Europa dagli Usa.
Occorre, nel contempo, costruire un movimento a scala nazionale ed europea contro la guerra, le politiche
liberiste, le politiche monetarie e fiscali collegate, il pareggio di bilancio in Costituzione, per disobbedire ai
trattati che la governano; per una nuova Europa che metta al centro la riconversione sociale ed ambientale,
la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, un salario minimo orario europeo, il rilancio e la
riqualificazione dell’welfare; per un’Europa democratica sottratta all’influenza delle oligarchie capitalistiche,
in cui tornino a contare i parlamenti, oggi espropriati dai tecnocrati, dagli esecutivi e da organismi non eletti
dai cittadini; per lo sviluppo di una area euromediterranea che assuma la funzione di cerniera nei confronti
del bacino mediterraneo.
Su questa prospettiva, di opposizione all’Unione Europea, alle sue scelte liberiste e guerrafondaie, e sulla
necessità di costruire un movimento di massa per l’indipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti, riteniamo sia
possibile e necessario anche rilanciare la Sinistra Europea, che vive oggi una profonda crisi.
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- La nostra storia recente
Passando ad analizzare più specificatamente la situazione del nostro Paese, la cosa che emerge con maggior
nettezza è che l’Italia conferma le tendenze generali e per certi versi le ha anticipate e vissute.
Sul piano sociale, il punto decisivo è stata la dissoluzione della classe operaia che era stata protagonista
dell’intero ciclo di lotta successivo alla seconda guerra mondiale. Le grandi fabbriche sono state smantellate
attraverso una opera di ristrutturazione e decentramento produttivo che ha grandemente frantumato il
mondo del lavoro. A questo processo si è accompagnato un vero e proprio processo di deindustrializzazione,
che in Italia si è accompagnato ad un processo di svendita del patrimonio industriale – che oramai non vede
più alcuna grande impresa avere la propria sede in Italia – mentre si è dilatato un sistema di piccole e medie
imprese che non investono su innovazione e ricerca, basato su produzioni a basso valore aggiunto, bassi
salari, lavoro precario e senza diritti.
Frantumazione del mondo del lavoro e indebolimento strutturale di un apparato produttivo dalle molte crisi
e dalle incerte prospettive, si sono accompagnati alla scelta di abdicare ad ogni sovranità monetaria a partire
dall’inizio degli anni ‘80 con l’autonomia e poi la privatizzazione della Banca d’Italia. In questo modo, il debito
pubblico italiano è stato posto integralmente nelle mani degli speculatori – che lo hanno gonfiato a dismisura
– ed è diventato la principale arma di ricatto per comprimere ogni richiesta sociale relativa al welfare: “i soldi
non ci sono”.
A ciò si è aggiunta l’azione dei governi “tecnici”, di centrodestra e di centrosinistra, che si sono distinti per
un’intensa attività legislativa, spesso senza una vera opposizione dei sindacati, finalizzata a smantellare i
diritti, privatizzare e subordinare il pubblico alle logiche d’impresa, deregolamentare il lavoro per ricondurlo
docile e sottomesso sotto il comando del capitale.
Dall’abolizione della scala mobile, all’attacco alle pensioni, all’introduzione e poi generalizzazione della
precarietà, alla privatizzazione del collocamento, fino all’abolizione dell’articolo 18 , cardine dello statuto dei
diritti dei lavoratori, è senza fine l’elenco delle leggi finalizzate a ridurre i salari e le pensioni e a rendere il
lavoro totalmente ricattabile e assoggettato all’impresa, in cui i governi di centrodestra, non meno che quelli
di centrosinistra, si sono distinti in adesione al pensiero unico neoliberista, al primato del privato e del
mercato, al dogma della flessibilità e della concorrenza, all’austerità e ai vincoli dettati da Commissione
Europea e Bce.
Il risultato è che la condizione dei lavoratori in Italia ha raggiunto livelli di degrado neanche immaginabili in
un passato non molto lontano. Bassi salari, precarietà, part time obbligato, lavoro grigio e nero hanno creato
un esercito di milioni di lavoratori, soprattutto lavoratrici e giovani, che sono poveri pur lavorando.
Disoccupazione e diffusa precarietà li costringono ad accettare lavori sottopagati con scarse tutele e livelli di
sfruttamento insopportabili, che, insieme alla mancanza di controlli e di investimenti sulla sicurezza da parte
delle imprese, sono all’origine della catena senza fine di morti sul lavoro e per il lavoro.
I salari delle lavoratrici e dei lavoratori italiani a tempo pieno sono tra i più bassi d’Europa.
Riguardo all’occupazione, la realtà del Paese è molto diversa da come viene raccontata dalla retorica del
governo, che considera nel novero degli occupati milioni di precari, di neet e ignora l’enorme tasso di
inattività che coinvolge un terzo della popolazione.
Milioni di persone sopravvivono senza una pensione dignitosa, aumenta la povertà che colpisce in modo
particolare i giovani e le donne.
A ciò contribuisce il drastico ridimensionamento del welfare e di tutta la sfera pubblica, impoverita nelle
strutture e nel personale, in gran parte precarizzato; la sanità è al collasso; scuola e università, sempre più
subordinate alle imprese, non riescono a garantire il diritto allo studio per milioni di giovani, tra i quali si
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registrano tassi di dispersione scolastica tra i più alti d’Europa; le amministrazioni pubbliche non riescono a
garantire i servizi minimi.
Su questa base sociale ha potuto dispiegarsi un’offensiva ideologica non meno pesante. Oggetto dell’offensiva
neoliberale sono stati l’idea stessa che esista la lotta di classe, che svolga una funzione positiva per superare
le ineguaglianze e soprattutto che questa possa portare ad una trasformazione sociale che superi i limiti del
capitalismo. Su questo piano, i risultati sono stati enormi: da un lato la decisione della maggioranza del gruppo
dirigente del PCI di smantellare il più grande partito comunista dell’Occidente per dar vita ad un partito
liberale moderato e di distruggere il sistema elettorale proporzionale; dall’altra la scelta del sindacato
confederale di trasformarsi in sindacato della concertazione e dei servizi. Questa vera e propria resa
all’avversario di classe da parte della maggioranza del gruppo dirigente del movimento operaio si è poi saldata
con una grande campagna anticomunista di cui sono stati protagonisti non solo gli anticomunisti di sempre
ma soprattutto gli ex comunisti appena diventati liberali. Lo sdoganamento dei fascisti è venuto in questo
contesto e il revisionismo storico prodotto sulla vicenda delle foibe ha rappresentato la vera e propria ciliegina
sulla torta.
È bene aggiungere che questa campagna ideologica non si è limitata a scardinare il movimento operaio
organizzato ma ha forgiato una nuova antropologia sociale, fondata sulla centralità dell’impresa,
sull’individualismo sfrenato ed in generale sul dipingere l’Italia come una paese allo sfascio, che sta in piedi
per miracolo dopo lo strapotere sindacale; e quindi che nessuna rivendicazione può essere soddisfatta perché
gli imprenditori finirebbero fuori mercato e lo stato a gambe all’aria. La dissoluzione dei legami sociali e la
diffusione di un senso di rabbiosa impotenza sociale è stata costruita anche dipingendo l’Italia come un paese
allo sbando.
- L’espulsione delle masse e della Sinistra dalla politica
Dal bipolarismo vengono espunti gli interessi delle classi subalterne, dando vita al gigantesco fenomeno
dell’astensionismo, vera e propria forma di reazione di strati popolari che non si sentono più rappresentati sul
terreno istituzionale. Parimenti, vengono espunte le politiche socialiste per condannarle alla marginalità e
all’autoreferenzialità.
Il bipolarismo è la forma istituzionale a parvenza democratica dell’Occidente. L’alternanza che origina dal
bipolarismo non è la premessa per l’alternativa ma la negazione strutturale e strategica di ogni cambiamento
sostanziale, di ogni alternativa reale. L’alternanza serve a costruire una contrapposizione teatrale, che occupi
tutto lo spazio della politica, puntando ad assorbire le istanze che chiedono il cambiamento e a impedire che
si aggreghi una proposta alternativa dotata di massa critica sufficiente. L’alternanza serve a cambiare i colori
del “pilota automatico”, senza che ne vengano messe in discussione le decisioni di fondo.
Sul piano politico, lo scenario richiama la situazione che si viveva in Italia nell’800, prima della nascita dei
partiti e delle organizzazioni del movimento operaio, in cui un sistema elettorale fondato sul censo dava
origine a rappresentanze parlamentari di destra e sinistra, ma entrambe espressioni degli interessi delle classi
dominanti. Oggi siamo ritornati ad una situazione simile, con un bipolarismo istituzionale e mediatico,
suggellato da un tasso di astensionismo enorme, che riguarda soprattutto le classi popolari.
Non si tratta però solo di un fatto istituzionale: registriamo una situazione in cui le classi subalterne sono state
sconfitte socialmente, cancellate ideologicamente, espulse dal sistema politico e non hanno ad oggi strumenti
validi per ricominciare ad esprimersi collettivamente e a difendere i propri interessi sul piano politico. La
nostra esperienza in maggioranza con i 2 governi Prodi ha segnalato in modo indelebile che il centro-sinistra
è nel suo complesso impermeabile alle istanze sociali di cui siamo portatori (pensiamo alla decisiva vicenda
delle 35 ore). Il PCI, dall’opposizione, ha cambiato il Paese molto di più di quanto noi siamo riusciti a farlo
partecipando a maggioranze parlamentari.
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Mentre la Prima Repubblica era un terreno di mediazione della dialettica sociale e politica, possibile base per
una democrazia progressiva in cui si poteva puntare a realizzare il dettato costituzionale attraverso riforme di
struttura, la Seconda Repubblica, caratterizzata dalla legge elettorale maggioritaria – voluta dal PDS di Achille
Occhetto – e dal pareggio di bilancio in Costituzione – introdotto dal governo Monti e votato in regime
bipartisan – è stata costruita con il preciso scopo di renderla impermeabile ed estranea agli interessi delle
classi popolari. La metà della popolazione che non va a votare non è un fenomeno di qualunquismo
individuale ma la principale domanda di riforma dello Stato e della politica, a cui i comunisti e le comuniste
debbono rispondere per poter riprendere i fili della trasformazione sociale, oggi tranciati.
Il tema della rappresentanza politica dei/lle comunisti/e e delle masse popolari non può quindi porsi al di
fuori di un percorso di riforma della politica e di messa in discussione del ruolo che le classi dominanti le
hanno oggi assegnato. Il superamento delle leggi elettorali maggioritarie, del bipolarismo e dei fondamenti
regressivi della Seconda Repubblica è quindi un nostro obiettivo politico centrale.
- La forza della Destra
La Seconda Repubblica ha costituito il contesto in cui è cresciuta la forza della destra.
La destra italiana, inventata da Silvio Berlusconi, nasce sin da subito – e per prima in Europa – come destra
che ingloba i fascisti e la loro tradizione. All’inizio, questo avvenne in forma contraddittoria, ma il clima
bipartisan anticomunista e di revisionismo storico – pensiamo alla vicenda delle foibe e dei combattenti di
Salò – ha determinato la legittimazione pubblica dei fascisti e modificato conseguentemente il profilo della
destra stessa.
