Documento congressuale 1: fuori la guerra dalla Storia.

FUORI LA GUERRA DALLA STORIA.

PER UN’ALTERNATIVA ANTIFASCISTA E POPOLARE ALLA GUERRA E AL

NEOLIBERISMO

Verso il Congresso ……………………………………………………………………………………………………….2
Premessa …………………………………………………………………………………………………………………………2

  1. IL CONGRESSO………………………………………………………………………………………………………………2
  2. LA GUERRA. CAPITALISMO E GUERRA, CAPITALISMO E’ GUERRA…………………………………….3
  3. LA CRISI ECOLOGICA E L’EMERGENZA CLIMATICA………………………………………………………….7
  4. L’ ”EUROPA REALE” ……………………………………………………………………………………………………8
  5. LA CRISI DELLA SINISTRA EUROPEA………………………………………………………………………………..10
  6. SENZA LOTTA DI CLASSE NON C’E’ SINISTRA ……………………………………………………………….12
  7. DIRITTO AL REDDITO ……………………………………………………………………………………………………13
  8. SULL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE……………………………………………………………………………………14
  9. L’IMMIGRAZIONE COME QUESTIONE DI CLASSE …………………………………………………………….15
  10. INTERSEZIONALITA’ o ROSSOBRUNISMO ………………………………………………………………..17
  11. I NOSTRI REFERENTI SOCIALI……………………………………………………………………………………….19
  12. II Sud nelle guerre militari, economiche, climatiche. Per un socialismo meridiano…………….21
  13. LA CULTURA CONTRO IL FASCISMO E IL NEOLIBERISMO…………………………………………………23
  14. LA DEMOCRAZIA………………………………………………………………………………………………………..24
  15. LE CULTURE DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA……………………………………………………..26
  16. NON DELEGARE L’ANTIFASCISMO AL CAMPO LARGO …………………………………………………….26
  17. ANTIFASCISMO POPOLARE………………………………………………………………………………………….28
  18. COSA INTENDIAMO PER SINISTRA DI ALTERNATIVA?……………………………………………………..30
  19. IL RUOLO DEL PARTITO, AUTONOMIA E UNITA’ …………………………………………………………….31
  20. UN NUOVO QUADRO POLITICO …………………………………………………………………………………..34
  21. UN BILANCIO …………………………………………………………………………………………………………….36
  22. USCIRE DALL’ELETTORALISMO ESTREMISTICO ………………………………………………………………38
  23. LA NOSTRA PRESENZA NEGLI ENTI LOCALI…………………………………………………………………….39
  24. LA QUESTIONE DELLE ALLEANZE ………………………………………………………………………………….40
  25. Contro le destre una nuova coalizione popolare sarebbe necessaria o almeno auspicabile..41

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  1. PER UN’ALTERNATIVA ANTIFASCISTA ALLA GUERRA E AL NEOLIBERISMO: LA VIA MAESTRA
    DELLA COSTITUZIONE………………………………………………………………………………………………………43

Verso il XII congresso
“Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto,
bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando
dall’inizio. Mi sono convinto che bisogna sempre contare
solo su se stessi e sulle proprie forze, non attendersi niente
da nessuno e quindi non procurarsi delusioni. Che occorre
proporsi di fare solo ciò che si sa e si può fare e andare per
la propria via.”
(Antonio Gramsci dalla lettera al fratello Carlo del 12/9/1927)

Premessa
Questo testo si è sviluppato a partire dalle note proposte in commissione politica dal segretario per
un confronto costruttivo. Il titolo sintetizza con due slogan i compiti politici che sono di fronte al
partito: la lotta contro la guerra riprendendo il motto che ci ha lasciato in eredità la compagna Lidia
Menapace e la necessità di dare alla lotta contro l’ultradestra in Italia e in Europa un contenuto
antiliberista ed effettivamente orientato all’attuazione della Costituzione. Questo documento,
proposto e sottoscritto dalla maggioranza della commissione politica, va considerato come una
proposta di discussione sui nodi politici che abbiamo di fronte. Sarà asciugato, modificato e
integrato, sulla base delle proposte e del confronto con le compagne e i compagni del partito,
entro la prossima riunione del CPN come prevede il regolamento congressuale.

  1. IL CONGRESSO

Il congresso che ci attende dovrà affrontare la crisi che vive da tanti anni il nostro partito
in termini di adesioni, visibilità, radicamento sociale, concreta capacità conflittuale,
risultati elettorali. Possiamo andare orgogliosi della nostra coerente resistenza al
neoliberismo e alla guerra ma è doveroso un bilancio veritiero sul progressivo
indebolimento del nostro partito a partire dalla scelta che facemmo nel 2008 di costruire
“in basso a sinistra” un’alternativa ai due poli che non siamo riusciti a concretizzare. Non
si tratta di rinunciare alle nostre ragioni ma di non rimuovere la necessità evidente di una
riflessione critica. L’apertura del percorso congressuale non è semplicemente una
scadenza statutaria ma corrisponde a una necessità di riflessione collettiva per affrontare
le difficoltà che il nostro partito vive da più di un quindicennio e il quadro nuovo che si è

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determinato nell’ultimo triennio sul piano internazionale, in Europa e anche nel nostro
paese. Si rendono necessari una riflessione strategica e un confronto costruttivo che
coinvolgano l’insieme del nostro corpo militante.

  1. LA GUERRA. Capitalismo e guerra, capitalismo è guerra

La globalizzazione capitalistica seguita all’implosione del sistema sovietico sembrava aver segnato il
trionfo del capitalismo, rimasto senza avversari, al punto che i corifei del capitale parlarono di “fine
della storia”, cioè della fine del conflitto e di ogni conflitto.
Le cose non sono andate affatto così: al contrario, il capitalismo vincente secerne di continuo
dal suo stesso seno la guerra, guerre di ogni tipo. Mentre scriviamo, sembra che le guerre
guerreggiate in corso nel mondo assommino alla cifra impressionante di 56, forse mai come ora il
mondo è in guerra, il capitalismo realizzato è guerra
Gli ideologi del capitale sostenevano che le guerre derivavano dall’esistenza del nemico
comunista e dalla necessità di difendersene, ad ogni costo, anche a costo della guerra; ma in assenza
del comunismo internazionale e più ancora in assenza di qualsiasi messa in questione del primato
del capitalismo, chi e cosa provoca la guerra?
Già Karl Marx enunciò a suo tempo la legge della concentrazione crescente dei capitali
(ripresa e attualizzata dall’economista Emiliano Brancaccio): si tratta di un processo formidabile che
si svolge sotto i nostri occhi e che – naturalmente – non subisce alcun limite né controllo dato che
la ricchezza travalica in ogni senso gli Stati e il loro residuo potere, anzitutto il vecchio e anacronistico
potere di tassazione. Semmai sono gli Stati a ubbidire ai voleri del capitale finanziario, mettendogli
a disposizione anche gli apparati militari secondo le sue scelte e necessità.
Secondo Oxfam l’1% più ricco del pianeta possiede il 43% di tutte le attività finanziarie
globali. In Medio Oriente, l’1% più ricco detiene il 48% della ricchezza finanziaria; in Asia, l’1% più
ricco possiede il 50% della ricchezza; e in Europa, l’1% più ricco possiede il 47% della
ricchezza. Guardando all’Italia, a fine 2022, l’1% più ricco, sotto il profilo patrimoniale, deteneva una
ricchezza 84 volte superiore a quella del 20% più povero della popolazione.
Naturalmente questa enorme concentrazione di capitale non elimina le contraddizioni fra i
capitali, che aspirano ad estendersi anche dal punto di vista geo-politico, per assicurarsi materie
prime e mercati. Queste contraddizioni inter-capitaliste e inter-imperialiste non sono
sostanzialmente diverse da quelle descritte da Lenin che portarono alle guerre mondiali del
Novecento. Ma ora non si tratta solo dello strapotere del “complesso militare-industriale”, fatto di
accordi organici fra industria bellica, militari e potere politico, che già Eisenhower denunciava come
il pericolo per la democrazia. Ora c’è molto di più, e di peggio. La concentrazione dei capitali si riflette
in un’inaudita concentrazione di potere e di sapere, che è senza precedenti nella storia dell’umanità
e che ci parla ancora sempre di guerra.
Anzitutto perché gli oligopoli industriali e finanziari riassunti nell’acronimo GAFAM (che sta
per Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft) controllano e gestiscono i potenti strumenti legati
all’informatica, ai social media e alla cosiddetta “intelligenza artificiale creativa”. Quest’ultima segna
un passaggio davvero epocale, paragonabile solo all’applicazione delle macchine a vapore alla

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produzione che segnò la rivoluzione industriale del sec. XVIII: se allora fu sussunta nelle macchine
del capitale la forza muscolare dell’uomo, ora (realizzando un vaticinio di Marx) vengono sussunte
nel capitale l’intelligenza umana e la stessa creatività, con conseguenze che è perfino difficile
immaginare.
Quanto allo squilibrio di potere che ne deriva, basti dire che mentre noi, il consorzio degli
umani, non sappiamo quasi nulla di GAFAM e delle sue scelte, GAFAM sa tutto di ciascuno di noi e
da questo sapere illimitato trae profitto: conosce i nostri gusti e le nostre scelte, le nostre idee e le
nostre ricerche, le nostre innovazioni e i nostri ricordi, i nostri orientamenti politici, le nostre
comunicazioni più intime e segrete, i nostri testi, insomma viene posseduto, privatisticamente, il
senso del mondo. Non è ancora percepito come meriterebbe il fatto decisivo che tale
padroneggiamento privatistico del senso del mondo crea profitto, che ciascuno di noi viene fatto
partecipare al ciclo di valorizzazione del capitale, e che gli immensi profitti che ne derivano sono
integralmente appropriati da altri, senza che noi produttori di senso ci rendiamo neanche conto di
partecipare a questi giganteschi processi.
Le principali guerre attualmente in corso ci danno solo un assaggio (il peggio deve ancora
venire, e verrà) dell’impiego diretto del sistema di informazioni legato all’informatica e
all’intelligenza artificiale creativa per lo sterminio e la guerra.
Da notare che la guerra sembra più che mai essere fine a sé stessa, nel senso che il vero fine
della guerra è che la guerra possa esistere ed esista; nessuno può credere che davvero l’Occidente
o la Russia decidano di spendere miliardi di dollari e centinaia di migliaia di vite umane solo per i
territori del Donbass, né che il genocidio in atto in Palestina possa essere davvero motivato solo da
un desiderio di vendetta di Israele. No, il vero fine della guerra è che guerra vi sia, portando con sé
spese militari, profitti, e consensi.
Il capitalismo vive infatti una generale crisi di sovrapproduzione la quale è in continuo
aggravamento ed è, in via di principio, ineliminabile: esiste infatti contraddizione fra la produzione
capitalistica che tende ad essere, ed effettivamente è, illimitata, e le risorse del pianeta che sono
invece limitate. I problemi irrisolvibili dell’inquinamento e del riscaldamento climatico, con le loro
conseguenze catastrofiche, sono il segnale di questa contraddizione. D’altra parte è difficile vendere
tre automobili o quattro lavapiatti ad una stessa famiglia, nonostante quella follia generalizzata che
va sotto il nome di “obsolescenza programmata”. Tanto più che la sconfitta del movimento operaio
anche a livello sindacale ha consentito che i profitti venissero cercati nella riduzione del salario, sia
del monte-salario complessivo (per la riduzione numerica degli occupati) sia dei salari individuali,
tutto in obbedienza alle politiche di austerity dettate dal capitale finanziario internazionale, dalla
BCE e dal FMI. Ma questo determina un circolo vizioso: salari ridotti significano riduzione degli
acquisti e la riduzione degli acquisti aggrava la crisi di sovrapproduzione. La soluzione (miserabile e
temporanea soluzione) di questa crisi è consistita in processi di vera e propria de-industrializzazione
accompagnati dalla finanziarizzazione del capitale. L’Italia ne sa qualcosa: dopo aver spremuto per
decenni non solo la forza lavoro operaia ma anche i sussidi statali di ogni tipo, gli eredi Agnelli hanno
proceduto prima alla delocalizzazione delle centrali della Fiat (e della relativa possibilità di
tassazione), poi a fusioni che cedevano il comando ad altre industrie (FCA e ora Stellantis), infine
alla chiusura di fatto delle fabbriche ex-Fiat, con decine e decine di migliaia di disoccupati, spostando
i capitali nella speculazione finanziaria.

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In secondo luogo perché la fabbricazione e al vendita delle armi rappresenta la soluzione
possibile alla crisi si sovrapproduzione. Le armi sono la sola merce che può, e deve, essere
continuamente distrutta e rinnovata, in misura sempre crescente. Né si deve dimenticare che
essendo gli USA il luogo principale di produzione delle armi, quando si dice che sono state mandati
all’Ucraina o a Israele miliardi di dollari di armi si deve in realtà intendere che tali miliardi sono stati
mandati a sostenere l’economia USA. Ciò vale anche per l’Italia e per la principale fabbrica d’armi
Leonardo, a cui partecipano direttamente esponenti del centrosinistra e della destra, come Violante,
Guerrini, Minniti e Crosetto.
E la CE ha escluso le spese delle armi dal computo delle spese da considerare ai fini del deficit, e ciò
significa che le armi saranno l’unico luogo di investimento degli stati.
Come ha denunciato Noam Chomsky, il warfare si sostituisce così al welfare (la guerra si sostituisce
al benessere).
Il Documento Programmatico del Governo (settembre 2024) ha stanziato 32,3 miliardi per le armi
con un incremento di 1,6 miliardi (erano 30,7 miliardi l’anno precedente); ci si deve avvicinare al 2%
del PIL per le spese militari, come il padrone americano ha comandato. In particolare è previsto un
nuovo acquisto degli obsoleti F-35, passando da 90 a 115 velivoli complessivi (ogni aereo costa 280
milioni). Il voto al Parlamento europeo per la guerra del settembre 2024 (FdI, FI, PD) comporterà
altri 5 miliardi di spese militari.
Infine la guerra, gestita dal monopolio capitalistico dei mass media, crea anche consenso al potere,
facendo emergere e utilizzando le bestie del nazionalismo, del razzismo, del suprematismo
occidentale.
In questo senso se il fascismo genera guerra, la guerra genera fascismo.
La lotta contro la guerra e la militarizzazione delle relazioni internazionali, in questa fase storica
segnata dallo scontro tra il blocco occidentale e le potenze emerse dalla globalizzazione
neoliberista, è pertanto il nostro compito prioritario. La guerra mondiale a pezzi rischia di
trasformarsi in uno scontro militare diretto e in un conflitto nucleare. Siamo contro la guerra senza
se e senza ma. Ribadiamo il valore della posizione che abbiamo assunto dall’inizio dell’invasione
russa dell’Ucraina (direzione del 2 marzo 2022
https://www.rifondazione.app/direzionepolitica/220302/220302documento_approvato.html).
Rivendichiamo gli ideali dell’internazionalismo socialista e comunista che – con i principi della nostra
Costituzione nata dalla Resistenza e le elaborazioni dei movimenti pacifisti – continuano a essere la
nostra bussola in un mondo che il capitalismo precipita di nuovo nella guerra. Una sinistra degna di
questo nome non può che rifiutare di farsi arruolare in nome dell’atlantismo o di una presunta
superiorità dell’Occidente nella logica di guerra per riaffermare la supremazia unipolare degli Stati
Uniti o il ruolo dominante del dollaro negli scambi internazionali.
La sinistra, le/i comuniste/i, i movimenti sociali debbono rifiutare le logiche colonialiste, imperialiste
e suprematiste di un Occidente che è complice da mesi del genocidio a Gaza, cartina di tornasole
della reale natura della pretesa di giustificare il ricorso alla guerra con argomenti umanitari, di
ripristino della legalità internazionale, di affermazione dei principi democratici.

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Innanzitutto bisogna criticare l’imperialismo di casa nostra. L’imperialismo statunitense, che non
accetta di essere sfidato, alimenta lo scontro sul terreno militare per riconquistare l’egemonia
perduta, il che lo rende più pericoloso. Usa l’arma politica (“le democrazie”, cioè gli alleati degli Stati
Uniti, “contro le autocrazie”); l’arma economica, attraverso il dominio delle sue multinazionali, la
supremazia monetaria ed energetica; l’arma delle leggi extraterritoriali, illegali secondo il diritto
internazionale, imposte a paesi e aziende che commerciano con paesi da loro designati come nemici
a cui impongono sanzioni unilaterali a cui sovente si accoda l’UE; l’arma della NATO, alleanza che
avrebbe dovuto sciogliersi con il Patto di Varsavia e invece estende la sua sfera di intervento
all’intero globo. Gli USA usano la guerra per rilanciare la loro egemonia sull’Europa, le classi dirigenti
UE per rafforzarsi come polo militare e imperialista seppur subalterno, potenziare il proprio
complesso militare industriale, imporre politiche di austerità alle classi lavoratrici dei propri paesi.
La guerra provoca crisi economica, minaccia la stessa tenuta democratica e restringe ovunque gli
spazi di dissenso.
La liberazione dell’Italia e dell’Europa dalla NATO e per un sistema di comune sicurezza e per il
disarmo è un obiettivo strategico nella nostra lotta per la pace. Nell’immediato è fondamentale
costruire forti movimenti per il cessate il fuoco, in Ucraina come in Medio Oriente, premere affinché
il nostro paese sviluppi una posizione autonoma di trattativa e mediazione sul piano internazionale
in attuazione dell’articolo 11 della Costituzione, rilanciare gli organismi multilaterali, in particolare
la centralità e la funzione dell’ONU, che sono stati indeboliti dalle politiche neocon degli Stati Uniti
e riaffermare la necessità del rispetto del diritto internazionale, contrastare la nuova corsa agli
armamenti a partire dal riarmo europeo chiedendo il taglio delle spese militari.
La nostra critica dell’imperialismo statunitense non deve farci perdere lo sguardo d’insieme sulla
“totalità” di questa fase della “modernità capitalista” (Ocalan). Bisogna evitare di farsi trascinare
nelle polarizzazioni reazionarie dominanti. Nella guerra capitalista la nostra è la parte della pace non
quella di una nuova versione del campismo. Non bisogna dimenticare la lezione di Lenin, Rosa
Luxemburg e dei socialisti che si ritrovarono a Zimmerwald. Abbiamo condannato l’espansionismo
e la guerra per procura della NATO ma questo non può implicare una giustificazione dell’invasione
russa dell’Ucraina o l’esaltazione di Putin e della sua ideologia nazionalista e conservatrice. La nostra
solidarietà con il popolo palestinese non implica certo un giudizio positivo sul regime teocratico
iraniano. Lottiamo per la pace come condizione per lottare in tutto il mondo per la democrazia, la
liberazione da ogni forma di oppressione oscurantista, i diritti delle classi lavoratrici e delle donne,
la giustizia sociale e ambientale, per un socialismo del XXI secolo.
Va ben inquadrata da un punto di vista anticapitalista anche la questione del multipolarismo che di
fatto già esiste. Abbiamo la consapevolezza che non c’è nessun polo che sia alternativo al
capitalismo e i pericoli di guerra mondiale vengono proprio dalle contraddizioni fra i poli capitalistici.
Bisogna apprezzare il multipolarismo e per questo bisogna difendere il diritto internazionale,
restituire centralità e riformare l’ONU e le sue agenzie, creare un quadro di regole condivise,
costruire le condizioni economiche per la pace. Da sempre non riconosciamo la legittimità dei club
dei paesi ricchi come il G7 che pretendono di risolvere i problemi del mondo imponendo i propri
interessi. Per questo apprezziamo il ruolo positivo dei BRICS nel determinare la possibilità di mettere
in discussione la prepotenza degli USA e il ruolo dominante del dollaro negli scambi internazionali.
Non bisogna però compiere l’errore di scambiare i BRICS per uno schieramento antimperialista o
anticapitalista. Il nostro compito di comuniste/i è quello di lottare per la pace e proporre un ordine

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mondiale più giusto e democratico che sia fondato sulla cooperazione e il riconoscimento dei diritti
di tutti i popoli in un quadro di regole che tenda a scoraggiare il ricorso alla guerra. Bisogna fare i
conti col fatto che Europa ed Occidente non possono più essere considerati l’epicentro attorno a cui
ruota il resto del globo. È su questa base che il suprematismo bianco riemerge nelle nostre società
e tra le classi dominanti.
Un partito comunista, oggi più che mai, deve essere IL PARTITO DELLA PACE.
“Oggi ci troviamo di fronte alla scelta tra sterminismo e imperativo ecologico umano. La causa delle
due crisi esistenziali globali (guerra e cambiamento climatico) che minacciano la specie umana è il
capitalismo, con la sua irrazionale ricerca di una accumulazione esponenzialmente crescente e di
potere imperialistico in un ambiente globale limitato. L’unica risposta possibile a questa minaccia
illimitata è un movimento rivoluzionario universale radicato sia nell’ecologia che nella pace, che
cambi rotta rispetto all’attuale distruzione sistematica della terra e dei suoi abitanti e che offra come
alternativa un mondo di uguaglianza sostanziale e sostenibilità ecologica, vale a dire il socialismo.”
John Bellamy Foster, Note sullo sterminismo per i movimenti ecologici e pacifisti del ventunesimo
secolo, Montly Review 2024]

  1. LA CRISI ECOLOGICA E L’EMERGENZA CLIMATICA
    La gravità della crisi ecologica e l’emergenza rappresentata dal cambiamento climatico non possono
    essere affrontate con una logica che mette al centro gli interessi delle grandi imprese e del mercato.
    Oggi arretrano gli obiettivi di un Green New Deal europeo e la destra cavalca il negazionismo a difesa
    del capitalismo fossile o dei pesticidi.
    Mentre alle Conferenze delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici il mondo dichiara l’impegno a
    «abbandonare i combustibili fossili», le compagnie petrolifere e del gas si stanno muovendo nella
    direzione opposta, raddoppiando le trivellazioni che provocano danni al clima e alimentano disastri
    avvelenando noi, la nostra aria, la terra e l’acqua. Negli USA Trump definisce il cambiamento
    climatico una bufala e si schiera con i petrolieri, ma gli stessi democratici hanno continuato a
    autorizzare nuove estrazioni e il fracking vietato in Europa. La tendenza del capitalismo – modo di
    produzione fondato sull’accumulazione infinita di capitale attraverso lo sfruttamento del lavoro e
    della natura – è quella all’aumento del degrado ambientale e solo un’azione che ponga al primo
    posto i bisogni sociali e la salvaguardia degli equilibri ecologici può frenare le catastrofi prodotte
    dalla ricerca del profitto.
    È necessaria una critica dell’“ecologia di mercato” che non sfida il sistema capitalista. C’è bisogno di
    un punto di vista di classe e anticapitalista – senza dimenticare che i socialismi novecenteschi sono
    stati produttivisti e sviluppisti ignorando i limiti naturali – per affrontare la crisi ecologica. Bisogna
    costringere i poteri pubblici a imporre la riduzione delle emissioni climalteranti come a impedire la
    cementificazione selvaggia del territorio o l’avvelenamento delle acque e l’estinzione delle specie
    animali.
    Senza una “politica climatica del 99%” non ci sarà il consenso e una forza popolare per imporre
    un’autentica riconversione ecologica. La protesta degli agricoltori rapidamente recepita da governi
    e commissione europea dimostra quanto sia poco credibile una “transizione” che non pone in

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discussione il neoliberismo: invece di mettere in discussione le distorsioni della politica agricola
comune e l’agrobusiness si è rinunciato alla lotta contro i pesticidi.
Alla paura e al rifiuto della riconversione ecologica che si diffonde tra settori crescenti delle classi
popolari non si risponde assecondando il complottismo. il negazionismo, la propaganda della destra
contro l’ambientalismo ideologico. C’è bisogno di una visione ecosocialista e di un programma che
inserisca le trasformazioni necessarie per affrontare le emergenze ambientali entro una piattaforma
di giustizia sociale e di miglioramento delle condizioni di vita per tutte/i. La riconversione ecologica
dell’economia deve essere accompagnata dalla ricerca attiva della piena occupazione con pari
condizioni di lavoro e salario, la riduzione dell’orario di lavoro, un reddito di base, attraverso un
Green New Deal radicale che può essere frutto solo di una pianificazione democratica e partecipata
che abbia al centro il soddisfacimento di bisogni collettivi e il potenziamento dello Stato sociale.
Lavoratrici e lavoratori non devono essere posti nella condizione di dover temere la disoccupazione
a causa della riconversione ecologica ed energetica che, accanto alla riduzione dei posti di lavoro in
settori da riconvertire o superare, deve portare all’espansione di altre forme di occupazione verdi.
Sono necessari massicci piani di investimento europei affinché le aziende e i servizi pubblici possano
creare nuovi posti di lavoro e formare le persone ad essi destinate. C’è bisogno di un punto di vista
antimperialista perché i paesi del sud globale non solo hanno subito e subiscono le conseguenze
economiche e ecologiche della rapina di risorse che ha alimentato lo sviluppo capitalistico ma anche
l’impatto più forte del cambiamento climatico. Come insegna l’esperienza del movimento operaio
nella lotta contro lo sfruttamento capitalistico, va affiancata a una prospettiva ecosocialista la lotta
per obiettivi ravvicinati e progetti concreti. Le lotte immediate e le vittorie parziali sono
fondamentali per combattere il deterioramento ambientale. A lungo termine aiutano ad aumentare
la consapevolezza e a promuovere l’attivismo dal basso. Un partito della rifondazione comunista
non può che essere un partito ecologista e in questo senso va recuperata tutto il grande patrimonio
di saperi e lotte che hanno caratterizzato l’ecologismo in Italia con un forte ruolo dell’ecomarxismo
e un’internità alla sinistra e al movimento operaio. Di questa storia dagli anni ’90 Rifondazione è
stata parte attiva e dobbiamo lavorare per l’incontro tra questa tradizione e le nuove generazioni di
attiviste/i. Il dibattito internazionale nei movimenti e nelle università sulla riscoperta dell’ecologia
di Marx, sull’ecosocialismo e sul “comunismo della decrescita”, lo stesso slogan “cambiare il sistema
non il clima” mostrano come anche la catastrofe ecologica ponga il tema della rifondazione
comunista e del socialismo del XXI secolo.