La legittimazione della destra fascista è quindi andata avanti di pari passo con la delegittimazione della
Resistenza da cui è nata la Costituzione repubblicana, che non a caso è stata fatta oggetto di manomissioni, a
cominciare dalla modifica del titolo V, votata nel 2001 dal centro-sinistra, per proseguire con il tentato scasso
costituzionale voluto nel 2016 da Renzi, allora segretario del PD – e sconfitto nel referendum – fino all’attuale
tentativo di scardinamento del governo Meloni.
La destra, quindi, è cresciuta non per un improvviso rigurgito fascista della maggioranza del popolo italiano,
ma in sintonia con il contesto culturale e istituzionale della Seconda Repubblica – fortemente voluta dal PDS - in palese contrapposizione con la Repubblica nata dalla Resistenza e fondata sul lavoro.
In questo nuovo clima la destra fascistoide ha segnato una capacità di alludere, con una risposta reazionaria,
alle ingiustizie sociali determinate dal neoliberismo, in un contesto in cui il centro-sinistra è stato nei fatti il
maggiore responsabile di politiche antipopolari.
Pensiamo agli effetti che il voto compatto del centro-sinistra alla legge Fornero e la pressoché inesistente
azione sindacale contro questo provvedimento hanno prodotto nel mondo del lavoro: disorientamento,
rabbia, senso di abbandono e di impotenza. Il voto contrario della Lega Nord e la successiva raccolta di firme
per il referendum abrogativo hanno contribuito notevolmente a spostare voti operai verso il centro-destra.
Potremmo proseguire a lungo, ma è del tutto evidente che la condivisione delle politiche liberiste da parte
del centro-sinistra ha aperto un’autostrada alla destra che, in modo demagogico e populista, si presenta “dalla
parte del popolo italiano”.
La destra cresce dove non viene agita la lotta e dove muore la speranza, dove l’egoismo individuale e di gruppo
pare divenire l’unica strada praticabile.
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- Il pericolo della destra fascista e il capitalismo securitario
Da dove nasce il feroce securitarismo del governo e del sistema?
La prima considerazione è che l’Italia è in guerra; la guerra “pretende” lo “stato di eccezione” permanente,
l’assoluta sospensione dei diritti costituzionali. La guerra è, infatti, “costituente” e costruisce un vero e proprio
“salto di paradigma”, militarizza la società, dall’economia alla scuola, alla formazione: il capitale ha bisogno
della guerra.
Marx ci ha insegnato che “il capitale è, per sua natura, un sistema globale. Deve annidarsi ovunque, insediarsi
ovunque, stabilire connessioni ovunque”.
La tendenza in atto verso la centralizzazione dei capitali porta ad un’analoga concentrazione del potere
politico: un vero e proprio “liberismo autoritario”. Esso sta assorbendo anche il concetto di “sicurezza”, con
una torsione fortemente securitaria. Viene abbattuto lo Stato sociale e diventa sempre più pervasivo lo Stato
penale assolutista, connesso all’unificazione del potere. Del resto, le politiche centrate sulla repressione e
l’ipertrofia carceraria non nascono oggi: esse si pongono nella scia di normative feroci e incostituzionali,
volute sia dal centro-destra che dal centro-sinistra. Oggi non siamo solo dinanzi a norme che inventano nuovi
reati e comminano sanzioni enormi. Siamo di fronte ad un impianto autoritario della medesima governabilità.
Si va configurando un “salto di fase”, una simbiosi tra tutela della formazione sociale e immaginario della
sicurezza, che genera una “società della sorveglianza”, uno “Stato del controllo “, lo stravolgimento del
rapporto tra statualità e cittadinanza. Si sta rafforzando una vera e propria architettura globale di sorveglianza
capillare, pervasiva. Rispetto a questo salto di qualità, vi è una rimozione pressoché totale, nelle forze
parlamentari, sindacali, associative.
L’attuale normativa nega alla radice il conflitto, che è considerato nemico della “ragion di Stato”. Ma
riconoscere il conflitto è fondamentale, per gli anticapitalisti e per i comunisti, perché esso produce dignità,
autodeterminazione, permette la legittimazione degli oppressi e degli sfruttati. La storia è “storia di lotta di
classi”, scrive Marx. Senza il pluralismo, senza la partecipazione, se il popolo è muto e inerte, muore la stessa
Costituzione.
Le norme introdotte dalle destre ci riportano al carcere come luogo disumanizzante, punitivo, disperato. Chi
osa agire attraverso disobbedienza, diritto di resistenza, conflitto, in base al secondo comma dell’articolo 3
della Costituzione, è considerato “terrorista”, “delinquente”. Pensiamo alla norma che cancella il differimento
obbligatorio del carcere per le donne incinte o le madri con figli sino ad un anno. Qui l’ipertrofia carceraria
cancella ogni civiltà ed umanità dello Stato di diritto. Così come pensiamo alla misura che punisce chi,
all’interno delle strutture carcerarie, si oppone ad un ordine, ritenuto illegittimo, opponendo una “resistenza
passiva”. È stata definita la norma “anti Gandhi”. Basti, infine, pensare al trattamento previsto nei confronti
delle persone migranti, di quelle trattenute nei CPR. Non hanno commesso reati, ma sono costretti in galere
etniche peggiori del carcere: il migrante viene considerato un “nemico” a prescindere, a cui togliere perfino
la dignità. La misura introdotta, che vieta di vendere le SIM a chi non possiede il permesso di soggiorno, non
è solo incostituzionale, ma dimostra ferocia, cattiveria, odio.
Questa caratteristica repressiva si salda con la proposta di premierato, che è in realtà una proposta di
presidenzialismo anticostituzionale. Una forma di premierato plebiscitario, senza equilibri costituzionali e
contrappesi, che non esiste in alcun paese al mondo. Il Parlamento evapora in un ruolo ancillare, anche perché
una legge elettorale ipermaggioritaria (peggiore della legge Acerbo) costruisce una democrazia a numero
chiuso, da cui vengono escluse tutte le istanze critiche, anticapitaliste, comuniste. Così nascono le autocrazie
e si rinsaldano le oligarchie, abbattendo l’intera Costituzione, che va applicata, non smantellata. La ricerca
della passivizzazione sociale si salda quindi con la proposta di un impianto istituzionale che completi lo
svuotamento democratico delle istituzioni, con un presidenzialismo che si mostri impermeabile alle istanze
sociali.
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Contro questo indirizzo repressivo e presidenzialista, siamo impegnati alla costruzione della più ampia
opposizione sociale, rafforzando questa mobilitazione attraverso l’intreccio della lotta per la democrazia
con la lotta per i diritti sociali e civili.
- Le contraddizioni della Destra
Abbiamo visto come la destra italiana, che interpreta, radicalizzandole, le tendenze negative sopra descritte,
non abbia una sua piena forza autonoma, ma sia cresciuta in larga parte grazie al clima culturale e alle
politiche poste in essere o rese possibili dal centro-sinistra. Non a caso la destra vive le sue contraddizioni
maggiori proprio quando va al governo, dove si evidenzia la contraddizione tra la demagogia della propaganda
e la realtà dell’azione politica.
Questo è particolarmente evidente per quanto riguarda il governo Meloni, che ha abbandonato
completamente le promesse elettorali su pensioni e welfare ed ha assunto un profilo di politica economica in
totale continuità con Mario Draghi, una collocazione geopolitica completamente subalterna alla NATO e agli
Stati Uniti, un’azione di scardinamento costituzionale fondata sulla spaccatura del paese e sulla
criminalizzazione del conflitto sociale.
Che queste contraddizioni restino sul terreno potenziale, oppure si dischiudano e aprano veri e propri
elementi di crisi, dipende unicamente dall’azione di opposizione che viene fatta concretamente.
La qualità dell’opposizione sui contenuti sociali del governo rappresenta la vera leva per scardinare la forza
delle destre.
Emblematico il caso dell’autonomia differenziata, inizialmente condivisa in modo bipartisan, che oggi, grazie
ad una intelligente e determinata azione politica del “Comitato contro ogni autonomia differenziata”, trova
un fronte di opposizione assai vasto, che ha realizzato la grande campagna per il referendum abrogativo della
Legge Calderoli, in grado di modificare la percezione del Paese sugli effetti devastanti del regionalismo
competitivo. Questo risultato, nè semplice nè scontato, si è fondato su due elementi: in primo luogo la
radicalità dell’obiettivo, l’assoluta autonomia politica del Comitato nella sua azione di contrasto, a partire dalle
intese sottoscritte dal Governo Gentiloni fino alla precipitazione attuale del Governo Meloni, la
determinazione nel tenere fermo l’obiettivo anche quando larghissima parte del centro-sinistra si attestava
su posizioni di mediazione; in secondo luogo, la pratica unitaria della lotta, il lavoro tenace per la costruzione
dell’ampio schieramento referendario, con cui si sono poste le basi per cancellare nell’immediato lo
“SpaccaItalia” del Governo Meloni – che affonda le sue radici nella modifica del Titolo V della Costituzione ad
opera del governo Amato – per poi aprire la prospettiva di una radicale inversione di tendenza.
Molto più difficile far emergere le contraddizioni del governo laddove non vi è una dispiegata azione politica:
è il caso della posizione del governo sulla guerra, del raddoppio delle spese militari, del mancato
abbassamento dell’età pensionabile, della mancata approvazione di una norma sul salario minimo e, più in
generale, delle politiche di austerità. La sostanziale condivisione del centro-sinistra – e dei giornali che lo
sostengono – dell’orientamento di fondo del governo e l’assenza di una autonoma capacità di iniziativa politica
su questi temi, determinano una situazione in cui la contrarietà alle politiche del governo non diventa oggetto
di iniziativa politica. - Per sconfiggere le destre, fare come Melenchon
In questa situazione, è del tutto evidente che la strada per sconfiggere le destre non può fondarsi sulla
sommatoria delle diverse forze di opposizione così come sono organizzate nel sistema bipolare. Questo lo
abbiamo fatto varie volte in questi trent’anni – dalla desistenza all’accordo di maggioranza, a quello di governo
– ma non si è mostrata una strada efficace. Ogni volta che le destre sono state sconfitte sul piano elettorale
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la politica concreta attuata dal centro-sinistra – a prescindere dal tipo di accordi da cui scaturiva – ha
determinato la successiva vittoria del centro-destra e – come abbiamo visto – un progressivo rafforzamento
delle forze più estreme al suo interno. Il tema della sconfitta della destra fascista non è quindi linearmente
risolvibile con la sommatoria di chi oggi è all’opposizione perché, dati i rapporti di forza presenti
nell’opposizione, le politiche che emergerebbero, per l’ennesima volta, non farebbero altro che poi rafforzare
le forze reazionarie.
Per sconfiggere le destre fasciste occorre quindi porsi il problema di modificare i rapporti di forza dentro
l’opposizione e di sconfiggere l’ala guerrafondaia e liberista che è oggi maggioritaria.