  1. L’ ”EUROPA REALE”
    Con l’ultimo paper di Mario Draghi sulla competizione, tutto incentrato sulla scelta di fare della
    produzione militare l’asset fondamentale della UE per consentirne capacità di “difesa” ed
    affermazione nel nuovo quadro che si va determinando di conflitti permanenti si completa
    l’orizzonte in cui opera la UE. È un lungo processo di stravolgimento del modello sociale europeo e
    del compromesso democratico affermatisi dopo la vittoria sul nazifascismo. La costruzione europea
    già piegata all’ideologia neoliberista ora va alla guerra. Con profondi tratti ademocratici conseguenti
    alle scelte di edificarsi intorno al funzionalismo ed al metodo intergovernativo, senza regole
    classiche della rappresentanza. Le tappe salienti di questo processo sono state Maastricht, trattato
    segnato da un’impronta ideologica indelebile, l’austerità, che trasferisce il controllo di bilancio fuori

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dalla disponibilità dei Parlamenti, la guerra, che diviene la funzione dominante della UE. Queste
tappe concrete sono state accompagnate da un intenso processo di revisionismo storico che ha
riguardato tutta la Storia del’900. La Commissione Von Der Leyen rappresenta il punto attuale di
gestione di questo processo. La retorica del conflitto tra europeisti e nazionalisti non può
nascondere le importanti convergenze che, grazie al metodo intergovernativo, si realizzano da
entrambi i lati nell’operare concreto, dalla guerra ai migranti. L’affermazione crescente di destre
reazionarie è stata favorita dalle politiche neoliberiste e di guerra che creano impoverimento e
disuguaglianze crescenti. Lungi dal procedere in una politica di integrazione sociale i 35 anni seguiti
a Maastricht hanno visto confermarsi squilibri profondi interni all’area UE. La stessa partecipazione
di fatto alla guerra con la Russia, agita dalle classi dirigenti per rafforzare il proprio ruolo sia pure
subalterno, sta creando incertezze di prospettiva e potenziali divisioni come mostra il recente voto
nei Land tedeschi dell’Est, avvenuto nel quadro di una Germania in recessione. Per altro a fronte di
una rigidità del sistema volta ad impedire scelte sociali progressive. Lo strangolamento del governo
di Tsipras in Grecia è stato l’esempio estremo. Ma la protervia di Macron in Francia a non consentire
un governo di Fronte Popolare per ragioni sociali che si chiamano salario minimo e pensioni ricorda
che, in particolare, su queste ultime, c’è una vera e propria morsa da parte della UE.
Rifondazione Comunista è stata protagonista dei tentativi più importanti e generosi di costruire
un’Altra Europa. Di cogliere cioè la centralità di questa nuova dimensione della politica e di provare
a costruire un europeismo politico e sociale profondamente diverso da quello “reale”. Siamo stati
determinanti nella realizzazione del gruppo parlamentare che nacque dalla confluenza di comunisti,
“nuova sinistra” e verdi alternativi. E del Partito della Sinistra europea che ha provato a dare un
primo strumento politico e non solo istituzionale per affrontare questa nuova dimensione politica.
Siamo stati protagonisti dei social forum europei, dei movimenti pacifisti eredi della lotta agli
euromissili, di quelli per i migranti, delle mobilitazioni contro l’austerity neoliberista.
Purtroppo tutto ciò non è stato sufficiente ed adeguato a contrastare la forza e la determinazione
dell’azione dei dominanti. È mancato in particolare un vero movimento operaio europeo che agisse
al livello a cui stavano operando le borghesie. Ora la crisi investe lo stesso Partito della Sinistra
Europea con la formazione di un altro soggetto che mette insieme forze provenienti da diversi
percorsi storici e nazionali sottraendone anche a Sinistra Europea. Questo soggetto può essere visto
come voglia di emanciparsi dalla storia comunista che segna in parte Sinistra Europea. E mostra
contraddizioni ancora più accentuate di quelle di Sinistra Europea sul terreno cardine della guerra.
Rifondazione comunista non si rassegna alla divisione ed opererà per il dialogo, per mantenere ed
estendere il ruolo del gruppo parlamentare The Left rafforzatosi con l’ingresso del M5S, e del Partito
della Sinistra Europea lavorando ad evitare lacerazioni e per mantenere e ricostruire un quadro
politico e d’azione unitario delle sinistre alternative. Affrontando i nodi aperti come quello della
costruzione della Pace, di un nuovo internazionalismo, della ripresa di uno slancio sociale e
democratico.
Per farlo occorre che si rilanci nello spazio politico europeo, che esiste a prescindere dalla nostra
volontà, un agire politico e di movimento di classe, pacifista, internazionalista, sociale e
democratico, femminista e ecologista. C’è bisogno che come a suo tempo lo spazio dello Stato
nazione fu occupato dalla strategia dei movimenti operai e socialisti si costruisca una capacità di
iniziativa con una piattaforma radicalmente alternativa all’Europa reale delle élites burocratiche e
nazionaliste; che si combattano le destre sul terreno in cui prosperano e cioè il revisionismo storico

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e il malessere sociale crescente; che si esca dalla “guerra costituente” ritrovando la funzione di
soggetto per la Pace che fu l’impegno solenne assunto al termine delle due guerre mondiali nate dal
seno della vecchia Europa; che si esca dall’impianto neoliberista di Maastricht e si costruisca una
Europa della integrazione sociale, delle politiche di occupazione, di crescita dei redditi, di nuovo
welfare comprensivo del reddito universale, di libertà ed integrazione per tutti contro ogni
discriminazione. Di libertà di movimento per le migrazioni che impediscano condizioni di
asservimento neo schiavista del nuovo lavoro globalizzato e permettano la formazione di un nuovo
movimento operaio mondiale e di sue organizzazioni. Di conversione ecologica non per il sistema
capitalistico e di mercato pagata dai più deboli ma per fuoriuscire da esso ed affrontare la crisi
climatica ormai presente in modi incombenti nel solo modo possibile e cioè un nuovo paradigma
produttivo e sociale fondato sulla giustizia sociale, climatica e ambientale.
Serve un’Europa democratica. La contraddizione vera non è tra “europeisti” e “sovranisti”: entrambi
infatti non si basano sulla democrazia ma sulla sua marginalizzazione, entrambi portano avanti
politiche neoliberiste, quasi tutti anche politiche di guerra. La contraddizione vera è tra un’Europa
in cui domina il punto di vista del capitale e un’Europa in cui le classi lavoratrici tornano ad avere un
peso sulle scelte. Nel suo modo di funzionare, tra intergovernativismo e democrazia. Tra
riduzionismo e possibilità di alternative. La costruzione di corpi e soggetti sociali a dimensione
europea, capaci di pensare e agire localmente e globalmente, è fondamentale. Così come la
ricostruzione di una centralità dei parlamenti contro le derive burocratiche e presidenzialiste. Sono
i Parlamenti a dover essere, anche in sinergia tra loro, il cuore di un’altra Europa. È sbagliata la
contrapposizione tra spazi nazionali e spazi europei. Bisogna essere capaci di intervenire su
entrambi i livelli come fanno le classi dirigenti capitalistiche che sono meno dogmatiche delle sinistre
alternative. Se il “sovranismo” dell’estrema destra è insostenibile, lo è anche l’ideologia
“europeista” del centrosinistra che ha confuso Ventotene con Maastricht. Come denunciò all’epoca
Lidia Menapace solo Rifondazione Comunista chiese di inserire nei trattati i principi fondamentali
della nostra Costituzione, tra cui il ripudio della guerra. È questa UE che ha aperto la strada alla
rinascita dell’estrema destra in Europa.

  1. LA CRISI DELLA SINISTRA EUROPEA

La formazione di un nuovo partito politico europeo European left alliance for the people
and the planet (ELA) che nasce per iniziativa di partiti nordici, France Insoumise,
Podemos e Bloco de Esquerda, alcuni dei quali fuoriescono dal Partito della Sinistra
Europea, mette in luce una situazione di crisi che non comincia oggi. Da tempo questo
intendimento politico era in corso di organizzazione. Oggi che si compie è necessario
riuscire a comprendere le ragioni e trovare risposte adeguate. Un partito come il nostro,
sia pure senza rappresentanza parlamentare, ha il dovere ed anche l’autorevolezza che
deriva dall’essere stati motore decisivo nella formazione del Partito e, ancor prima, del
Gruppo parlamentare che ad oggi non rischia separazioni ma è evidentemente diviso in
particolare su un tema fondamentale come la guerra. Divisione che non può essere
risolta cambiando la natura confederale del gruppo per una fondata su logiche di
maggioranza perché questo non risolverebbe i temi politici. Così come la soluzione per i

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problemi del Partito non può essere il dare la funzione decisionale a chi ha maggiore
rappresentanza parlamentare. Sono logiche, queste, che riecheggiano le proposte di
risolvere i problemi della UE prevedendo il voto a maggioranza in Consiglio Europeo. Per
altro è strano che vengano prospettate anche da forze che hanno mantenuto rispetto
alla UE un forte impianto nazionale. La nostra azione politica deve essere volta ad evitare
lacerazioni permanenti e a ricostruire una unità attraverso un rilancio del dibattito e della
azione politica. Naturalmente noi confermiamo il nostro impegno nel Partito della
Sinistra Europea, per la sua permanenza e per una sua nuova estensione mantenendo
un dialogo costruttivo con il nuovo soggetto europeo in vista di una ricomposizione.
Analogamente verso il gruppo parlamentare dove l’ingresso del M5S da noi apprezzato
ha favorito un allargamento ed anche un rafforzamento delle posizioni pacifiste.
I problemi del Partito della Sinistra Europea sono di varia natura. La dimensione europea
della politica non è stata assunta purtroppo dal movimento sindacale come si è visto per
l’approvazione del nuovo patto di stabilità e in questo quadro è difficile che operi una
soggettività politica europea che intende portare avanti le istanze delle classi lavoratrici.
La fondazione del Partito è stato un atto importante che ha dato frutti sul terreno del
sostegno alle mobilitazioni sociali, del contrasto a Maastricht ed alla sua
costituzionalizzazione, contro l’austerità. Più difficile è stata l’assunzione del compito di
operare come vero soggetto politico nel cercare di ribaltare l’impostazione della UE e
immaginare un’altra Europa.
Molto hanno pesato le dinamiche nazionali. Sia come propensioni politiche come nel
caso delle impostazioni nordiche avverse all’Europa, ma anche e soprattutto nelle
divisioni poi proiettate sullo scenario europeo. Nessun dibattito sull’Europa, compreso
quello sul piano B, è risultato lacerante. Lacerano invece le conflittualità in Francia,
Spagna, Portogallo ma anche in Italia dove SI non ha perseguito l’unità delle forze della
Sinistra Europea ma con i verdi. Pesano anche le matrici identitarie con una tendenza di
alcune forze a volersi “emancipare” dalle forze comuniste. Pesa la volontà di avere un
“proprio strumento”. Pesano le crisi di soggetti fondatori come il nostro partito e la Linke.
Proprio la vicenda tedesca è emblematica con una scissione e una forza, la BSW, che si
colloca anche fuori del nuovo partito europeo che sta nascendo. Certamente è la guerra
la cassa di risonanza di questa crisi. In particolare per le forze nordiche che ora
sostengono NATO ed azioni belliche. Anche qui c’è un arretramento su dimensioni
subalterne alla collocazione nazionale. Di più c’è una interpretazione del conflitto che si
allontana molto da quella capacità di leggere la guerra permanente e preventiva e di
mobilitarsi contro di essa che aveva avuto il movimento dei movimenti. C’è una
“confusione teorica” figlia di un arretramento drammatico nell’essere soggetto
portatore di un’alternativa di società.
Noi dobbiamo lavorare per superare questa crisi e questa impasse. Per farlo serve non
solo dibattito politico ma costruire una dimensione di massa della politica europea della
sinistra alternativa ed ora in particolare della lotta alla guerra e per la pace. Lavoriamo
perchè in questa direzione si rilanci l’iniziativa del Partito della Sinistra Europea.