È esattamente il percorso compiuto da Melenchon in Francia, il quale si era posto coerentemente questo
problema già anni fa. Per anni ha lavorato a costruire una sinistra di alternativa, sviluppare il conflitto sociale
contro le politiche di austerità, rifiutando ad ogni livello accordi con il Partito Socialista. Solo dopo aver
ribaltato i rapporti di forza elettorali con il Partito Socialista nelle elezioni presidenziali, dopo aver costruito
una forte sintonia con i movimenti di lotta e dopo la sconfitta all’interno del Partito Socialista della linea
liberista, Melenchon ha proposto e costruito l’unità della sinistra su contenuti largamente antiliberisti ed in
sintonia con i movimenti sociali. Com’è evidente, abbiamo forti differenze con i compagni francesi sulla
questione della guerra in Ucraina, ma questo non toglie che la strategia seguita da France Insoumise in questi
anni si è mostrata corretta sul punto fondamentale: per sconfiggere le destre occorre costruire un punto di
riferimento di sinistra e costruire conflitto sociale, non allearsi con la sinistra liberista.
Contro il regime fascista, quando la lotta è stata principalmente di tipo militare, l’unità di tutte le forze
antifasciste, anche quelle monarchiche, è stata decisiva e necessaria. Nello scontro militare, o si sta da una
parte o dall’altra e l’alternativa è tra vincere e morire. Ma oggi noi non siamo nel ‘44, non siamo dentro uno
scontro militare con un regime fascista. Oggi lo scontro è sul terreno della ricerca del consenso. Su questo
piano, la strada per sconfiggere le destre non può quindi fondarsi sull’accordo elettorale – e per forza di cose
anche politico – con chi sostiene le politiche guerrafondaie e antipopolari che sono alla base della crescita
della destra e dell’aumento del suo consenso presso vasti strati popolari. Dobbiamo operare per costruire il
più ampio fronte di lotta contro il governo di destra sapendo che non vi è un rapporto causale e
consequenziale tra lotte di opposizione e possibile schieramento politico: lo schieramento politico-elettorale
deve costruirsi su una proposta politica chiara, come hanno fatto in Francia.
- Lo stato di guerra peggiora la situazione
La scelta dell’Unione Europea e del governo Meloni di appoggiare supinamente le scelte degli Stati Uniti sta
portando l’Europa ad una crisi verticale.
In primo luogo, le sanzioni alla Russia ed in generale la politica di decoupling voluta dagli USA, che punta a
spaccare in due l’economia mondiale, hanno messo radicalmente in crisi i fattori di competitività dei settori
produttivi europei fondati sull’esportazione, a partire dell’industria tedesca. In questa situazione l’apparato
produttivo italiano, che è in buona parte legato a quello tedesco, è destinato a pagare prezzi pesantissimi, che
si accompagnano alle difficoltà in altri settori colpiti direttamente dalle sanzioni alla Russia (dall’agricoltura al
settore del lusso). Questo determinerà una riduzione del PIL italiano e delle esportazioni, con conseguenti
riverberi negativi sulla bilancia commerciale: si apre cioè una situazione in cui potrà ricominciare una
campagna sul fallimento del sistema-paese e quindi sulla necessità di tagliare ulteriormente salari, diritti,
welfare.
In secondo luogo, l’enorme aumento della spesa militare determina una compressione delle risorse a
disposizione per il welfare. Oltre 15 miliardi di aumento della spesa militare determineranno un taglio delle
spese sociali di pari ordine, un ulteriore sconquasso sociale.
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Vi è quindi uno stretto rapporto tra la lotta contro guerra e aumento delle spese militari e quella contro le
politiche liberiste: per questo la nostra opposizione al governo deve mettere in discussione le politiche NATO
ed europee che Meloni condivide con il PD. Si badi bene, non con il PD di Renzi, ma con il PD di Schlein, che
ha votato la risoluzione del Parlamento Europeo.
- Le potenzialità del Mezzogiorno
Nel quadro sin qui descritto, il Mezzogiorno è completamente escluso dai processi di integrazione, dai modelli
strutturali dei processi di accumulazione in atto. Esso, allora, è metafora della necessità di un rovesciamento
di campo, di un punto di vista complessivamente alternativo.
La “questione meridionale”, oggi, non può che essere “questione euromediterranea”. Essa può essere una
leva, controcorrente, per rafforzare una visione “policentrica”, contro l’attuale configurazione dell’Unione
Europea. L’Europa del Sud può assumere la funzione di cerniera nei confronti del bacino mediterraneo. I
Brics costituiscono un orizzonte geopolitico, ma anche economico, per importanti cooperazioni
interregionali. La crescita di mercati regionali in aree molto popolate può essere la risposta alternativa al
progetto di Europa “escludente”.
Combatteremo da subito la funzione che i poteri economici vogliono affidare al Sud, quella di un hub
petrolifero, di una piattaforma antiecologica, carbonizzata, gassificata, trivellata, di transito verso il Nord,
verso le macroregioni mitteleuropee, delle risorse energetiche mediterranee. Dovremo ripensare ed
attualizzare lezioni postcoloniali serie, che lo sviluppismo liberista ha violentemente rimosso. Dall’altra parte
vi sono, infatti, le gabbie salariali, la completa militarizzazione del territorio, la scuola confindustriale e
confessionale, la salute ridotta ad assicurazioni per soli ricchi. Perfino l’acqua diventa terreno di
accumulazione predatrice.
I processi politici, strutturali, mafiosi, si intrecciano. Le mafie sparano meno, ma la borghesia mafiosa controlla
tutti i percorsi di valorizzazione del capitale. Del resto, il Sud è la vittima predestinata dell’“autonomia
differenziata”, che è un vero e proprio passaggio di Repubblica, un colpo di Stato privatistico basato sulla
mercificazione di territori, servizi, persone, vite.
Ma il SUD non è pacificato, non sta accettando passività ed inerzia, vi sono conflitti e fermenti di
autorganizzazione. Sono aspirazioni, comportamenti critici individuali e collettivi che possono dare slancio e
passione all’identità del Sud, che è stata per decenni seppellita dalle destre e dallo sviluppismo liberista del
centrosinistra.
Noi siamo impegnati a favorire l’emersione di questa nuova soggettività meridionale, che ci richiama al
ruolo dei Comuni, al rapporto tra i “nostri” territori e quelli euromediterranei, alle marce per il lavoro e la
pace, alle piazze che diventano di nuovo spazi di comunità, alla valorizzazione dell’autonomia siciliana e
sarda, alla ripresa di un ruolo politico di un Mezzogiorno che le classi dominanti vorrebbero ridurre a
passiva periferia dell’impero. - La condizione giovanile
(questa la scriviamo insieme)
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SECONDA PARTE
3.UNA COALIZIONE POPOLARE CONTRO LA GUERRA, IL LIBERISMO, IL FASCISMO
Come abbiamo visto, l’attuale fase mondiale è caratterizzata da uno stato di guerra permanente, frutto delle
contraddizioni interne al capitalismo e del tentativo degli Stati Uniti di impedire la costruzione di un mondo
multipolare e di arrestare il proprio declino attraverso l’arma militare. La guerra permanente voluta dagli USA
si presenta come una vasta serie di guerre locali, tra loro interconnesse e tutte a rischio di escalation nucleare.
Da oltre un anno assistiamo al genocidio del popolo palestinese perpetrato da Israele con il pieno appoggio
delle potenze occidentali. Adesso Israele cerca di allargare il conflitto in tutta la regione mediorientale. In
Ucraina ogni tentativo di arrivare ad una trattativa e ad un compromesso viene stroncato sul nascere dalle
forze legate alla NATO. In questo contesto, assume un valore fondativo che il 19 settembre 2024 il Parlamento
Europeo abbia approvato – con il voto favorevole di Fratelli d’Italia, Forza Italia e Partito Democratico – una
risoluzione sul proseguimento del sostegno finanziario e militare all’Ucraina da parte degli Stati membri
dell’UE. Questa risoluzione, oltre a prevedere l’aumento della fornitura di armi all’Ucraina, delle sanzioni alla
Russia e ai suoi alleati: “invita gli Stati membri a revocare immediatamente le restrizioni all’uso dei sistemi
d’arma occidentali forniti all’Ucraina contro legittimi obiettivi militari sul territorio russo (…)”.
In pratica, il Parlamento Europeo, non solo ha chiuso ogni porta alla ricerca di una soluzione pacifica alla
guerra in corso in Ucraina, ma si è apertamente schierato a favore di una escalation che – viste le posizioni in
campo – porterebbe inevitabilmente ad un conflitto nucleare sul suolo europeo e molto probabilmente alla
Terza guerra mondiale.
Si tratta di un drammatico salto di qualità negativo dell’Unione Europea, che unisce la follia guerrafondaia alla
politica di austerità economica e al restringimento degli spazi democratici. La guerra, le sanzioni e l’aumento
delle spese militari portano infatti con sè una gravissima aggressione ai diritti e alle condizioni di vita degli
strati popolari, aggravando gli squilibri e la sofferenza sociale: l’alternativa tra socialismo e barbarie torna a
presentarsi in tutta la sua drammatica chiarezza.
Questo indirizzo politico vede una piena convergenza di indirizzi guerrafondai e antipopolari tra la
Commissione Europea presieduta da Von Der Leyen, il partito Democratico e il governo Meloni.
Noi riteniamo che il compito di fase del Partito della Rifondazione Comunista sia quello di costruire una
opposizione e un’alternativa a questa follia guerrafondaia antipopolare ed antidemocratica, al governo e a
tutte le forze politiche che in Italia e in Europa, al di là degli schieramenti, la sostengono.
- La nostra proposta
1) Sul piano politico proponiamo di dar vita ad una coalizione popolare contro la guerra, il liberismo e il
fascismo, in grado di lottare in Italia per dar vita ad un’alternativa politica, culturale, sociale ed istituzionale
alla barbarie che le classi dominanti italiane ed europee vogliono imporci, alle forze politiche che le
sostengono, al sistema bipolare e all’impianto della Seconda Repubblica.
La lotta per la pace, la giustizia sociale e ambientale, la libertà costituiscono la condizione per ricostruire in
Italia una speranza tra le masse popolari e per sconfiggere le forze dominanti guerrafondaie di cui fa parte la
destra fascista. È infatti evidente che, in assenza di una chiara e dispiegata opposizione di sinistra, le destre
fasciste hanno buon gioco a presentarsi come i difensori del popolo italiano di fronte ai diktat europei.
Ci poniamo pertanto l’obiettivo di contrastare le politiche di guerra, di salvaguardare il welfare, gli interessi
degli strati popolari e l’ambiente, di impedire che il Paese venga ulteriormente impoverito attraverso i bassi
salari, la precarietà, l’aumento delle diseguaglianze, la desertificazione del suo sistema produttivo.
Proponiamo di aggregare una coalizione di popolo che dica di no alla guerra, alla NATO, alle spese militari,
alle sanzioni. Una convergenza tra soggetti diversi, uniti a partire dalla consapevolezza che l’alternanza nel
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bipolarismo non costituisca, oggi in Italia, la premessa per l’alternativa, ma la sua negazione, dominata
com’è da forze politiche e mediatiche completamente subalterne ai diktat della NATO e degli USA.