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  1. SENZA LOTTA DI CLASSE NON C’E’ SINISTRA
    Il movimento di classe vive da oltre trent’anni in un bozzolo letargico che è il sedimento, ormai
    cronicizzato, da un lato di storiche sconfitte maturate sul campo (disfatta alla Fiat, 1980;
    cancellazione della scala mobile, 1991; pacchetto Treu, 1997, con l’aggiramento della forma
    canonica di assunzione a tempo indeterminato attraverso l’introduzione di un ventaglio di contratti
    di lavoro caratterizzati da un alto coefficiente di flessibilità e di precarietà; articolo 18 dello Statuto
    dei lavoratori, depotenziato con la legge Fornero nel 2012, quindi definitivamente soppresso con il
    Jobs act, nel 2016); dall’altro da una sostanziale capitolazione concettuale e di principio che ha
    determinato la resa culturale del sindacato al primato della competitività d’impresa a cui
    subordinare modi e contenuti della contrattazione (accordo 22 luglio 1993 fra Confindustria,
    sindacati e governo). Legge 30 e legge Sacconi
    Da quel momento cambiò tutto: le piattaforme contrattuali si mossero dentro un perimetro
    prestabilito che cancellava ogni traccia dell’autonomia negoziale del sindacato. La vulgata, cui
    concorse lo stesso sindacato, definì le nuove regole come “concertazione” fra le parti. In realtà, da
    quel momento non si concertò proprio nulla: il livello nazionale delle retribuzioni fu costretto dentro
    parametri compatibilisti, fissati in perfetta armonia dal governo e dal sistema delle imprese; la
    dinamica del salario aziendale venne invece vincolata a parametri di produttività e ancor più spesso
    di redditività delle imprese: imperscrutabili indici di bilancio, che escludevano qualsiasi ruolo attivo
    di lavoratrici e lavoratori e delle loro organizzazioni, fissavano se e quanto dovesse essere
    riconosciuto ai lavoratori a titolo di “premio di produttività”. Un’intera schiera di sindacalisti si è
    formata dentro questa logica perversa che portò ad una caduta secca del salario reale dei lavoratori
    e ad un contemporaneo disarmo della capacità di mobilitazione. Era passata l’idea che il conflitto
    fosse una patologia delle relazioni sociali. Vi furono resistenze, e ancora qui e là si registrano, nelle
    aree tradizionalmente più combattive del sindacalismo italiano, fra i metalmeccanici della Fiom in
    particolare e in aree dove le tradizioni di lotta del movimento operaio erano state più robuste, ma
    la direzione di marcia era segnata. Oggi si assiste a primi timidi segni di riflessione autocritica del
    sindacato, per lungo tempo latenti. Ne è un segno l’iniziativa dei referendum della Cgil per la
    soppressione del Jobs act, per cancellare l’abuso dei contratti a termine, per inserire qualche tutela
    per i dipendenti delle piccole aziende e per mettere mano nella giungla rappresentata dal sistema
    degli appalti. Sono primi passi, per frenare la discesa su un piano inclinato che sembra non avere
    mai fine.
    Quello che però va ricostruito è un punto di vista di classe:
  • una strategia di medio e lungo periodo che affronti i temi fondamentali del salario e dei diritti (varo
    di un’offensiva contrattuale su larga scala per un aumento secco dei salari, per la reintroduzione di
    un meccanismo di indicizzazione di tutte le retribuzioni, per la fissazione di un salario minimo legale
    indicizzato e per il ripristino di irrinunciabili diritti individuali e collettivi dentro i luoghi di lavoro);
  • la costruzione di un modello contrattuale inclusivo, capace cioè di tenere insieme gli interessi di
    ciò che resta della classe operaia “centrale”, con quelli dell’arcipelago dei lavoratori precari, con
    quelli di tutte le persone che lavorano in regime di eterodirezione, con le cd “partite Iva”, con i
    disoccupati: una vera e propria strategia tesa a ridefinire i contorni sociali, molto ampi di una
    ricomposizione di classe: l’opposto diametrale della frantumazione che è il segno distintivo della
    situazione presente;

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  • la lotta per una normativa civile, per un inasprimento penale, contro la pratica di appalti e
    subappalti al ribasso e per un implemento degli organici di controllo nei luoghi di lavoro che renda
    l’elusione delle leggi sulla sicurezza un prezzo che le aziende non si possano più permettere;
  • la ricostruzione di una strategia generale di riduzione degli orari di lavoro a parità di salario
    (l’innovazione tecnologica, dai processi di digitalizzazione agli sviluppi e alle applicazioni
    dell’intelligenza artificiale (AI) produrranno una caduta verticale dell’occupazione e, fatalmente, una
    radicale rimessa in discussione di trattamenti pensionistici, compresi quelli in essere). La progressiva
    riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore settimanali è la risposta razionale, politicamente necessaria,
    per evitare un tracollo sociale e un’involuzione democratica di inedite proporzioni.
    In questo quadro è fondamentale rilanciare la rivendicazione del reddito di base come condizione
    di autodeterminazione in un contesto caratterizzato da precarietà, lavoro povero e sottopagato,
    disoccupazione.
    I rapporti di forza tra le classi si determinano dentro il contesto determinato dalla finanziarizzazione
    del capitalismo, dalla sempre più forte centralizzazione capitalistica e dalle scelte macroeconomiche
    neoliberiste a livello nazionale e europeo. È dunque vitale costruire una piattaforma europea e
    nazionale incentrata sugli interessi e i diritti della maggioranza sociale della popolazione e delle
    classi lavoratrici e farne oggetto di campagne politiche adeguate. Il ritorno del Patto di Stabilità
    rappresenta una sconfitta di enorme dimensioni la sua logica antisociale va contrastata a tutti i
    livelli.
    È compito imprescindibile delle/dei comuniste/i rappresentare il lievito di una ripresa generalizzata
    delle lotte, di un ripensamento critico delle ragioni soggettive che hanno prodotto l’attuale, lunga
    notte di stagnazione, il cui protrarsi diventerebbe un’ipoteca seria per la stessa democrazia. Per
    farlo è necessario non isolarsi rispetto a nessun ambito di lotta, organizzazione e protagonismo delle
    classi lavoratrici, relazionarsi con la Cgil e i sindacati di base, con la nostra autonomia e spirito
    unitario, fare inchiesta e socializzare saperi, caratterizzarsi per lo spirito unitario e non rinchiudersi
    in logiche settarie che spesso hanno poco a che fare con una effettiva radicalità. È necessario
    praticare la convergenza tra movimenti di cui ha dato un grande esempio la lotta della GKN,
    costruire campagne politiche che rimettano al centro i temi del lavoro come abbiamo fatto con il
    salario minimo, contribuire alla ricostruzione di una cultura, di un punto di vista, di un’analisi di
    classe. Un partito comunista non può non darsi l’obiettivo di tornare a essere effettivamente un
    partito di classe non per le enunciazioni e le posizioni programmatiche che non abbiamo mai
    smarrito, ma per radicamento, capacità di intervento e di orientamento, composizione sociale e
    strategia. Questo può avvenire solo attraverso una lettura approfondita della realtà presente e delle
    tendenze che si stanno dispiegando. Le “cassette degli attrezzi” teoriche e pratiche del passato, la
    storia e la memoria del movimento operaio sono una miniera di saperi e esperienze a cui attingere
    se ne sapremo fare un uso critico.
  1. DIRITTO AL REDDITO
    Rifondazione Comunista sostiene da tempo la necessità di introdurre in Italia una qualche
    forma di reddito di base. Siamo stati tra i promotori nel 2013 di una legge di iniziativa
    popolare per il reddito minimo garantito, abbiamo criticato il reddito di cittadinanza

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introdotto in Italia dal M5S perché limitato nella platea dei beneficiari e troppo segnato da
condizionalità di costrizione al lavoro. Lo abbiamo difeso dall’attacco dei neoliberisti e del
governo Meloni.
L’introduzione di un reddito di base non contrasta e non va contrapposta alla rivendicazione di
politiche economiche per la piena occupazione, di riduzione dell’orario di lavoro, di abbassamento
dell’età pensionabile, di lotta contro la precarizzazione del lavoro. E tantomeno al conflitto di classe.
Il reddito di base va inteso non solo uno strumento di lotta contro la povertà e l’esclusione, di
garanzia del diritto all’esistenza degna per tutte e tutti, ma anche di autodeterminazione, maggiore
forza contrattuale e libertà rispetto al ricatto della disoccupazione al contrario delle impostazioni di
“workfare” volte a disciplinare la forza lavoro in un regime di bassi salari e precarietà.
L’accrescimento della produttività del lavoro nelle società a capitalismo avanzato si presenta da un
lato come aumento della disoccupazione e della sottoccupazione e dall’altro come maggior
sfruttamento e perdita del potere contrattuale per gli occupati e le occupate come Marx aveva
predetto. La maggiore produttività del lavoro non viene finalizzata al conseguimento di obiettivi
sociali ma si traduce in crescita della disuguaglianza e della concentrazione del capitale e della
ricchezza mentre si impoveriscono le società e si riduce il welfare.
La lotta per il reddito è inscindibile dalla lotta contro il neoliberismo, contro lo sfruttamento del
lavoro produttivo e riproduttivo, per la tassazione di ricchi super-ricchi, capitale finanziario e
multinazionale, per la riaffermazione del ruolo del pubblico come occupatore diretto e il rilancio
dell’obiettivo strategico della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, per l’introduzione di
un salario minimo legale e la piena e buona occupazione.

  1. Sull’Intelligenza artificiale
    Scrivevano Marx e Engels, nel Manifesto del Partito Comunista del 1848, che “la borghesia non può
    esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione,
    quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali”.
    E in effetti, le grandi trasformazioni tecnologiche applicate ai processi produttivi hanno sempre
    avuto, nel corso della storia, una potenziale ambivalenza: rappresentare la possibilità di un
    affrancamento umano dal lavoro, soprattutto quello gravoso e ripetitivo, oppure materializzarsi
    come un’ulteriore capitolo dello sfruttamento e dell’asservimento dei lavoratori al capitale. Nel
    tempo presente, attraverso il processo di digitalizzazione e, soprattutto, in ragione dell’affacciarsi
    pervasivo dell’Intelligenza artificiale generativa (AI) in ogni campo dell’attività produttiva, siamo
    posti di fronte ad un ulteriore e per certi versi decisivo capitolo della storia umana, un vero e proprio
    salto di paradigma destinato a mutare profondamente la realtà in cui viviamo. E ciò non soltanto
    per la pesantezza, in dimensioni mai sperimentate prima, che l’impatto del nuovo “salto”
    tecnologico avrà sull’occupazione, ma – ancor più – per il processo di concentrazione della ricchezza
    e – in misura esponenziale – del potere nelle mani dei detentori del capitale o, per meglio dire, di
    un pugno sempre più ristretto, di proprietari universali.
    Con un duplice risultato: l’inaudito aumento della disuguaglianza fra gli Stati e, all’interno di essi, fra
    le classi sociali, e la definitiva compromissione di ciò che resta della democrazia.

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La sfida che ci coinvolge consiste dunque in questo: fare della scienza applicata al processo di
produzione un grande strumento di liberazione, oppure subire l’affermarsi di una società del
controllo e dell’ingiustizia mai sperimentata sino ad ora.
Ecco perché diventa per i comunisti un compito impellente, non differibile, quello di porre a tema,
oggi, non domani, una questione che non sta più solo sotto la pelle della storia, ma che si presenta
come un’urgenza assoluta del presente, come un bivio che si pone davanti al genere umano: la
trasformazione della proprietà capitalistica in proprietà sociale, l’attualità del socialismo, oppure il
tracollo verso una nuova, sofisticata dimensione dell’asservimento.

  1. L’IMMIGRAZIONE COME QUESTIONE DI CLASSE
    “Le conquiste di quella parte del proletariato che si trova in una condizione più favorevole, saranno
    sempre messe in pericolo finché ne godrà solo una minoranza” […] “Ciò vale per le masse all’interno
    di un paese, come per tutto il mercato mondiale. Un proletariato di avanguardia può mantenersi
    solidarizzando, appoggiando quelli che sono rimasti indietro, e non separandosi da essi, non
    distaccandosene non opprimendoli. Là dove, sotto l’influenza di un miope corporativismo, il
    proletariato segue questo ultimo metodo, questo prima o poi fallisce e diviene uno dei mezzi più
    pericolosi per indebolire la lotta di emancipazione proletaria”. (Citazione da una comunicazione
    della Prima Internazionale tratto dai quaderni di Lenin su “Marxismo e imperialismo”)
    Le persone migranti, centinaia di milioni in tutto il mondo, sono in Italia parte essenziale della classe
    operaia. Lo dice anche l’alto tasso di sindacalizzazione, superiore a quello degli autoctoni nel nostro
    paese, e se non bastasse lo dicono, ancor meglio, le lotte di cui si sono resi protagonisti in un ganglio
    vitale della produzione delle merci come la logistica. Sono concentrati nei settori meno qualificati
    della forza lavoro e più sfruttati, hanno salari inferiori agli autoctoni, ma per questo non sono meno
    combattivi. Nel corso degli ultimi 50 anni la società italiana è fortemente cambiata nella sua
    composizione. Sono giunte nel Paese circa 5 milioni di persone, provenienti da gran parte del
    pianeta, intenzionate a migliorare le proprie condizioni di vita. Un cambiamento che ha riguardato,
    con diverse modalità, l’intero continente. La crisi del 2008 ha avuto, fra le tante conseguenze quella
    che sono diminuite le persone in arrivo per trovare occupazione e aumentate il numero di quelle
    che fuggivano da guerre, dittature, disastri climatici. Questo perché ormai, almeno dal 2011 l’Italia
    è considerata non più un paese in cui fermarsi ma di transito verso altri contesti, non solo europei,
    dove si intravvedono maggiori prospettive. In breve tempo l’Italia non è divenuta più, malgrado la
    vulgata xenofoba, un paese a rischio di invasione ma un paese di emigrazione. Ed è in tale quadro
    che dobbiamo intervenire nel presente. Le leggi che regolano la vita delle donne e degli uomini che
    non hanno la cittadinanza italiana, sono, sin dalla “Turco Napolitano” del 1998 ma soprattutto dalla
    “Bossi Fini” del 2002, leggi che tentano, spesso fallendo, di regolare il mercato del lavoro. La
    permanenza regolare è subordinata alla stipula di un contratto di lavoro, gli stessi ingressi
    considerati regolari si basano su tale legame che di fatto privatizza e rende merce la presenza delle
    persone.
    Rifondazione Comunista deve generalizzare un’opera condotta con significativi risultati, in alcuni
    suoi circoli e federazioni. Quella di far divenire i nostri, luoghi di aggregazione sociale per la
    costruzione di conflittualità di classe e aggregazione comunitaria. L’abrogazione di gran parte delle
    leggi in vigore è fondamentale ma può maturare solo in un terreno in cui le donne e gli uomini
    immigrati che lavorano siano sostenuti nelle loro rivendicazioni fondamentali: contratti, abitazione,

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accesso ai servizi sanitari, alla scuola in un’ottica di ricomposizione di classe. Alcune lotte, portate
avanti da movimenti ad oggi marginali debbono però divenire prioritarie. Ad esempio il progetto di
rendere permanente la possibilità di regolarizzare la propria presenza in Italia – circa 500 mila
persone risultano prive di diritto di soggiorno – non solo se in possesso di un contratto di lavoro ma,
almeno, se possono dimostrare di essere stabilmente presenti nel paese. Questo significherebbe
sottrarli al ricatto del lavoro nero e del caporalato. Sono poi partite una serie di campagne per
rivedere la legge che permette di avere la cittadinanza italiana, oggi basata sullo ius sanguinis
attraverso un testo del 1992.
Due le principali e non incompatibili strade intraprese: anzitutto una riforma radicale di tale legge
che porti a dimezzare i tempi in cui poter chiedere di divenire a tutti gli effetti cittadine/i italiane/i
(è fattore di vanto per il nostro Partito aver partecipato da protagonista alla raccolta di firme per la
riduzione del tempo di soggiorno richiesto per la cittadinanza) ; in secondo luogo il cosiddetto ius
scholae, che riguarda soprattutto le ragazze e i ragazzi nate/i o cresciute/i in Italia. Si tratta di una
vertenza non solo giuridica ma culturale, che permetta di rendere le persone presenti nel Paese più
libere, in grado di votare e quindi di poter avere un, seppur minimo, potere contrattuale in più.
L’altro grosso tema riguarda il diritto d’asilo e/o di protezione umanitaria, già sancito dall’art.10,
terzo comma della Costituzione: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo
esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel
territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.”
Eppure ciò è reso quasi impossibile dagli ultimi governi ed è destinato, con l’approvazione del
Piano europeo su immigrazione e asilo, a essere distrutto in nome della sicurezza. Va contrastata
l’istituzionalizzazione di ciò che già avviene con i respingimenti collettivi verso Libia e Tunisia, con la
criminalizzazione delle Ong, con la detenzione dei richiedenti asilo considerati arbitrariamente a
rischio di fuga. Il governo Meloni, come è noto, ha raggiunto un accordo col presidente albanese, il
socialista Rama, per delocalizzare alcune migliaia di persone in fuga in centri di detenzione in Albania
che rientrerebbero, in chiave coloniale, nella giurisdizione italiana. Ma questo è il dato più eclatante.
Anche la decisione, peraltro in continuità col centrosinistra, di aumentare i centri permanenti per il
rimpatrio, (CPR), sottraendo fondi del PNRR destinati alla realizzazione di spazi abitabili per chi
lavora in agricoltura, danno l’idea di un paese che, all’interno della fortezza Europa, decide chi
deportare, chi tenere in condizioni di subalternità e precarietà lavorativa e sociale e chi (una
minoranza) da inserire nei circuiti legali del mondo del lavoro. L’impronta culturale suprematista,
che ha attecchito anche nelle classi popolari e che delinea forme di razzismo esplicito e sdoganato
è il supporto ideologico e identitario in chiave nazionalista, che rende più forti le dinamiche di
gerarchizzazione sociale dello sfruttamento. Questa è la testimonianza concreta di una spietata
guerra contro i poveri, che riguarda la vita concreta, anche della nostra classe sociale di riferimento
dove la narrazione di una “coperta troppo corta”, porta a credere che escludendo i “non italiani”, si
possano migliorare le proprie condizioni. Il tributo di sangue pagato in questi ultimi 20 anni, col
Mediterraneo ridotto ad una fossa comune in cui giacciono almeno 30 mila uomini, donne e
bambini, che cercavano la salvezza e che vanno considerate vittime di una guerra silenziosa, sono il
paradigma concreto della militarizzazione del continente. La necessità di coniugare una reale libertà
di movimento e una vera cooperazione che consenta a chi vuole restare nel proprio Paese di restarci
e a chi intende migrare di farlo, in condizioni di sicurezza e diritti, è anche questa un momento di
lotta di classe internazionalista.

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  1. INTERSEZIONALITA’ O ROSSOBRUNISMO
    “Per ottenere vittorie contro il razzismo e il patriarcato, dobbiamo sfidare il capitalismo” Angela
    Davis
    «non riconosco legittimità di dichiararsi comunista a chi ignora il femminismo» Lidia Menapace
    Il transfemminismo intersezionale di Non Una di Meno e di altri gruppi è uno dei fenomeni di
    movimento che più sono emersi in questi anni, con grande partecipazione in particolare giovanile
    alle manifestazioni nazionali contro la violenza alle donne del 25 novembre e con lo sciopero
    transfemminista dell’8 marzo. Genere, razza e classe sono legati tra loro da molteplici fili, non
    sempre facili da districare, e non sempre intersezionalità è sinonimo di critica del capitalismo, ne è
    un caso la “diversity aziendale” che diventa momento di marketing senza cambiare i rapporti di forza
    all’interno delle aziende e producendo una patina di finta parità che sembra ispirata dall’Intelligenza
    Artificiale. Non è però questo il caso del movimento femminista, specie di quello della quarta e per
    ora ultima ondata, dove la visione marxista dello sfruttamento di classe, sia in termini di produzione
    che di riproduzione, espressa in chiari termini (per esempio in quel vero e proprio Manifesto
    femminista che è Femminismo per il 99% di Arruzza, Bhattacharya e Fraser). Le intersezioni
    troveranno il loro spazio nelle lotte, producendo non solo aspetti localizzati della lotta di genere,
    razza e classe? Esiste ancora la possibilità di un movimento globale che partendo anche
    dall’intersezionalità (che è, spesso, un percorso accidentato fra le complessità e contraddizioni dei
    soggetti e ci riguarda tutte e tutti) esprima la dimensione antirazzista, antisessista e internazionalista
    di un marxismo rivoluzionario: un marxismo che immagina la trasformazione comunista della
    società in un futuro non troppo lontano? È una domanda importante. In questo momento lavoriamo
    passo dopo passo, anche con difficoltà, invero, per ricostruire una dimensione transfemminista
    intersezionale nel Partito. Abbiamo aderito e partecipato alla manifestazione nazionale di Non Una
    di Meno nel novembre 2023 ed è stata subito dopo organizzata una giornata di incontri. Si sono
    realizzate campagne social di sensibilizzazione lgbtqia+ e transfemminista, anche un incontro su
    Instagram. Ci sono state importanti partecipazioni a vari Pride. Il Partito cerca di essere presente
    con comunicati che sensibilizzino alle questioni calde del movimento, incluse ovviamente la spinosa
    e urgente questione transgender (ricordiamo che la attuale legge 164 del 1982 che regola la
    transizione è ormai considerata arretrata dal movimento lgbtqia+) e la questione della negazione
    del diritto alla genitorialità non eterosessuale, su cui il governo Meloni conduce una battaglia di
    retroguardia, arroccata in luoghi comuni aggressivi e tentativi autoritari (vedi il tentativo di
    criminalizzazione delle madri lesbiche e negazione del diritto di cogenitorialità via Procura, a
    Padova). Siamo stati presenti sui territori anche nelle lotte contro lo smantellamento dei consultori
    e per il diritto all’aborto.
    Permangono tuttavia difficoltà a sviluppare una rete stabile che si interessi di questi temi dentro il
    partito. Assistiamo anche a qualche conflitto tra forme diverse di femminismo e di valorizzazione
    del ruolo delle donne nel Partito. Dal nostro punto di vista è necessario creare nuovi momenti di
    confronto ed elaborare una strategia intersezionale ben formata, che non parli solo alle donne
    bianche e native o eterosessuali o a chi ha gli strumenti di analisi del femminismo della differenza,
    relazionandosi con la sensibilità e le istanze dei movimenti della quarta ondata, che mettono in seria
    discussione anche il binarismo uomo/donna.