Una coalizione quindi che si ponga l’obiettivo di trasformare il sistema politico, al fine di renderlo nuovamente
permeabile alle istanze popolari, intrecciando la più radicale opposizione al governo di destra con la difesa
dei diritti sociali e civili, la lotta al patriarcato, la valorizzazione delle enormi risorse materiali ed immateriali
del nostro bellissimo paese, il territorio e le sue produzioni, la varietà delle culture, rafforzi i legami sociali e
comunitari, vera alternativa alle politiche migratorie securitarie.
Avanziamo questa proposta di convergenza a tutte le forze politiche, sociali, culturali, a tutte le donne e gli
uomini che si sono espressi contro la guerra e condividono la necessità di costruire una alternativa visibile
e credibile alla guerra, al liberismo, alla devastazione ambientale, al fascismo. Proponiamo che la coalizione
popolare sia il progetto a cui lavorare da subito per le prossime elezioni politiche italiane, al fine di costruire
in tempi utili una proposta visibile e riconoscibile, che si presenti in alternativa ai poli politici esistenti ed
alle forze, come il PD, che sostengono la guerra e l’austerità. Le alleanze elettorali su nodi come la guerra e
la pace non sono passaggi tattici ma strategici.
La lotta contro il sistema di guerra non si vince, però, solo sul piano politico.
2) Sul piano culturale avanziamo un appello a tutte e tutti coloro che operano nel campo della formazione
dei saperi, in primo luogo Scuola, Università e Ricerca, i primi ad essere aggrediti da un progressivo
smantellamento del ruolo pubblico. Lo stato di guerra porta alla chiusura degli spazi di dibattito, alla
criminalizzazione del pensiero critico, alla messa in discussione della libertà di insegnamento. Proponiamo di
dar vita ad una mobilitazione straordinaria, una ripresa del movimento per una scuola democratica, laica,
pluralista, con il protagonismo di tutte le componenti del sistema d’istruzione e universitario, dei soggetti che
operano nel campo della cultura e dell’arte. La valorizzazione dei saperi sociali e la produzione di cultura
critica non possono essere sottoposte ad un progetto politico, ma devono intrecciarsi dialetticamente con
questo. Proponiamo quindi agli operatori della scuola e della cultura di dar vita ad una rete di relazioni stabili
che, nella loro piena autonomia, possano costituire una soggettività plurale della cultura critica. Pensiamo
infatti che il protagonismo degli intellettuali interessati a produrre un sapere critico sia la condizione per
capovolgere il paradigma del primato del mercato e impedire che la cultura venga arruolata nello scontro di
civiltà.
3) Sul piano sociale riteniamo decisiva la ripresa di un forte conflitto e di un protagonismo popolare, la rottura
della passività sociale, la costruzione di una opposizione di massa alla guerra, al governo Meloni, alla
Commissione Europea ed ai loro provvedimenti.
La mobilitazione sociale, per sua natura, avviene su obiettivi specifici, chiari e definiti e non implica la
condivisione di una specifica proposta politica. Questi conflitti esistono, ma sono oggi molto frammentati.
Proponiamo di sviluppare nei prossimi mesi il massimo di opposizione alle politiche antipopolari,
antidemocratiche e guerrafondaie, sulla base della condivisione della piattaforma sui temi concreti.
Riteniamo infatti che la mobilitazione sociale rappresenti una necessità assoluta, sia per fermare gli attacchi
ai ceti popolari sia per ricostruire un protagonismo sociale indispensabile per l’alternativa. Su temi come la
sanità, la precarietà, i bassi salari vi è una grande rabbia sociale a cui dobbiamo proporre uno sbocco collettivo
attraverso la lotta e la vertenzialità diffusa.
Noi riteniamo necessario operare per lo sviluppo di lotte e movimenti di scopo, aggregando tutte le forze, le
organizzazioni e i partiti disponibili con l’unico discrimine dell’antifascismo, a prescindere dalla condivisione
del progetto politico complessivo.
Come partito, opereremo all’interno della costruzione unitaria del conflitto portando le nostre proposte,
dentro una costruzione unitaria del conflitto sociale affinché possa coinvolgere il maggior numero possibile
di persone. A questo riguardo, riteniamo che l’esempio della lotta all’autonomia differenziata rappresenti un
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punto di riferimento di questa impostazione politica: l’avvio del percorso referendario, con l’ampio
schieramento a suo sostegno, ha dato ragione al lungo lavoro di radicale opposizione a ogni forma di
regionalismo competitivo e differenziato. L’obiettivo condiviso di abrogazione della legge Calderoli non porta
in sé il precipitare in una comune prospettiva politica, ma per noi è un passo verso la messa in discussione
delle manomissioni costituzionali, a partire da quella del Titolo V nel 2001. Riteniamo necessario progettare,
con gli stessi presupposti di radicalità dei contenuti, di approccio unitario e plurale e di autonomia delle
soggettività, una mobilitazione contro la guerra e le spese militari, per il rilancio di sanità e scuola pubbliche,
sul salario minimo, sulla lotta alla precarietà ed in generale contro le politiche antipopolari e autoritarie del
governo e dell’Unione Europea.
4.RIPROGETTARE E RILANCIARE IL PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA
La costruzione di una coalizione popolare, il protagonismo dei portatori di saperi critici e la ripresa del
conflitto sociale sono obiettivi impossibili senza un forte ruolo di Rifondazione Comunista, che dobbiamo
rilanciare attraverso una vera e propria riprogettazione. Il punto focale attorno a cui riorganizzare il nostro
lavoro politico, contro questo capitalismo distruttivo delle relazioni sociali e della natura, è il NO alla guerra
ed alle politiche antipopolari di guerra che stanno distruggendo la sanità pubblica e il welfare. Noi siamo
contro la guerra sempre, senza se e senza ma, e chiediamo l’immediato cessate il fuoco in Ucraina come in
Medio Oriente e l’immediato riconoscimento dello Stato di Palestina.
Per rilanciare il Partito è necessario fare i conti con la nostra debolezza, con l’incapacità di attrarre e di
aggregare in particolare le giovani generazioni. Noi riteniamo che ciò sia dovuto innanzitutto all’incapacità a
definire con chiarezza una prospettiva, un ruolo da svolgere nell’Italia di oggi, galleggiando con un indirizzo
altalenante quando non subalterno ai progetti politici altrui. Si tratta di rilanciare Rifondazione Comunista
come cuore della lotta per la pace, di opposizione al governo nazionale ed europeo, di dar vita alla costruzione
di una coalizione popolare alternativa al sistema di guerra e liberista che ha fatto risorgere i fascisti. Rilanciare
Rifondazione, il suo radicamento sociale, l’internità ai conflitti, la capacità di operare con metodo
intersezionale alla ricomposizione sociale è la nostra proposta comunista, non semplicemente di sinistra. Il
comunismo, il superamento del patriarcato e dei processi di mercificazione, dello sfruttamento degli esseri
umani e della natura, non sono per noi orizzonti religiosi con cui consolarsi, ma la forma necessaria e possibile
di relazioni sociali per rispondere oggi ai problemi dell’umanità. Una umanità altrimenti destinata ad essere
travolta dalla distruttività del capitalismo imperialista. Oggi non vi è solo un’attualità, ma una necessità del
comunismo per uscire dalla barbarie.
Rifondazione Comunista non può vivere e nemmeno sopravvivere nel tatticismo politicante o nella ricerca
spasmodica di qualche scialuppa di salvataggio. Rifondazione comunista è la forza politica che in Italia è nata
trenta anni fa per porre il tema dell’alternativa, di una terza via concreta, popolare, sociale. A questo siamo
impegnati nel proporre a tutto il partito la riprogettazione e il rilancio della nostra organizzazione, affinché
possa tornare ad essere un punto di riferimento per chi lotta nel nostro Paese per la pace, libertà e la giustizia,
per il comunismo. Lo dobbiamo a noi stessi, alle giovani generazioni.
È evidente che oggi il nostro partito si trova in una situazione di particolare debolezza, spesso utilizzata per
indicare come unica via di salvezza quella di rientrare, anche dalla porta di servizio, nell’ambito del centro-
sinistra, cercando per quella via l’accesso alle istituzioni. Al di là della considerazione empirica per cui nelle
grandi città l’unico consigliere comunale è a Firenze, eletto in una coalizione che si è presentata in alternativa
al PD, mentre non risulta che i vari esperimenti di entrismo nel centro-sinistra abbiano prodotto qualche
risultato, noi riteniamo che i limiti attuali, la nostra debolezza, l’invecchiamento del corpo militante, non
debbano diventare un alibi per assumere il comportamento di quei naufraghi, che impauriti, smettono di
nuotare e, in modo scomposto, cominciano ad agitarsi alla ricerca di qualche relitto a cui aggrapparsi.
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Occorre piuttosto analizzare seriamente la situazione in cui ci troviamo per individuare limiti ed errori.
In questa situazione, se davvero si ritiene doveroso “un bilancio veritiero” sul progressivo indebolimento del
nostro partito, riteniamo opinabile che lo si faccia a partire dalla scelta che facemmo nel 2008 di costruire,
“in basso a sinistra”, un’alternativa ai due poli che non siamo riusciti a concretizzare”.
- Per un bilancio della nostra storia
Riteniamo sbagliato e molto indicativo che il fotogramma scelto per far partire il film della crisi di
Rifondazione Comunista sia quello del congresso di Chianciano. Questo è sicuramente il punto di vista di
Vendola e compagni, ma nasconde un fatto: grande come una casa: la Sinistra-L’arcobaleno, con Bertinotti
candidato Presidente, lista dotata di una enorme visibilità mediatica, prese il 3,1% e sancì l’uscita di
Rifondazione Comunista dal Parlamento italiano, prima del Congresso di Chianciano.
Non partire dalla sconfitta elettorale della Sinistra Arcobaleno – e quella dell’anno precedente alle
amministrative – e far risalire i problemi al Congresso, che venne dopo e che con quella sconfitta dovette fare
i conti, è un modo per aprire la discussione dando per scontato che prima di Chianciano tutto andasse bene,
compreso evidentemente l’accordo con il centro-sinistra.
L’estromissione di Rifondazione dal Parlamento e la sua crisi non nascono dal congresso di Chianciano ma
prima, ed erano palesemente maturate nella fase in cui apparivamo fortissimi, stavamo in maggioranza con
Mastella, Gentiloni, Dini e Rutelli ed eravamo tutti i giorni in televisione. Far partire la sconfitta del progetto
di Rifondazione da Chianciano determina un unico risultato: costruire una narrazione in cui qualunque
ammorbidimento e compromesso nel rapporto con il PD rappresenterebbe un fatto positivo e di buon senso
realista rispetto ad una linea “troppo rigida”.
La realtà ci dice che la crisi di Rifondazione Comunista è nata quando era nella maggioranza che sosteneva il
governo Prodi. Quella collocazione ne ha corroso pesantemente la credibilità, il valore simbolico e i rapporti
di massa costruiti dopo le giornate di Genova, nella costruzione del movimento altermondialista e nell’attività
di opposizione al governo Berlusconi.
A meno che non si voglia usare Rifondazione Comunista per giocare al gioco dell’oca, noi riteniamo sia
necessario prendere atto che è la collocazione in maggioranza con il centro sinistra che aperto la nostra crisi
come, del resto, la partecipazione alla maggioranza del primo governo Prodi aveva prodotto un nulla di fatto
sul piano dei risultati concreti e una pesante scissione del Partito.