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I Pride e le manifestazioni di Non una di meno sono state le scadenze di mobilitazione che hanno
visto la più larga partecipazione, in particolare delle giovani generazioni. È sempre più forte nella
nostra area l’influenza non solo di posizioni più o meno rossobrune ma più in generale che tendono
ad assimilare i movimenti lgbtq+ e femministi al neoliberismo e persino all’imperialismo occidentale
o che li accusano di distrarre l’attenzione dai problemi dei ceti popolari e delle classi lavoratrici. Di
fronte alla “guerra culturale” della destra si tende a assumere il suo punto di vista e la sua immagine
del “popolo”. Questa narrazione contro “la sinistra fucsia” corrisponde da un lato al fatto che le
formazioni politiche di centro e centrosinistra hanno in parte fatto propri i diritti e le politiche
fondate sull’identità dando ad esse visibilità nella dialettica politica mentre portavano avanti sul
piano sociale politiche neoliberiste. Dall’altro questi movimenti sono cresciuti in termini di visibilità
proprio in una fase storica segnata dal rarefarsi del conflitto sociale e del lavoro. A questo si aggiunga
che le vittorie dei movimenti e lo spazio che le tematiche lgbtqi hanno sempre più assunto nei media
e nello spettacolo possono suscitare una reazione conservatrice in una parte dei ceti popolari,
soprattutto quelli a bassa scolarità, che non percepiscono attenzione sui loro problemi quotidiani.
È uno degli argomenti sostenuti da Sahra Wagenecht in Germania (analogo atteggiamento su
immigrazione) con un’impostazione che non va liquidata come rossobrunismo ma che piuttosto
riprende elementi di social-comunitarismo presenti nella storia della socialdemocrazia. Non si può
rimuovere la questione del peso di certi orientamenti a livello popolare, ma è evidente che assumere
il punto di vista dell’ultradestra contrasta con le pagine migliori della storia del nostro movimento e
con una concezione del socialismo come “paradigma di liberazione”. L’esperienza francese di questi
anni tra l’altro dimostra che una sinistra che su questi temi è certo molto netta, cioè “fucsia” per
dirla con i detrattori, riesce a crescere e anche a riconquistare voto popolare perché non ha
accantonato la lotta contro il neoliberismo e la rappresentanza dei bisogni delle classi lavoratrici
dentro un forte ciclo di lotte sindacali e sociali. Al rossobrunismo va contrapposta la capacità di
praticare davvero una politica intersezionale come insegnano Angela Davis e Nancy Fraser.
Contrastare il successo del populismo di destra tra le classi popolari è possibile e necessario per
superare la tendenza alla frammentazione e costruire un blocco sociale antiliberista.
«I comunistisi distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che da un lato, nelle varie
lotte nazionali dei proletari, essi mettono in rilievo e fanno valere quegli interessi comuni del
proletariato che sono indipendenti dalla nazionalità; d’altro lato per il fatto che, nei vari stadi di
sviluppo che la lotta tra proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano sempre l’interesse
del movimento complessivo» (K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista)

  1. I nostri referenti sociali
    Una sinistra antiliberista deve avere in primis un suo progetto sociale. La situazione in cui versa il
    Paese evidenzia una fascia di povertà assoluta cospicua, in cui la disoccupazione, la sottoccupazione
    e livelli di reddito molto bassi, caratterizzano la condizione delle persone. È estesissimo il precariato
    che investe in modo particolare il settore terziario, ma ormai anche l’industria. È qui che trova
    collocazione gran parte del mondo giovanile, ma anche una parte rilevante delle donne. Senza
    contare i tassi di disoccupazione che sia per i giovani sia per le donne restano fra i più alti in Europa.
    Povertà e precariato assumono poi una forte caratterizzazione territoriale, dato che si concentrano
    in modo particolare nel Mezzogiorno. Nei settori industriali, in parti rilevanti del terziario e, in
    particolare, nelle piccole e piccolissime realtà produttive, i redditi sono mediamente bassi, a parte
    alcune figure tecniche o dirigenti che in diversi casi hanno visto una crescita delle loro

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remunerazioni. Esiste poi un settore ampio e più tutelato che è quello del lavoro pubblico come:
scuola, sanità, assistenza. In questo caso però il posto fisso è in genere compensato da stipendi
ridotti, spesso congelati da rinnovi contrattuali sempre posticipati e/o insufficienti anche a coprire
l’aumento del costo della vita. In questo settore che poi tende a crescere la disaffezione e il disagio
per il gap fra capacità professionali e condizioni di lavoro e retribuzioni. All’opposto, vi è una crescita
di redditi e patrimoni nei soggetti che controllano, attraverso il possesso delle quote azionarie,
grandi imprese, in primis quelle finanziarie, ma non solo. Sono cresciute inoltre esponenzialmente
le retribuzioni dei manager e degli staff dirigenziali e delle figure con competenze specialistiche,
anche a seguito delle modifiche tecnico-organizzative intervenute. Senza contare alcuni settori della
libera professione. L’effetto complessivo è una polarizzazione delle figure sociali con una crescita
del peso quantitativo delle fasce a reddito medio-basso. Gli indici sulla diseguaglianza crescente lo
stanno a dimostrare e il nostro Paese si colloca fra quelli in cui la diseguaglianza è più marcata.
Una lettura politica della condizione sociale del Paese mostra come gran parte dei soggetti sociali si
colloca ormai fuori dalla politica e ciò è tanto più vero per le fasce marginali in termini di reddito e
occupazione. Nella parte che continua a relazionarsi in qualche modo con il sistema politico e
partecipa al voto, vi è un rimescolamento che sconvolge le vecchie collocazioni di classe. La classe
operaia tradizionale non solo si è ridotta di molto numericamente, per effetto dei processi di
deindustrializzazione, ma è stata addirittura egemonizzata in parte consistente dalla destra, come
dimostrano in modo inequivocabile gli orientamenti al voto anche nelle recenti elezioni europee. In
generale, è ormai impossibile associare precise figure sociali a uno schieramento politico. Prevale in
genere una composizione interclassista nelle varie formazioni. Nello schieramento progressista e di
sinistra l’interclassismo è anche il risultato dello smottamento consumatosi in anni del consenso di
cui godeva in parti rilevanti del mondo del lavoro e delle fasce popolari. La destra è penetrata nelle
fasce a basso reddito, anche se vi è stato un recupero parziale di queste, per esempio da parte del
Movimento Cinque Stelle nel Mezzogiorno, ma si tratta di intercettazioni di consenso labili, se non
sostenute da un’azione coerente e continuativa. Per il resto, la variabile reddito non esercita
apparentemente un’influenza univoca nelle appartenenze politiche. Più rilevante diviene il livello
culturale, dove la crescita della scolarità nei giovani o il possesso di titoli di studio elevati, per
esempio nei settori del welfare, tende a favorire un’appartenenza alle forze progressiste. Così come
rilevanti diventano le forme di politicizzazione. Si pensi, in particolare, al grado di estensione della
sindacalizzazione. In questo quadro, il lavoro continua nonostante tutto a costituire una
discriminante fondamentale, anche perché il ricatto della disoccupazione, della sottoccupazione e
della precarietà rende i soggetti più vulnerabili e quindi anche più manipolabili. Il lavoro costituisce
inoltre una condizione spesso preliminare ad una crescita della politicizzazione anche in virtù
dell’effetto della sindacalizzazione e dell’aggregarsi di blocchi di interesse.
In un quadro così articolato, si può individuare un arco di soggetti che possono costituire il
riferimento di una sinistra nel Paese. Per le ragioni anzidette, si può fare riferimento a tale riguardo
all’insieme dei soggetti che ricadono nel “lavoro subordinato”, perché il concetto di lavoro va oggi
necessariamente declinato in modo nuovo e più ampio. Vi confluiscono le fasce del lavoro
dipendente a reddito medio basso, una parte di quelle del lavoro autonomo che celano una
condizione subordinata, il mondo del precariato e in larga misura i giovani, le fasce marginali, per
reddito e per posizione lavorativa. Ma si tratta di una classificazione che deve essere presa con
grande cautela perché essa esprime più che una realtà compiuta, una prospettiva su cui lavorare. Il
consolidamento del blocco sociale del lavoro subordinato richiede, infatti, un’azione politica decisa

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e coerente. Occorre quindi un’operazione politica condotta in più direzioni: nel recupero delle fasce
più disagiate – all’interno delle quali si colloca spesso, ma non solo, il mondo dell’immigrazione – a
partire dalla garanzia del reddito, ma anche del lavoro; nella stabilizzazione del lavoro per i giovani;
nella riqualificazione dei settori del welfare e la valorizzazione delle professionalità che vi operano;
nell’allargamento delle tutele del lavoro nel settore industriale e dei servizi. Naturalmente in questo
processo molte soggettività possono e devono essere coinvolte, non solo in ragione della loro
posizione nel mercato del lavoro, ma anche in ragione della loro specificità di genere, delle loro
inclinazioni culturali, delle loro aspirazioni ideali, delle loro nazionalità di origine. È peraltro acquisito
fatto che nel capitalismo dei monopoli, dell’erosione dello stato sociale, della torsione neo-liberista,
il disagio sociale si estende a una molteplicità di soggetti anche al di fuori del mondo del lavoro. Si
pensi all’incidenza in negativo della disoccupazione, della caduta delle tutele garantite dal welfare,
dell’enorme crescita della diseguaglianza che tende a unificare sul piano del reddito i soggetti che si
collocano nei livelli più bassi. Le connessioni fra i vari soggetti costituisce un campo di
sperimentazione fondamentale per la costruzione di un blocco sociale. Esemplare in tal senso la
questione dell’intersezionalità e della rilevanza che assume la differenza di genere nella costruzione
di tale blocco. In ogni caso, senza proposte adeguate, all’altezza della profondità delle contraddizioni

  • che come si è visto in Italia sono più profonde che negli altri paesi europei – il consolidamento di
    tale blocco rischia di rimanere velleitario. È inevitabile che nei diversi spezzoni in cui si articola il
    lavoro subordinato e più in generale nel blocco sociale “del cambiamento” il punto di partenza per
    un processo di aggregazione sia rappresentato dalle fasce più politicizzate e più sindacalizzate, ma i
    fenomeni cui stiamo assistendo evidenziano processi di politicizzazione che si sviluppano anche
    lungo percorsi inusuali. Va tuttavia ribadito che l’operazione di costruzione di un blocco sociale non
    può essere il risultato della sommatoria estemporanea di singoli elementi di conflittualità sociale,
    infatti sempre di più, data la disgregazione sociale esistente, essa ha bisogno di elementi di coesione
    politica. Per questo è essenziale la combinazione, da un lato, dell’iniziativa di un sindacalismo
    conflittuale (per il quale sarebbe velleitario prescindere dalla CGIL) e, dall’altro, di soggetti politici
    che supportino, dentro e fuori dalle istituzioni, le istanze generali di cambiamento. Di qui il ruolo
    fondamentale di una sinistra antiliberista e di alternativa. Resta il tema della necessità che una
    sinistra di classe si cimenti in un processo di inchiesta in grado di restituire le infinite variabili che
    compongono le gerarchie sociali del XXI secolo. Se su alcune questioni di carattere generale come il
    cd “lavoro migrante” o i salari più bassi a parità di mansioni, percepiti dalle donne, c’è già una
    letteratura e un lavoro costante, a cui richiamarsi, il sistema Paese è molto più articolato nel
    distribuire ingiustizie e nel determinare discriminazioni. C’è la grande questione del lavoro
    autonomo e dei “ceti medi”. Si pensi alle condizioni di vita e di lavoro soprattutto nel Meridione, si
    pensi alla frammentazione contrattuale e al sistema di appalti e subappalti che definisce la
    produzione e la circolazione di merci, soprattutto nelle grandi metropoli, si consideri che a fronte di
    questo predomina un sistema valoriale comune di aspettative, spesso irrisolte che si traducono non
    solo nel “lavoro povero”, ma in condizioni di esclusioni da una normale vita sociale, l’ambito di
    ricerca e di lavoro per un partito comunista diviene ancora più ampio e necessita anche, al nostro
    interno, di energie nuove meno cristallizzate nel secolo scorso e con più strumenti in grado di
    analizzare i mutamenti in atto, non da ultimo quello che si sta compiendo con l’intelligenza
    artificiale. È tempo di costruire un progetto politico per la ricomposizione di classe a partire dalla
    convergenza delle lotte, da un’analisi aggiornata della società e dei linee di conflitto, da una
    proposta programmatica forte.

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  1. II Sud nelle guerre militari, economiche, climatiche. Per un socialismo meridiano
    Sin dalla sua nascita Rifondazione comunista ha considerato la questione meridionale, nel Mondo,
    in Europa e nel Mediterraneo, in Italia, chiave centrale di lettura del capitalismo nelle sue varie fasi
    e terreno fondamentale di iniziativa politica e sociale. Dalle marce per il lavoro e dalle lotte contro i
    contratti d’area, ai social forum mondiali di Tunisi: dalla rilettura sistematica di Gramsci a quella di
    Samir Amin, in un intreccio tra riflessione e promozione del conflitto.
    Anche in questi ultimi anni abbiamo lavorato molto contro l’autonomia differenziata, per il reddito
    di base, sviluppando nuovi momenti di approfondimento come partito e con il lavoro del Laboratorio
    Sud.
    I concetti di sviluppo duale e l’esigenza di un’alternativa mediterranea sono nostro patrimonio.
    Abbiamo visto come si siano moltiplicati e differenziati i Sud stessi nella globalizzazione. Riad che
    vince la gara per l’Expo e Gaza che subisce il genocidio, sono le due facce che la globalizzazione e la
    sua crisi ci consegnano dei Sud. La guerra climatica condotta da tantissimo tempo dai dominanti
    colpisce in primo luogo il Sud del Pianeta con processi di desertificazione, che vanno di pari passo
    con l’accaparramento delle terre e la distruzione di biodiversità a causa degli interessi delle
    multinazionali. Le guerre che, prima di quella tra NATO e Russia, hanno colpito soprattutto i Sud. Gli
    esodi biblici conseguenti e le migrazioni. La stessa pandemia ha visto i Sud sacrificati alle
    multinazionali.
    La UE complice del genocidio compiuto da Israele è la stessa che si costruisce come fortezza contro
    i migranti. E i contratti di lavoro semi schiavistici utilizzati su larga scala negli Emirati sono in
    correlazione stretta con i nuovi schiavi migranti al Nord volutamente tenuti tali dal mercato del
    lavoro globalizzato. Ed è la UE ormai trainata dai nordici “guerrafondai e frugali”, campioni di
    revisionismo storico e di nuovo suprematismo. La UE che dopo aver foraggiato nelle crisi tutte le
    grandi multinazionali ora ripristina l’austerity. La UE che vede nel suo costruirsi “funzionalistico” “i
    Nord mangiarsi i Sud” e moltiplicarsi i Sud geografici e sociali.
    In Italia tutto ciò è particolarmente drammatico. Perché quella meridionale è questione sin dalla
    unità nazionale come insegnava Gramsci. E ciò si accentua con il costruirsi della UE. Non a caso è in
    questo processo che è stata pensata l’autonomia differenziata come progetto favorevole ai Nord
    geografici e sociali ed ad ulteriori sacrifici dei Sud. Progetto per altro pensato ai tempi della
    “locomotiva tedesca”. E che ora dovrebbe fare i conti con la recessione che colpisce la Germania a
    seguito della guerra sciagurata in cui le classi dominanti hanno condotto la UE.
    Il Sud d’Italia segnala già differenziali negativi strutturali e permanenti. Nell’occupazione, nei redditi,
    nei servizi, nelle migrazioni soprattutto di giovani, negli apparati produttivi, nelle disponibilità
    finanziarie. Come sempre detto dalle sinistre comuniste e dai meridionalisti avvertiti non si tratta di
    arretratezza ma di sviluppo duale e distorto. Di asservimento economico, finanziario e sociale agli
    interessi dei Nord. Di politiche volte a favorirlo. La serie delle scelte politiche che sono andate in
    questa direzione sono molteplici e di lunga durata. Nei decenni del neoliberismo la svalorizzazione
    generale del lavoro fatta in nome della fake che erano i garantiti a impedire l’avanzamento dei più
    deboli ha prodotto disastri ancora più gravi e duri tra i più deboli e in primis al Sud. Più
    precarizzazione, più lavoro nero, meno reddito, meno pensioni. Colpita l’agricoltura come le banche
    meridionali. Peggiorati tutti i parametri sociali, dalla sanità all’assistenza alla scuola. Degrado

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ambientale crescente con le rendite agrarie a trasformarsi in fondiaria. Emigrazione giovanile di
massa. In questo quadro la autonomia differenziata rappresenta il colpo mortale finale e voluto. Lo
spacca Italia ma anche lo spacca italiani. Anche le scelte fatte con i Pnrr ribadiscono una totale
sproporzione tra quello che va al Nord e ciò che è destinato al Sud.
Le responsabilità di questa situazione attengono da sempre alle classi dirigenti capitaliste. In questi
decenni tanto al centrosinistra che al centrodestra. Si è creata ad un certo punto, anche per la nostra
crisi, una grande aspettativa verso il M5S che ha prodotto anche un vero terremoto elettorale. Per
verità noi riconosciamo che il reddito di cittadinanza (sia pure con tantissimi limiti) è stata l’unica
misura riformatrice in senso antico del termine realizzato nel trentennio di restaurazione. Ma la crisi
strategica del M5S privo di un vero orizzonte alternativo ha favorito l’abbattimento anche di questa
misura esistenziale. Purtroppo senza colpo ferire, cosa che deve fare riflettere su come sia stato
possibile.
Ora il Sud può essere il punto fondamentale per la direzione di marcia che prenderà il Paese. O finire
a fare massa di manovra per le destre di fatto lavorando contro se stesso. Oppure essere soggetto
fondamentale di un’alternativa meridiana e mediterranea, per l’Italia e l’intera Europa.
Un’alternativa anche alla militarizzazione a cui si vuole condannare il Sud.
Dunque Pace, Pane e Lavoro. La Pace come esigenza primaria in particolare per i Sud martoriati. Il
Pane che significa ad esempio agricoltura di qualità mediterranea contro le scelte nordiche della Pac
ma anche del suo “superamento” nordico e liberista. Agricoltura, biodiversità, risanamento
ambientale e climatico, capacità trasformative e di commercializzazione, rapporto con turismo e
cultura. Energie alternative territorializzate per comunità e fuori da logiche speculative e coloniali.
Produzione di “intelligenze naturali”. Nuove capacità finanziarie con strutture bancarie connesse
democraticamente al territorio.
Un socialismo meridiano da realizzare con il protagonismo di massa di cui il Meridione ha sempre
dato dimostrazione ogni volta che è diventato centrale in un progetto politico e di società.

  1. LA CULTURA CONTRO IL FASCISMO E IL NEOLIBERISMO

Nelle tante riflessioni intorno ai risultati delle ultime elezioni politiche non abbiamo
sufficientemente ragionato sul fatto che quella vittoria delle destre non è avvenuta solo
sul piano politico ma – e forse ancora prima – sul piano culturale.
Le destre hanno da tempo individuato la cultura come terreno dove svolgere la massima
opera di prevenzione e di “soffocazione”, lavorando tenacemente – attraverso i
meccanismi vincenti del mercato e il dominio delle strutture specificamente formative –
a costruire un senso comune fatto di passività e di adeguamento all’esistente.
Costruendo una risposta egemonica sul piano valoriale e proponendo un’idea di società
basata sul quell’individualismo ormai radicato nel paese e costruito accuratamente e
strategicamente negli ultimi quarant’anni attraverso una proposta culturale tanto
martellante quando apparentemente “innocua”.
Abbiamo sottovalutato gli effetti a lunga, lunghissima durata che tutta l’offerta
televisiva, e non solo dell’informazione politica, pensata e costruita esclusivamente in
base ai parametri di ascolto, cioè di mercato, avrebbe prodotto.

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Abbiamo sottovalutato l’importanza immensa della cultura e della conoscenza come
strumenti fondamentali per la formazione di una coscienza critica e analisi della realtà,
di valori, stili di vita, capacità d’indignazione e voglia di lotta per il cambiamento. Quindi
fattori di democrazia.
La mercificazione della cultura e dei saperi attuata dai governi di centro sinistra con leggi
impostate su esclusivi criteri di mercato è ormai un dato di fatto accettato anche dalla
maggioranza delle forze culturali, professionali e sindacali. Non c’è più un movimento
riformatore, non ci sono più lotte e battaglie che rivendichino allo Stato il ruolo che deve
avere anche in questi settori.
Per combattere le destre e il pensiero unico dominante e diventato ormai trasversale,
fondato sulla sfiducia verso la possibilità stessa di cambiare e sulla fuga nel privato se
non nell’irrazionale, è quindi oggi più che mai compito del nostro partito dare vita ad una
grande battaglia culturale e ideale, per una cultura del cambiamento e della
trasformazione, ormai decisiva anche per un rinnovamento democratico del paese.
Una battaglia ideale che riaffermi con forza che la cultura è un diritto, un “servizio
essenziale” non monetizzabile, che, come dice la Costituzione, la Repubblica deve
garantire e che solo la Repubblica può garantire per il “pieno sviluppo della persona
umana”:

  • intervento dello Stato nella cultura e negli apparati di produzione di senso per
    garantire la possibilità di “tanti immaginari”, di tante culture diverse, dei tanti punti di
    vista sottraendoli alla logica del profitto. Riforme strutturali che riaffermino il ruolo e il
    dovere dello Stato nel ricercare l’utile culturale e dunque sociale della produzione
    artistica, a prescindere da qualunque utile economico.
  • Politiche economiche e sociali che garantiscano l’accesso ai luoghi di produzione
    culturale e ancora di più alla fruizione della cultura.
  • Nella cultura il lavoro non solo è precario, ma spesso in nero e senza garanzie sugli
    infortuni. Sempre intermittente, o meglio apparentemente intermittente perché quello
    che emerge, quando riesce ad emergere, è solo il frutto di un lavoro molto più lungo e
    faticoso, sommerso e non riconosciuto. Servono politiche economiche e sociali che
    riconoscano che quello nella cultura è lavoro e che chi lavora nei settori creativi, dagli
    scrittori agli orchestrali, dai registi agli sceneggiatori, dai musicisti ai tecnici e alle
    maestranze, chi lavora in tutti questi settori e qualunque “mansione” svolga è un
    lavoratore che ha e deve avere i diritti di tutti gli altri.
  • Una riforma che rimetta di nuovo al centro il ruolo dell’intervento pubblico nel
    sostenere un’editoria indipendente, giornali cooperativi e di partito, riviste culturali e
    dell’associazionismo che altrimenti non potranno mai vedere la luce.
  • Una profonda e radicale riforma del servizio pubblico radiotelevisivo, che riporti la
    più grande azienda pubblica produttrice di senso fuori dal controllo del governo e la liberi
    “dalla subordinazione ai dettami del mercato”. Una azienda democratizzata e
    democratica, gestita dalle forze sociali, professionali e culturali, decentrata e

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partecipata, radicata sui territori, che possa diventare volano di tutta l’industria culturale
del paese.
Rifondazione si batte per un’Europa che sia legata alle necessità e allo sviluppo dei
popoli, all’affermazione di una politica per la cultura che si basi sulla ricchezza, la pluralità
e le specificità che affondano le loro radici nelle nostre tante e diverse storie, sulle
straordinarie e forti originalità che ne derivano, sulla creatività come motore
fondamentale dello sviluppo sia intellettuale che materiale del nostro continente.
Un’Europa che consideri tutte le culture come strumento di conoscenza e di
cooperazione tra i popoli e ne favorisca la circolazione e l’interazione come fattore di
pace e contributo alla risoluzione dei conflitti. Un’Europa si impegni a promuovere e
sostenere la produzione e la circolazione delle culture transfemministe e delle comunità
lgbtqia+.

  1. LA DEMOCRAZIA
    Tra le catastrofi determinate da questi decenni di capitalismo neoliberista c’è la sempre più evidente
    crisi della democrazia. Lo schema narrativo di Biden “democrazie vs autocrazie” tende a non vedere
    quanto gli effettivi spazi democratici si siano ristretti anche nei paesi occidentali a causa delle
    politiche neoliberiste che ne hanno eroso le basi. Il capitalismo globale in questa fase tende ad
    assumere sempre più tratti oligarchici, a perdere l’eredità liberal-democratica che pure celebra sul
    piano ideologico-spettacolare, a favorire il riemergere di fascismi e forme autoritarie su scala
    planetaria. Il neoliberismo è stato un progetto politico di attacco per ridurre i livelli di democrazia
    sostanziale che ormai pone in crisi anche quella formale. Di fronte a questi processi dobbiamo
    recuperare appieno, contrastando la narrazione dominante dal 1989, l’ispirazione originale
    democratica dei movimenti operai, socialisti e comunisti che sono stati protagonisti della lotta per
    la conquista del suffragio universale e poi dell’antifascismo e della decolonizzazione: “la conquista
    della democrazia” è obiettivo politico dei comunisti nel Manifesto di Marx e Engels, la democratica
    Comune di Parigi fu per Marx la “forma finalmente trovata” del governo operaio, per Engels
    l’esempio di come dovrebbe essere intesa l’espressione “dittatura del proletariato” poi distorta nel
    corso del Novecento. Rifondazione Comunista nel 1989 si è oppose alla liquidazione dell’originale
    patrimonio del comunismo italiano rifiutando l’equiparazione del comunismo con le forme
    autoritarie che assunsero i regimi nati in circostanze storiche determinate e con lo stalinismo. Nella
    stessa rivoluzione russa e in Lenin l’iniziale spinta è quella verso una democrazia proletaria fondata
    sui soviet. Nella cultura marxista novecentesca troviamo materiali per una critica dei socialismi di
    stato autoritari, da Rosa Luxemburg ai consiliaristi, da Gramsci a Lukács e sempre più dopo il 1956
    e una visione del socialismo come lotta per la democratizzazione della società e della vita
    quotidiana. Come ha scritto di recente Guido Liguori: “La nostra tradizione comunista democratica,
    pur non senza contraddizioni, ha gradualmente compreso l’importanza della democrazia politica,
    muovendo dalla riflessione gramsciana sull’egemonia, passando per la partecipazione convinta alla
    scrittura della Costituzione, culminando nelle posizioni berlingueriane che furono alla base
    dell’eurocomunismo e della «terza via» o «terza fase»”. La nostra “tradizione”, per dirla con Pietro
    Ingrao, “collega democrazia e socialismo, sviluppo democratico e costruzione del socialismo”. In
    Rifondazione Comunista questo patrimonio si è incontrato con le culture della “nuova sinistra” e di