Proprio per questo riteniamo necessario capire dove abbiamo sbagliato nell’applicazione o nella mancata
applicazione dell’indirizzo scelto a Chianciano nel 2008.
Negli anni immediatamente successivi al 2008 due sono stati gli errori principali,che riteniamo necessario
sottolineare.
Il primo è stato una insufficiente cura del Partito. La consapevolezza della necessità di dar vita ad una sinistra
di alternativa, riassunta dalla formula “siamo necessari ma non sufficienti”, ha lasciato sullo sfondo la
definizione del ruolo centrale che il partito doveva svolgere. Il non aver definito chiaramente quali dovevano
essere i suoi compiti, rispetto a quelli dell’aggregazione più ampia, ha teso a sminuire il ruolo del partito
invece di rafforzarlo nella nuova fase che occorreva aprire. Questa sottovalutazione del ruolo e della cura del
partito ha caratterizzato tutta la fase post-Chianciano e costituisce un errore di cui prendere atto.
Il secondo errore è stato quello di aver concentrato il tema della costruzione di una sinistra di alternativa quasi
solo sul piano strettamente politico-elettorale. Abbiamo trascurato il fatto che il bipolarismo è la forma con
cui si struttura non solo il terreno istituzionale ma il complesso della sfera pubblica (comunicazione, relazione
con i corpi sociali intermedi). Di conseguenza, la sola costruzione politico-elettorale non è per nulla sufficiente
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a dare gambe e respiro all’alternativa, se si rimane sul solo piano elettorale, il più difficile e il più “blindato”
dalle leggi maggioritarie, non si penetra sul terreno sociale e dell’immaginario.
In questo modo, anche intuizioni positive, come quella del partito sociale, sono rimaste a mezz’aria, una
specie di settore di lavoro accanto ad altri, che però non ha ridisegnato la nostra identità e oggi non compare
più nella narrazione del partito. Sul terreno sociale, a queste considerazioni si somma l’incapacità – ma anche
lo scarso impegno – di costruire una sinistra sindacale – in Cgil come nel sindacalismo di base – in grado di
incidere sul decisivo terreno della mobilitazione sociale.
La centralità data al terreno strettamente politico, ha anche fatto perdere di vista il lavoro di costruzione di
un immaginario, di una prospettiva culturale e di una narrazione dell’alternativa. Il nostro stesso essere
comunisti e comuniste, in una fase in cui il capitalismo mostra appieno la sua tendenza distruttiva, è stato
lasciato del tutto sullo sfondo, invece che essere proposto nella sua attualità necessaria. Al di là del meritorio
lavoro di demistificazione delle politiche di austerità, non abbiamo contrastato a sufficienza la colonizzazione
dell’immaginario collettivo e non abbiamo nemmeno costruito quella rete di relazioni stabili con il tessuto
dell’intellettualità a noi vicino, decisivo per elaborare una proposta di alternativa.
Siamo cioè rimasti sul piano della costruzione politica, senza operare per costruire una vera proposta politico-
sociale-culturale e progettuale.
Nell’ultima fase, ai limiti precedenti se ne sono sommati di nuovi:
1) La mancata rigenerazione. In un contesto in cui l’età media del partito è diventata molto alta e vi sono
palesi problemi di ricambio generazionale, l’aver volutamente disatteso la decisione assunta unitariamente
nell’ultimo congresso, di fare un passaggio di consegne generazionale nel gruppo dirigente centrale, ha
costituito un grave errore. Ha pesato negativamente sulla possibilità di rinnovare l’immagine del partito, ha
creato un clima di scontro e di sospetti che ha contribuito alla spaccatura del gruppo dirigente.
2) La mancata applicazione della linea di chiara alternativa al centro-sinistra a tutti i livelli. Per stare solo
all’ultima fase, nelle elezioni regionali e delle grandi città, questo indirizzo, assunto all’unanimità nell’ultimo
congresso, è stato largamente disatteso.
3) L’incongruenza delle scelte. Il mancato rispetto del mandato congressuale è stato particolarmente evidente
nell’ultimo periodo, con la scelta attuata in vista delle elezioni europee di sfasciare Unione Popolare. Invece
di lavorare per una lista unitaria contro la guerra e il liberismo, una vera lista unitaria per la pace, ci siamo
aggregati in modo subalterno alla lista Santoro, ponendo le condizioni per l’ennesimo insuccesso elettorale e
per un ulteriore indebolimento del partito.
4) La riduzione della capacità di iniziativa e di proposta. L’intervento del partito è stato improntato al
commento quotidiano delle notizie,senza sviluppare capacità di analisi e di iniziativa autonoma. Emblematica
l’assenza di una iniziativa forte e continuativa contro guerra, spese militari, sul rapporto tra economia di
guerra e disagio sociale.
5) La struttura leggera, la scelta di non procedere alla nomina dei responsabili di numerosi dipartimenti di
lavoro. Il partito, al di fuori degli incarichi di Segreteria, non è stato strutturato, come sempre era avvenuto,
per organizzare, istruire e supportare l’elaborazione politica e l’iniziativa, ma è stato ridotto a partito leggero,
utile per andare con le bandiere alle manifestazioni – degli altri – e per raccogliere firme, quando necessario.
6) La centralizzazione delle scelte e l’atrofia della discussione. In sintonia con questo modo di procedere,
mentre nell’ultimo congresso si era sottolineata la necessità di allargare la discussione e il confronto, abbiamo
assistito ad una centralizzazione autoritaria nel partito, senza discussione reale al suo interno. Solo per fare
un esempio, l’ultima volta in cui la Direzione Nazionale è stata convocata per una discussione politica risale al
23 novembre 2023…
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In questo modo è venuta al pettine una crisi di prospettive che, sommata agli errori precedenti, è alla base di
molti dei problemi che pesano sul partito, della sua debolezza e dello scoramento dei militanti.
- Compiti e priorità per il Partito
Dai limiti che abbiamo riscontrato nel bilancio sopra esposto emergono in larga parte le cose necessarie per
rilanciare Rifondazione Comunista. Non si tratta di mosse magiche, di atti salvifici o di puro volontarismo, che
in modo miracoloso risolveranno tutti i problemi. Si tratta di un rilancio chiaro della prospettiva politica di
alternativa da riempire però di contenuti, proposte concrete, capacità di parlare al Paese, di organizzare una
risposta sociale. La proposta di alternativa, se non si articola in una politica concreta, è semplicemente muta,
pura propaganda. Si tratta quindi di partire dalle forze che abbiamo per riprogettare e rilanciare il partito
ponendo le condizioni per aggregare nuove forze e nuove intelligenze. - Il rilancio del comunismo
Innanzitutto dobbiamo operare per l’attualizzazione della proposta comunista: oltre che fattore identitario
riferito alla nostra storia, dobbiamo declinarlo affinché diventi l’immaginario positivo della trasformazione
sociale odierna. Occorre rifondare il significato del comunismo non solo nell’analisi critica della nostra storia
ma come proposta di trasformazione per le giovani generazioni. Il comunismo non è un ricordo del passato
ma deve essere rivolto alla trasformazione del presente e quindi parlare di futuro.
Il comunismo è una grande risorsa che dobbiamo valorizzare, perché per lottare contro la pervasiva ideologia
della guerra nell’era neoliberista, occorre essere portatori di un’idea forte, avere punti di riferimento che
vadano oltre la contingenza. Occorre essere parte di una storia, la storia della lotta degli umani per la libertà
dallo sfruttamento.
Abbiamo bisogno di un pensiero universalista dispiegato, che inglobi e superi l’ideologia dominante di questo
capitalismo distruttivo, sviluppando tutte le potenzialità del pensiero comunista.
Il capitalismo ha posto le condizioni per la fuoriuscita dell’umanità dall’era della scarsità e
contemporaneamente ci sta portando alla guerra e alla distruzione delle condizioni di vita sul pianeta.
Scegliere il capitalismo significa scegliere la morte, scegliere il comunismo significa incamminarsi sulla strada,
possibile, della pace, del rispetto dell’ambiente, dell’eguaglianza e della libertà. Essere comunisti oggi significa
riconoscere che vi sono tutte le condizioni oggettive per una uscita dell’umanità dalla condizione di bisogno
e di sfruttamento e che questo è impedito dal persistere di rapporti sociali capitalistici che non hanno più
alcuna ragione di esistere. Al riconoscimento e al superamento di quei rapporti sociali noi siamo impegnati.
Parallelamente, ora più che mai occorre rilanciare un’idea di rivoluzione come freno d’emergenza da azionare
senza riserve nel momento in cui l’evoluzione storica, legata al capitalismo, sembra effettivamente arrivare
sull’orlo dell’abisso. Si presenta l’occasione per riprendere e valorizzare le critiche che la modernità capitalista
ha generato, mettendo in evidenza, accanto allo sfruttamento e all’oppressione, altre fonti di malessere, come
la perdita di senso, il deterioramento dei rapporti umani, la deturpazione del mondo e l’impoverimento della
vita quotidiana. Non si tratta di recuperare un passato mitico, ma di rifiutare l’ideologia storicistica del
progresso e con Marx avere consapevolezza che il liberismo di oggi rappresenta comunque “un passo indietro,
dal punto di vista umano, rispetto alle comunità del passato”.
Parimenti dobbiamo sviluppare il tema del comunismo qui ed ora, sui territori, con il rilancio del tema dei
beni comuni, del controllo sul territorio, dell’autogoverno.
Rilanciare il comunismo come l’immaginario di chi lotta per la libertà e la giustizia, come movimento reale
che abolisce lo stato di cose presente, che va oltre la dimensione contingente del conflitto, che modifica i
rapporti sociali, è uno dei nostri compiti principali.
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Il Congresso impegna quindi la Direzione Nazionale ad aprire una fase di riflessione sull’attualità del
comunismo e ad operare per dar vita ad un vero e proprio intellettuale collettivo, sia attraverso il
potenziamento della rivista “Su la testa” sia attraverso la costruzione di una consulta degli intellettuali che
condividono la sostanza della nostra impostazione, al fine di valorizzarne il contributo di idee, per la
formazione e la produzione di saperi e di programmi.
- Il radicamento sociale
Tutto oggi indica la necessità una grande stagione di lotte, che unifichi le lotte isolate oggi esistenti in un
grande movimento unitario antiliberista, contro il governo delle destre, la dura austerità preannunciata dalla
legge finanziaria, per ribaltare la situazione e avviare il cambiamento.
Per questo è indispensabile ricostruire l’unità e il protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori, riunificare
tutti quelli che l’offensiva neoliberista ha diviso e messo in concorrenza tra di loro. Occorre anche saldare
nello stesso fronte unitario tutti i proletari che oggi soffrono la mancanza di reddito, lavoro, salario e pensione
dignitosi, i tanti e le tante che la mancanza di protezioni sociali relega in condizioni di povertà e di marginalità
sociale.
Per questo proponiamo di riprendere le lotte per:
-l’aumento generalizzato di tutti i salari, delle pensioni, l’istituzione di un salario minimo legale e
l’indicizzazione piena all’inflazione;
-la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per la piena occupazione, una necessità di fronte ai
progressi tecnologici che aumentano la produttività;
-la garanzia del reddito per tutte e tutti tramite un reddito di cittadinanza slegato dalle politiche attive del
lavoro;
-un grande piano nazionale del lavoro partendo dall’assunzione di 500 mila nuovi dipendenti pubblici;
-il ripristino dell’articolo 18, l’abrogazione del jobs act e di tutte le leggi che hanno ridotto diritti, tutele e
precarizzato il lavoro;
-l’abolizione della legge Fornero e la garanzia della pensione con 60 anni di età o 40 di contributi;
-il riordino del fisco in direzione progressiva, riducendo le aliquote più basse e istituendo una tassa
patrimoniale sulle grandi ricchezze. - Radicamento, partito sociale, intersezionalità, sindacato
In questa prospettiva è necessario ricostruire un radicamento sociale del partito nei principali conflitti,
formando quadri in grado di costruire e dirigere lotte, sviluppando le pratiche di solidarismo conflittuale, che
ricostruiscano il tessuto sociale popolare drammaticamente devastato dalle politiche liberiste. Negli anni
scorsi, il lavoro sul partito sociale è stato un elemento di innovazione significativa, che non ha però
caratterizzato, come sarebbe stato possibile, il profilo complessivo del partito. A partire dall’analisi di
esperienze molto positive che sono state sviluppate su questo terreno, sia dal partito comunista austriaco che
dal PTB belga, si impegna la Direzione Nazionale a fare un bilancio di quanto realizzato, per riprogettarle in
modo più efficace.
Nella ricostruzione del nostro lavoro sociale, riteniamo assolutamente necessario utilizzare un approccio
intersezionale. Si tratta cioè di riconoscere che, oltre allo sfruttamento di classe, esistono altri sistemi di
oppressione (legata al genere, al colore della pelle, etc.) e che questi sistemi di oppressione si sommano, si
intersecano colpendo in più modi la stessa persona. Questo approccio intersezionale, da un lato ci permette
di cogliere nella sua complessità il sistema di sfruttamento e di discriminazione superando una concezione
economicista della classe; dall’altro ci aiuta a riconoscere la stretta relazione che deve esistere tra diritti sociali
e diritti civili e a combattere ogni separazione tra il piano del riconoscimento dei diritti delle minoranze e il
piano della costruzione dell’unità della classe. L’approccio intersezionale, che permette di coniugare i diversi
aspetti collettivi ed individuali dello sfruttamento, è indispensabile per la ricomposizione della classe, in
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quanto supera l’idea che l’unità si possa costruire solo tra eguali, così come l’idea che ogni differenza debba
portare a percorsi separati di emancipazione. La lotta di liberazione è per noi un percorso di rispecchiamento
e di riconoscimento, che apre la strada alla lotta collettiva contro tutti i dispositivi di oppressione.
Nella riorganizzazione del conflitto sociale importantissima è la questione sindacale.
Alle sconfitte subite e alla conseguente perdita di potere contrattuale è corrisposta l’affermazione, nelle
organizzazioni sindacali maggioritarie, tra cui purtroppo anche la Cgil, di logiche e schemi concertativi, che
hanno compromesso l’autonomia e l’indipendenza del sindacato. Le stesse regole che governano i diversi
aspetti della “democrazia sindacale” sono diventate largamente deficitarie e compromesse dal prevalere di
logiche burocratiche e verticistiche. Per contro, esistono oggi una miriade di sigle sindacali, talvolta veri e
propri settori di classe organizzati, certamente conflittuali ma spesso poco rappresentativi, anche a causa di
un’accentuata tendenza alla frammentazione e, talvolta, di un settarismo identitario che rischia di dividere la
classe.
In questa situazione, noi pensiamo, come Lenin, che i comunisti devono “lavorare assolutamente dove sono
le masse” per far crescere l’autonomia e l’unità della classe.
Quindi, le comuniste e i comunisti operano nei sindacati e nelle realtà in cui si è presenti per far crescere un
punto di vista di classe, le lotte e l’autorganizzazione.
Come comunisti e comuniste, abbiamo dunque il compito di indicare, per i/le compagni/e che operano nel
sindacato, contenuti e linee di lavoro unificanti, al di là delle appartenenze sindacali, da verificare
costantemente nel rapporto con le lavoratrici ed i lavoratori.
Nei sindacati confederali e nella Cgil la nostra iniziativa è volta alla ricostruzione di un sindacato di classe,
democratico e conflittuale, sulla base di una chiara linea di opposizione alla logica concertativa, alle tendenze
alla moderazione salariale e all’illusione nefasta che alla cessione di salario e di diritti possano corrispondere
maggiore occupazione e sicurezza.
Alle/ai tante/i compagne/i che militano nei sindacati di base indichiamo come prioritaria l’iniziativa per l’unità
contro la frammentazione delle sigle – della stessa classe lavoratrice – e riteniamo importante la costruzione
di forme di coordinamento degli iscritti e delle iscritte che operano dentro i sindacati.
Va proseguito lo sforzo del partito per ricostruire le condizioni organizzative e politiche per rilanciare
l’intervento sui temi e nei luoghi di lavoro, con l’obiettivo centrale di costituire gruppi di lavoro e intervento
di iscritti e simpatizzanti, in prospettiva anche circoli, a tutti i livelli, regionale, di federazione, di settore o di
grandi aziende, indipendentemente dal sindacato di appartenenza; organismi politici di riferimento per il
partito, con il compito di indagare in profondità la “condizione lavorativa”, produrre analisi sul nuovo mondo
del lavoro e sulle strategie, costruire le campagne e verificare le proprie proposte.
Dobbiamo avviare un capillare lavoro d’inchiesta, al fine di ricostruire condizioni di lavoro, coscienza di sé,
aspettative e tutta la complessità e le articolazioni del mondo del lavoro.
Va analizzata a fondo la crisi del lavoro salariato che riguarda non solo più la sua riproduzione, il lavoro in
temini quantitativi, ma il rifiuto del lavoro salariato in quanto tale, che si esprime non nella forma della lotta
collettiva, ma con l’uscita individuale che nel mondo sta assumendo dimensioni di massa.
Occorre indagare attraverso lo studio e l’inchiesta sulle ricadute e i cambiamenti prodotti dall’applicazione
delle tecnologie digitali, dell’intelligenza artificiale e della connettività sulla produzioni e sulla gestione delle
filiere, sull’uso capitalistico della tecnologie, per ristrutturare le aziende espellendo lavoratrici e lavoratori,
per aumentare il comando, il controllo e lo sfruttamento nella fabbrica digitalizzata e connessa, con la
diffusione dello smart working e nelle piattaforme digitali, dove il lavoro è ridotto a mera prestazione anonima
e milioni di lavoratori, disponibili 24 h su 24, sono resi invisibili.
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- Valorizzare le reti sociali
Il fatto che il principale partito di “opposizione”, il PD, sia inservibile per costruire una alternativa politico-
elettorale che prosciughi la palude in cui si abbevera e prospera la destra fascistoide, non significa che non si
possa avere una politica delle alleanze verso altri soggetti e di allargamento del fronte di lotta.
Esiste nel Paese un tessuto militante ancora assai diffuso. Stiamo parlando di centinaia di migliaia di persone
che contribuiscono a tenere in vita il tessuto democratico e solidale. Le decine di migliaia di persone che la
vertenza GKN – gestita con rara intelligenza e lungimiranza – oppure la lotta contro il TAV in Val di Susa, quella
contro il Ponte sullo Stretto di Messina hanno mobilitato e portato in piazza più volte, ci parlano di questo.
Di ciò fa parte anche la rete militante del sindacalismo di base, che è andata via via allargandosi, pur non
essendo stata in grado di unificarsi. Inoltre, per rimanere al sul terreno delle organizzazioni di base, vi è una
importante realtà di comitati, associazioni e comunità locali, che si muovono sui temi più disparati,
dall’ambiente alla solidarietà internazionale passando per la difesa del welfare, la tutela dei diritti sociali e
civili, la difesa del territorio.
Vi è poi il vasto mondo delle organizzazioni storiche, dalla CGIL all’ANPI, all’ARCI, che, nella pluralità di posizioni
e di ruoli, contribuisce alla tenuta del tessuto sociale, pur nella fortissima presa che esercita la costrizione
bipolare.
Sul piano direttamente politico, sia il Movimento 5 stelle che, in qualche misura, AVS vivono una
contraddizione reale tra i contenuti che propongono e la alleanza con il PD nel sistema bipolare. Una parte
degli stessi votanti del PD non si riconosce nelle scelte generali di questo partito.
Abbiamo quindi una situazione che non è pacificata o normalizzata, in cui vi è un grande tessuto di attivismo
sociale, che però fatica a trovare un comune denominatore e a incrociare quella metà di popolazione italiana
che non ritiene più che la politica possa essere lo strumento attraverso cui cambiare le cose. Non a caso
l’associazionismo gode di un consenso sociale – a partire dai non votanti – incomparabilmente più alto di
quello di cui godono i partiti e anche i sindacati.
Esiste dunque una potenzialità a cui dobbiamo guardare con grande attenzione, alla quale avanzare una
proposta politica chiara, in grado di interagire positivamente con le contraddizioni in essere, aggregando forze
e favorendo il protagonismo sociale.
- Per i diritti dei /delle migranti e per l’unità di classe
L’Europa di Maastricht, nell’attuare le politiche neoliberiste, ha usato strumenti potentissimi per cambiare i
rapporti di forza fra capitale e lavoro, per i/le proletarie europei/e, con la precarizzazione del lavoro e l’assalto
allo stato sociale; per i/le migranti la costruzione di una legislazione nazionale ed europea (in Italia la Legge
Turco-Napolitano e poi la Bossi Fini) permette un intervento sul mercato del lavoro funzionale alle esigenze
dell’impresa e determina una divisione netta fra la classe operaia locale e un crescente esercito di riserva di
proletari/e, condannato alla illegalità, a disposizione delle mafie, del lavoro nero, della tratta sessuale: la
nuova schiavitù. Questa divisione della classe che mette le parti in competizione è la struttura su cui cresce la
narrazione della Fortezza Europa che difende le sue frontiere, il leitmotiv della Lega e delle destre europee,
che aggrega nella guerra di civiltà parti dell’elettorato moderato incalzato dal sentimento di paura e di perdita.
Il processo migratorio è originato prevalentemente dall’azione devastatrice del capitalismo estrattivista e dal
cambiamento climatico, ma soprattutto dalle guerre, quelle provocate dalla Nato e dagli Usa nella ex-
Iugoslavia, in Irak, in Afghanistan, in Siria, dalle repressioni seguite alle primavere arabe.
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La linea politica del PRC sui migranti è ben rappresentata da pratiche di solidarietà attiva, in prima fila nei
movimenti per la difesa dei diritti dei/delle migranti. Questo fronte di lotta, democratico, dell’uguaglianza
dell’accoglienza, ha dato occasioni di grandi mobilitazioni unitarie e campagne sostenute da forti richiami
etici.
Rimane fermo il nostro impegno a lottare per la chiusura dei CPR, contro la criminalizzazione delle ONG che
salvano i naufraghi, contro il cinico allungamento delle rotte delle loro navi per un porto sicuro, contro i
respingimenti collettivi, contro l’esternalizzazione in Albania delle strutture di raccolta di migranti. Dobbiamo
contrastare le logiche securitarie, del decreto Minniti del 2017, del Decreto Cutro del 2023, che si riflettono
nella disumanità del DDL sicurezza, là dove si fa divieto di vendere una SIM a chi non ha permesso di
soggiorno.
Mettiamo in campo anche una serie di obiettivi parziali, per abbreviare l’ottenimento della cittadinanza e per
darla subito alla seconda e terza generazione.
È anche il momento di progettare percorsi che concretizzino momenti di unità di classe
1) collegando i migranti fra di loro mettendo in comune storie dei singoli, dei popoli, delle lotte anticoloniali;
2) intervenendo sul lavoro dei migranti con permesso di soggiorno, che dipendono dal suo rinnovo, sono sotto
ricatto, accettano salari bassi, buste-paga false, orari stremanti. Gli omicidi sul lavoro di migranti hanno
rivelato la densità dei problemi nella riunificazione della classe: le rigide gerarchie, con le donne sempre in
posizione di doppio svantaggio e all’ultimo gradino la posizione del/della richiedente asilo. La situazione
giuridica lo/la colloca in un limbo amministrativo e la/lo rende appetibile per agenzie di somministrazione per
lavori brevi, per la catena dei subappalti per false cooperative. Le vertenze nella logistica, nella grande
distribuzione hanno dimostrato che la lotta non solo ottiene risultati ma cambia le relazioni fra lavoratori/trici
italiani/e migranti, superando quella frattura che il neoliberismo ha costruito perché i poveri lottino tra di loro
e si dimentichino del loro avversario.
- Per l’ecosocialismo
Una vera riconversione ecologica richiede una profonda trasformazione generale, che investe tutti i settori
della vita e dell’economia, cambiando il paradigma del modello di sviluppo lineare: estrazione-produzione-
consumo-scarto.
La transizione ecologica a livello nazionale, in linea con quello europeo e mondiale, si configura nel nostro
PNRR come una diluizione temporale del programma complessivo, come se la transizione fosse un
intermezzo, e non un processo da percorrere, assegnando obiettivi e tempistiche inderogabili, ovvero non
decostruisce il modello capitalistico, ma lo adegua a una sensibilità green.
Il Green New Deal prevede l’introduzione di una serie di modifiche strutturali mirate a ridurre l’impatto
ambientale dei processi produttivi attraverso una maggiore efficienza energetica e tecnologica. Si produce un
nuovo, enorme, mercato green da cui trarre profitto, a cui sottomettere le risorse naturali attraverso la loro
privatizzazione, rendendo apparentemente compatibile la conservazione dell’ambiente con il mantenimento
di alti tassi di profitto.
Questa forma di ecocapitalismo non coinvolge solo la sfera produttiva, ma anche la distribuzione delle merci
e del loro consumo e, in virtu’ di una fittizia sostenibilità ambientale, cerca un generale consenso sociale e
ideologico, da cui non sono esclusi anche alcuni degli attuali movimenti ambientalisti, che però non risolve i
problemi.
La strada per una reale riconversione ecologica, capace di scardinare le logiche capitalistiche distruttive,
fondata sull’uguaglianza e la giustizia ambientale, non può che muovere dalla necessità di abbattere ogni
forma di oppressione, di genere, di classe, di specie.
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Occorre uscire dalla visione antropocentrico/capitalistica, che subordina il pianeta e i suoi viventi al profitto
e allo sfruttamento, mettendo innanzitutto in discussione il modello di crescita infinita.
Le attuali sfide ambientali che ci troviamo ad affrontare, dalla pesante eredità del nucleare, alla progressiva
sostituzione delle energie fossili con quelle rinnovabili, alla produzione di cibo non inquinato, non possono
essere vinte attraverso microriforme e “aggiustamenti” come vorrebbe farci intendere il New Deal, o
addirittura con il ritorno all’energia nucleare, ma richiedono una radicale trasformazione dei modelli di
produzione e sviluppo a partire dall’accettazione che le risorse naturali non sono illimitate, ma un bene
comune da gestire attraverso politiche partecipate, non affidandolo ai privati.
È necessario imboccare una strada ecosocialista.
Infine occorre sottolineare come il più devastante agente inquinante è la guerra, i cui costi in termini di
impatto ambientale non sono inferiori alla distruzione, alla crisi economica, alle perdite in termini di vite
umane e risorse naturali che ogni guerra lascia dietro di sè. Il No alla guerra ha anche questo significato.
- Decostruire il patriarcato per liberare i corpi e la società
All’interno della nostra analisi non possiamo non considerare e analizzare una delle colonne portanti del
sistema capitalista in quanto tale: il patriarcato, con le sue evoluzioni e i suoi effetti sui corpi e la società. Non
si può ignorare l’oppressione insopportabile che il patriarcato esercita sulle donne e sulle soggettività altre,
costrette a forza in un ruolo produttivo e riproduttivo degradante e che nega la loro libertà.
Il patriarcato, una struttura dal punto di vista storico e sociale molto più antica di quella capitalistica (Engels,
Origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato), insieme al razzismo e all’economia schiavile, ha
disegnato il paradigma di oppressione e sfruttamento applicato dal capitale in tutti i suoi fenomeni. Le donne
sono state consegnate storicamente a un ruolo produttivo e riproduttivo, vitale per la sussistenza stessa del
capitalismo, basti pensare al modello di welfare italiano di carattere familista, costringendole in uno
stereotipo che da secoli le relega in una posizione di subalternità, tenendone sotto controllo i corpi attraverso
la violenza sessuale, economica, medica, giuridica, vanificandone spesso l’impegno politico e sociale.
L’intersezione tra questi due sistemi è ancora attuale e continua a produrre vittime attraverso l’oppressione e
lo sfruttamento di quella che è circa la metà della popolazione mondiale.
Una lettura intersezionale è necessaria.
Kimberlé Crenshaw, avvocata statunitense, introdusse negli anni 80 il concetto di intersezionalità che
evidenzia come i vari sistemi di oppressione (basati su genere, razza, classe, orientamento sessuale, disabilità)
interagiscono per generare esperienze complesse di discriminazione, non riducibili alla somma delle singole
oppressioni.
La lotta per la giustizia di genere deve essere strettamente collegata alla lotta contro il capitalismo: è questo
il concetto di “transfemminismo anticapitalista”, che considera come la struttura economica globale sfrutti
non solo le donne, ma anche gli individui marginalizzati di ogni genere e di ogni provenienza geografica,
compresi gli animali e la natura.
Occorre, quindi, ridefinire i femminismi come una lotta collettiva e rivoluzionaria che pone al centro i bisogni
e i diritti di tuttə e aspira a produrre uguaglianza.
Le donne subiscono quindi un’oppressione multipla nel mondo capitalista, partendo dal dramma della guerra
e della crisi climatica, di cui sono le prime vittime. Calandoci poi all’interno della società italiana, il peso
dell’oppressione patriarcale si fa sentire attraverso discriminazioni lavorative, sanitarie, nel mondo
dell’istruzione. Tutto ciò viene aggravato dal peso politico e culturale di una maggioranza di governo
portatrice di un’ideologia catto-conservatrice e maschilista, che sia nelle parole che nei fatti sembra voler di
nuovo relegare i corpi femminili all’interno delle mura domestiche, sotto il controllo serrato del maschio
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padrone. Non da ultimo è da considerare il problema endemico della violenza patriarcale, che culmina nel
femminicidio, ma che passa prima per la violenza verbale, la manipolazione psicologica, la violenza sessuale.
Decostruzione del partito monosessuato per costruire un partito per tuttə
L’attuale Partito della RC è un’organizzazione ingessata nelle proprie strutture, nelle proprie pratiche, nei
propri linguaggi, in un’analisi del reale di cui non si sono ancora aggiornate le chiavi di lettura. Il nostro sguardo
sul mondo è rivolto all’indietro, è necessario ora riconoscere il presente per immaginare il futuro.
Occorre una riorganizzazione dei tempi e delle modalità di relazione che finora non hanno incoraggiato nè
agevolato la piena partecipazione delle donne e delle persone queer alla vita del partito.
Un approccio intersezionale in un mondo patriarcale.
Occorre intrecciare le lotte, superando l’interpretazione binaria della società, facendo proprie le elaborazioni
dei movimenti femministi e transfemministi. In un contesto globale in cui assistiamo al progressivo
smantellamento dei diritti acquisiti nel XX secolo, il movimento LGBTQIA+ rappresenta una delle poche
eccezioni che continua a fare passi in avanti: il diritto delle persone LGBTQIA+ a godere di piena dignità in ogni
aspetto della vita, inclusi salute, istruzione, sport e partecipazione sociale.
La battaglia per i diritti delle donne e delle persone LGBTQIA+ non è separata dalla lotta per una società più
giusta e libera da ogni forma di oppressione; è, anzi, parte integrante di quel cammino verso la libertà e
l’uguaglianza per tuttə e la giustizia sociale: non sono diritti individuali, è lotta di classe!
- La centralità della comunicazione del partito
Occorre riprogettare completamente il settore di Comunicazione del partito, che deve diventare il principale
impegno della Direzione nazionale. Con ogni evidenza, oggi la comunicazione non può essere ridotta alla
trasmissione di comunicati o alla propaganda. Nella riduzione dell’informazione a manipolazione propria del
capitalismo guerrafondaio, occorre non solo commentare le notizie degli altri, ma produrre notizie, analisi,
schemi di lettura di cosa sta succedendo e nel contempo sviluppare metodi interattivi per fare inchiesta.
Occorre cioè far politica attraverso la produzione di analisi complesse, la produzione di comunicazione rapida
immediatamente utilizzabile per intercettare o modificare il senso comune ma anche costruendo canali di
ascolto sociale.
È quindi necessario interloquire con la grande quantità di intellettuali che sono in sintonia con il nostro
progetto politico al fine di far diventare Rifondazione Comunista un polo di comunicazione e informazione
finalizzato a produrre un punto di vista sul mondo. Parimenti occorre documentare le lotte e i conflitti che vi
sono, occorre farli parlare. Il capitalismo della sorveglianza, oltre a manipolare le informazioni, reprime il
dissenso, trasformando le lotte in un problema di ordine pubblico. Noi dobbiamo valorizzare le lotte,
documentarle e far parlare i protagonisti, far emergere la politicità intrinseca nei conflitti e la produzione di
soggettività che nei conflitti sempre emerge. Così come dobbiamo dar vita ad un bollettino telematico
settimanale, non per fare informazione generalista ma per comunicare le poche cose fondamentali utili a
incidere sul senso comune di massa: Un bollettino telematico, eventualmente riproducibile anche in forma
cartacea, che “dia la linea” e segnali ciò che di fondamentale vogliamo comunicare.
Dobbiamo quindi far funzionare la testa e le gambe, ma anche la voce. Dobbiamo porre al centro dell’attività
del partito la sua capacità di comunicare nelle forme rapide della società digitale e nelle forme lente della
necessità di elaborare un pensiero critico all’altezza della sfida. Occorre usare i social, ma anche costruire
forme di comunicazione autonome che non siano censurabili e manipolabili.
Il progetto di ripensamento e potenziamento complessivo della comunicazione deve costituire il più grande
impegno del partito nella prossima fase; impegniamo quindi la Direzione Nazionale a predisporre un piano
di lavoro che applichi questa decisione e che questa venga seguita contestualmente da verifiche periodiche.
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- La formazione
La formazione deve assumere un ruolo inedito nel nostro partito. In una fase di transizione così forte come
quella che stiamo attraversando, la formazione non può essere un settore di lavoro indirizzato a “chi sa di
meno” ma deve essere il modo di esistere del partito a partire dal suo gruppo dirigente.
Al di là degli elementi storici, non abbiamo oggi una conoscenza già acquisita come partito da riversare su chi
è appena arrivato. Nel contesto della guerra, in cui la produzione di falsa coscienza da parte delle classi
dominante è enorme, l’elaborazione di un sapere critico che padroneggi l’insieme dei problemi non può
essere dato per scontato e non è automatico che si generi nemmeno tra gli iscritti e le iscritte al partito.
La costruzione di un punto di vista alternativo a quello dominante deve essere il frutto di un lavoro collettivo
e non può essere affidato al caso. Il ruolo di Rifondazione Comunista, in una fase come questa, è fortemente
determinato dalla capacità di saper spiegare la realtà in termini diversi da quelli imposti dall’ideologia
dominante, al fine di poter proporre soluzioni diverse da quelle che ci propinano le classi dominanti a reti
unificate. Occorre quindi avere una formazione legata alla discussione politica come seconda pelle del partito.
Per questo la formazione deve coinvolgere tutti e tutte, occorre una formazione, intrecciata
all’autoformazione, permanente e diretta a tutti i livelli, da chi si è appena iscritto ai dirigenti nazionali, per
fornire strumenti utili a orientarsi in questo in rapido cambiamento.
Solo alcuni esempi per temi: lo stato di guerra, la modifica del quadro internazionale, l’intelligenza artificiale,
l’ingegneria genetica, la società multietnica, la crisi del lavoro salariato…
Questa formazione, oltre all’innalzamento della cultura generale del partito deve essere finalizzata alla
formazione e al funzionamento dei dipartimenti di lavoro nazionali e alle strutture dirigenti del partito sul
territorio, che, insieme, debbono formare la spina dorsale del lavoro politico del partito nazionale.
Occorre fornire strumenti per leggere da un punto di vista marxista i nuovi fenomeni che si presentano,
garantire il necessario dibattito sugli stessi e far diventare questa attività un punto fisso per il complesso dei
compagni e delle compagne, a partire dai quadri dirigenti. La rete di relazioni che abbiamo con numerosi
intellettuali e portatori di saperi sociali – iscritti/e e non al partito – ci garantiscono l’accesso ai saperi necessari
e gli strumenti telematici ci permettono di sviluppare a costo zero questa attività.
Riteniamo quindi che la Direzione Nazionale debba discutere e varare, subito dopo il congresso, un piano
di formazione permanente che abbia le caratteristiche sopra indicate. - Enti Locali e lotta per i diritti delle cittadine e dei cittadini
Nei decenni, la furia neoliberista Si è abbattuta pesantemente sugli enti locali, tagliando pesantemente gli
organici, riducendone gli stipendi, precarizzando ed esternalizzando il lavoro. Oltre a questo, consistenti tagli
ai trasferimenti diretti hanno incentivato la riduzione di servizi ai cittadini e le privatizzazioni sostenute sia dai
partiti del centro-destra che da quelli del centro-sinistra, uniti dal mito dell’efficacia ed efficienza.
Il caso più rilevante è quello della privatizzazione dell’acqua pubblica, spesso con l’affidamento a multiutility
sostenute nel Nord soprattutto da personale politico e amministrativo del Pd, che ha progressivamente
sottratto ai comuni il controllo di un bene comune reso sempre più scarso a causa dei cambiamenti climatici,
per il quale è in gestazione una nuova spinta privatizzatrice da parte del nuovo governo. Ma la stessa cosa si
può dire per altri servizi, come i trasporti e la gestione dei rifiuti.
Il Comune vede ridotto in modo significativo il ruolo di riequilibrio sociale proprio nel momento in cui milioni
di lavoratori, in particolare i giovani e le donne sole con figli, hanno salari sotto il minimo necessario, i
pensionati non arrivano a fine mese, la povertà è sempre più diffusa e in molte città è pressoché impossibile
affittare una casa. Sulla mancanza di servizi prosperano le politiche familistiche conservatrici delle destre che
sostituiscono i diritti con l’elargizione dei vari bonus, sui quali costruiscono il consenso elettorale.
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A fronte di questi bisogni, che avrebbero richiesto una maggiore apertura alle istanze sociali, la risposta è
stata l’emanazione di leggi elettorali ipermaggioritarie che hanno reso i Comuni sempre più impermeabili alla
domanda di diritti delle cittadine e dei cittadini.
A questo si è aggiunto negli anni il progressivo svuotamento dei poteri del consiglio comunale e
l’accentramento dei poteri nella figura del sindaco, cosa che ha favorito i fenomeni di corruzione in cui si sono
distinti sia le destre che il centrosinistra.
Questa situazione pone all’ordine del giorno la necessità di lottare per il ripristino della centralità delle
assemblee elettive nei comuni e negli enti locali di livello superiore per ripristinare istanze fondamentali di
rappresentanza proporzionale e democratica.
In questa situazione è chiaro che non basta costruire dei buoni programmi: è oggi più che mai necessario che
il programma venga costruito in stretta connessione con i soggetti sociali organizzati, di cui i candidati e le
candidate devono essere espressione diretta, espressione delle più diverse forme di organizzazione nei vari
terreni in cui si può esprimere la domanda di diritti, dalla casa alla scuola, agli asili nido, all’ambiente e al
territorio.
Il primo problema non è dunque quello delle alleanze, ma la costruzione delle condizioni di partecipazione
dal basso attraverso lotte, pratiche sociali e mutualistiche, vertenze sulla base delle quali costruire i
programmi, che diano voce ai reali bisogni popolari, difendano l’ambiente e i beni comuni.
Sulla base di questa ispirazione di fondo e di programmi condivisi, proponiamo a livello regionale e nelle città
medio-grandi la costruzione di coalizioni – valutando di volta in volta l’uso del simbolo del partito – che
condividano i programmi verificati nella costruzione di forti legami sociali locali e si pongano in alternativa
alle forze di centrodestra e centrosinistra che hanno sostenuto e tradotto a livello nazionale e locale le
politiche neoliberiste e di attacco ai diritti economici e sociali delle persone.
Non è quindi possibile allearsi con forze che, come il Pd, non solo hanno portato avanti a livello nazionale le
politiche neoliberiste, ma anche a livello locale si sono distinte nelle scelte privatizzatrici, nella realizzazione
delle grandi opere, nelle peggiori operazioni di speculazione edilizia, nel consumo di suolo, nella promozione
di ipermercati e di megastrutture invasive per il profitto delle multinazionali.
Nei comuni sotto i 15 mila abitanti, nei quali le leggi elettorali sono particolarmente antidemocratiche, la
presenza organizzata dei partiti spesso è nulla o molto limitata. In questi casi la nostra indicazione è la
costruzione di liste civiche non direttamente partitiche, che, esprimano un’idea di cambiamento,
un’alternativa alle politiche neoliberiste, che mettano al primo posto la tutela dei diritti e dell’ambiente e
siano radicate nella realtà locale rappresentando comitati, associazioni movimenti, forze della sinistra
alternativa, che promuovano la partecipazione e garantiscano la piena autonomia e distanza da fenomeni e
condizionamenti clientelari.
- Cambiare il modo di lavorare nel partito
L’attuale modo di funzionare del partito non valorizza che in minima parte i saperi e le competenze dei e delle
militanti e non produce sinergie in grado di moltiplicare il lavoro politico. Tolte le raccolte di firme, pochissime
volte il partito è chiamato a lavorare come un corpo collettivo. In questo modo le poche forze tendono a
disperdersi in una miriade di attività poco visibili e poco incidenti sulla realtà del Paese. Occorre superare
questo modo frammentato di funzionare, in cui ognuno agisce artigianalmente, per costruire
un’organizzazione che valorizzi al massimo le poche ma preziose forze militanti e che sia attrattive di nuove
energie.
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Il punto fondamentale su cui operare è la costruzione dei dipartimenti nazionali, come strutture in grado di
produrre analisi, proposte, materiali che permettano di svolgere il lavoro politico sui territori e materiali di
comunicazione facilmente diffondibili. I dipartimenti inoltre si debbono occupare di diffondere le buone
pratiche che avvengono sui territori o in determinati settori.
In altri termini, proprio a partire dalla nostra debolezza, dobbiamo promuovere e valorizzare i dipartimenti
nazionali come motori e facilitatori del lavoro politico sui territori. Dobbiamo aggregare attorno al lavoro dei
dipartimenti i compagni e le compagne disponibili, gli intellettuali che si occupano del tema in questione ed
essere produttori di iniziativa politica diffusa. Per non fare che un esempio, una campagna contro la guerra,
le spese militari e l’austerità, necessita di un dipartimento che funzioni, produca materiale, analisi, proposte
di iniziativa e tutte le cose che abbiamo citato poco sopra; la stessa cosa per fare una campagna contro le liste
d’attesa in sanità e così via in tutti i settori.
Riteniamo quindi indispensabile che la Direzione nazionale, subito dopo il congresso, decida i dipartimenti
di lavoro, ne fissi l’orientamento di massima da verificare periodicamente e decida di volta in volta le
campagne nazionali da agire come partito tutto, anche al fine di ricostruire una visibilità ed una
riconoscibilità della proposta politica di Rifondazione Comunista.
- Il rinnovamento generazionale
Occorre attuare con determinazione il passaggio generazionale nei punti apicali dell’organizzazione che era
già stato deciso allo scorso congresso. Si tratta di un problema di presentazione del partito, di immagine
complessiva, ma si tratta anche di adeguare il suo modo di funzionare e di comunicare alle nuove generazioni.
Se vogliamo rilanciare il tema del comunismo come prospettiva necessaria per dare un futuro all’umanità,
questo messaggio deve essere comunicato da chi oggi si misura con i problemi di un capitalismo distruttivo.
Il ricambio generazione è decisivo per rimettere il partito in condizioni di operare efficacemente e di
comunicare correttamente il proprio progetto politico. Questo non significa alcuna rottamazione. Abbiamo
bisogno di tutti e tutte, ad ogni livello; abbiamo bisogno di una vera discussione interna e di un vero confronto
tra posizioni politiche e tra generazioni. Ma abbiamo bisogno che questo confronto avvenga con i giovani
posti in condizione di sviluppare le loro capacità e assumere le loro responsabilità.
Valeria Allocati
Paolo Bertolozzi
Marina Boscaino
Paolo Ferrero
Mara Ghidorzi
Tonia Guerra
Cristian Iannone
Enrico Lai
Roberta Leoni
Nicolò Martinelli
Chiara Marzocchi
Dimitrij Palagi
Nello Patta
Tania Poguisch
Roberto Villani