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altri filoni del socialismo di sinistra, tra cui Basso e Panzieri, e di un costituzionalismo arricchitosi nel
lungo Sessantotto italiano nel rapporto con le lotte sociali. Nell’esperienza di Rifondazione abbiamo
partecipato a movimenti dentro i quali è sempre stata viva l’ispirazione democratica e libertaria e
anche la ricerca di forme più avanzate di democrazia partecipativa e diretta. Dai Forum sociali al
confederalismo democratico curdo all’America Latina ai movimenti contro la globalizzazione
neoliberista al rapporto al marxismo autonomo l’anticapitalismo ha avuto un’ispirazione
profondamente democratica a livello internazionale che rischia di essere cancellata dentro il
contesto della guerra globale. Non possiamo che riaffermare i contenuti della tesi, scritta da
Giovanni Russo Spena, del precedente congresso “Siamo partigiane/i della Costituzione nata dalla

Resistenza” https://www.rifondazionecomunista.org/xi/2021/06/26/tesi-5-siamo-partigiane-i-
della-costituzione-nata-dalla-resistenza/

Un comunismo democratico si pone oggi il compito della costruzione di un’alternativa alla tendenza
antidemocratica propria del capitalismo contemporaneo e a prefigurare un’alternativa di società.
Su questo piano è necessario riprendere la “battaglia culturale” contro il revisionismo storico e la
narrazione anticomunista dominante sia per riaffermare la necessità di un altro comunismo
possibile che costituisce la stessa ragion d’essere della rifondazione comunista. Il nostro compito
politico rimane quello della lotta per la democrazia. “Nelle società avanzate il socialismo o
comunismo del futuro sarà democratico o non sarà. Il pensiero liberaldemocratico o imparerà
davvero a separarsi dal capitalismo e a combatterlo o, ugualmente, non avrà futuro.” (Guido
Liguori). La rifondazione comunista è la prosecuzione della ricerca e della lotta per un progetto
socialista/comunista che vada oltre i limiti delle socialdemocrazie e dei comunismi novecenteschi.
Un compito che non è solo nostro e non riguarda solo il nostro paese a cui noi possiamo portare il
contributo della nostra originale storia. “Evviva il comunismo nella libertà”.
Di questa lotta politico-culturale è parte essenziale la lotta per il sistema elettorale proporzionale,
l’unico che rende il Parlamento “specchio del paese” e permette di rappresentare la lotta di classe
anche nelle istituzioni. Bisogna uscire dai sistemi elettorali truffaldini di ispirazione piduista
(maggioritario, uninominale, elezione diretta dei “leader”, premi di maggioranza, etc.) che sono
fattore essenziale del crescente astensionismo e che – come l’esperienza ha dimostrato –
garantiscono la vittoria delle destre ben al di là della loro effettiva forza elettorale.
A questa urgente lotta per la proporzionale (che peraltro ispira tutta la nostra Costituzione e il suo
sistema di garanzie e contrappesi) Rifondazione chiama tutti/e gli/le antifascisti/e e in particolare la
cultura giuridica democratica.

  1. LE CULTURE DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA
    Le note precedenti delineano sommariamente quanto la rifondazione comunista nella sua
    inattualità possa essere invece fondamento di un profilo culturale e politico forte in grado di
    motivare attivismo e militanza come fu in grado di fare fino all’inizio degli anni 2000 e soprattutto
    di dare un contributo alla ricostruzione di una sinistra di alternativa con dimensioni di massa nel
    nostro paese e in Europa. La nostra ricerca non è stata mai separata dal dibattito internazionale e
    dall’internità ai movimenti. Non si è mai svolta nel chiuso delle stanze di partito. È necessario avviare

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un cantiere aperto di elaborazione e confronto in cui il nostro partito svolga un ruolo attivo di
organizzatore, di costruzione di reti e occasioni, di proposta di temi e anche di ricerca.

  1. NON DELEGARE L’ANTIFASCISMO AL CAMPO LARGO
    Da anni il risorgere dei fascismi o comunque di formazioni e tendenze di estrema o ultra destra ha
    riconfigurato lo spazio politico in Europa e non solo.
    L’antifascismo è stato sistematicamente usato dal centro neoliberista per legittimarsi a livello di
    massa. Il pericolo rappresentato dai partiti dell’ultradestra ha sostanzialmente spostato i termini
    dello scontro politico rispetto ad altre linee di divisione che vedevano la sinistra radicale porsi in
    alternativa sia alle forze di centrodestra liberali che ai partiti socialisti e socialdemocratici che da
    tempo si sono convertiti al neoliberismo. La crescita dell’estrema destra ha consentito alle forze
    centriste di presentarsi come un argine democratico.
    Questo scenario era stato già anticipato in Italia, da sempre laboratorio politico, con una dinamica
    dello scontro politico che aveva al centro l’opposizione a Berlusconi che per molti versi anticipava
    Trump, sdoganò i postfascisti, legittimò partiti apertamente xenofobi come la Lega.
    Il contrasto alla cosiddetta “onda nera” in Europa ha tolto centralità alla contrapposizione tra
    sostenitori dell’austerity neoliberista e dei trattati e la sinistra radicale che aveva raggiunto il
    momento culminante con la vittoria di Tsipras in Grecia.
    Le sinistre radicali nei vari paesi europei hanno dovuto riconfigurare le loro strategie e tattiche in
    questo scenario. In Spagna e Francia si è passati da un’impostazione, tipica del populismo di sinistra,
    di contrapposizione delle forze di sinistra radicale all’intero establishment neoliberista alla proposta
    di un governo di sinistra con i socialisti nel primo caso e nel secondo a quella recente di un Fronte
    Popolare anti-Le Pen.
    In Italia questo si è tradotto in una tendenza finora maggioritaria a sinistra al “voto utile”, dato il
    nostro sistema elettorale a turno unico e alla scelta di partiti come SI di internità al centrosinistra.
    Noi abbiamo giustamente criticato la strumentalizzazione dei temi dell’antifascismo e
    dell’antirazzismo da parte del centro liberista e del PD tesa a egemonizzare il campo della sinistra in
    una logica bipolare. Una critica giusta anche perché proprio le politiche dei governi sostenuti dal PD
    hanno alimentato la crescita dell’ultradestra che è riuscita a presentarsi come anti-establishment
    pur essendo cresciuta nell’ambito del berlusconismo.
    Va detto con chiarezza che sarebbe un errore politico negare o minimizzare il carattere regressivo e
    assai pericoloso dell’ultradestra per la democrazia, la convivenza civile, i diritti civili e sociali, la
    stessa possibilità di praticare il conflitto sociale.
    Nella storia del comunismo novecentesco questo errore è stato ripetutamente presente e per
    oggetto di profonda riflessione fino a diventare la sua critica un elemento di cultura politica di massa
    del movimento operaio. Ricordiamo la sottovalutazione del fascismo negli anni ’20 da parte dei
    “sinistri”, tra cui i giovani comunisti italiani, con cui polemizzò lo stesso Lenin che si fece promotore
    della linea del “fronte unico” quando si accorse che la rivoluzione in Occidente era di là da venire e
    che i partiti comunisti avrebbero dovuto lottare a lungo per diventare maggioritari nella stessa
    classe operaia. Ricordo la sciagurata linea imposta da Stalin dei primi anni ’30 del “socialfascismo”

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a cui si opposero Gramsci e Terracini in carcere, ma su cui espresse perplessità lo stesso partito
italiano pur allineandosi al Comintern. Persino Lev Trotsky criticò duramente quella linea che poneva
sullo stesso piano i socialdemocratici e i fascisti e che avrebbe avuto effetti disastrosi divenendo uno
dei fattori della resistibile ascesa di Hitler. Trotsky non era certo sospettabile di moderatismo, infatti
fu criticato da Gramsci come teorico dell’offensiva anche nei periodi di ritirata, e che contrastò il
successivo approdo del Comintern alla strategia dei Fronti Popolari antifascisti elaborata in primo
luogo da Dimitrov e Togliatti e affermatasi dopo la vittoria di Hitler e del suo regime di terrore di
massa. Ma appunto lo stesso Trotsky insisteva per recuperare la linea del “fronte unico” che era
stata proposta da Lenin. Trotsky scriveva nel 1932 a proposito della Germania: “La socialdemocrazia
ha preparato tutte le condizioni per la vittoria del fascismo. Far ricadere sulla socialdemocrazia la
responsabilità della barbarie fascista è giusto. Identificare la socialdemocrazia con il fascismo è
completamente insensato”.
La nostra storia e identità di comuniste/i è radicata nell’antifascismo e nella Resistenza e proprio il
ruolo di più conseguente e impegnato partito antifascista fu il fattore che determinò il carattere di
massa che il PCI ebbe nel dopoguerra.
La giusta esigenza di non essere schiacciati dal bipolarismo e di non essere complici di politiche
antipopolari e di guerra non implica alcuna sottovalutazione dell’esigenza di sconfiggere le destre.
Vanno respinte posizioni settarie, che a volte ricordano il “socialfascismo” per distinguersi dal
centrosinistra, che di fatto consegnano agli occhi dell’elettorato di sinistra e dei movimenti al
“campo largo” il ruolo di contrasto e alternativa al governo Meloni.
Proprio il nostro coerente e conseguente antifascismo ci impone di proporre una linea e un
programma che consentano di contrastare più efficacemente le destre e anche analisi delle radici
economiche, geopolitiche, sociali e culturali del successo dell’ultradestra come fenomeno mondiale
e nazionale.
Non dobbiamo regalare l’antifascismo al ‘campo largo”.

  1. ANTIFASCISMO POPOLARE
    Nel ribadire il nostro impegno nella lotta contro le destre è giusto sottolineare che a fomentare il
    risorgere del fascismo sono le politiche neoliberiste e di guerra dentro il quadro della crisi della
    globalizzazione capitalista. Solo un antifascismo popolare, in netta rottura con le politiche
    antipopolari che le hanno favorite, può contrastare efficacemente le destre. Senza una rottura con
    il neoliberismo non si fermano le destre in Europa come dimostra l’ascesa di Le Pen grazie alle
    politiche antipopolari di Macron, per tanti anni punto di riferimento della classe dirigente del PD e
    centrista.
    La lotta contro le destre e l’opposizione al governo Meloni richiede il massimo di unità ma senza
    perdere il nostro punto di vista critico, la nostra autonomia, la nostra linea di alternativa al
    neoliberismo e alla guerra. La minaccia del ritorno del fascismo deve essere giustamente una
    preoccupazione della sinistra e dobbiamo evitare che sia usata come ritornello delle élite centriste
    neoliberiste per egemonizzare quella parte dell’elettorato che continua fortunatamente a nutrire

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sentimenti antifascisti e democratici. Anche perché le vicende europee dimostrano che l’estrema
destra viene sistematicamente sdoganata se dice si alla guerra e al ritorno all’austerity neoliberista.
Dobbiamo in primo luogo ribadire che un fronte popolare antifascista e per la Costituzione non può
accantonare l’articolo 11 e il ripudio della guerra.
Sono le logiche della guerra e del neoliberismo che stanno sdoganando l’estrema destra in Europa,
come dimostrano l’Ucraina, il governo Meloni e quello Rutte, lo stesso accordo di Macron con
Marine Le Pen.
Il governo Meloni e la coalizione di destra non solo hanno un’agenda antipopolare, classista,
neoliberista, razzista, xenofoba, omofoba, sessista, conservatrice e reazionaria oltre che una matrice
fascista che continuamente emerge. Il governo Meloni sta portando avanti un attacco che profila il
definitivo stravolgimento della Costituzione, lo smantellamento dello Stato sociale, la fine
dell’unitarietà della repubblica, la messa in discussione dell’indipendenza della magistratura, la
sistematica criminalizzazione delle lotte sociali.
Un partito come il nostro – che si autodefinito nell’ultimo congresso di “partigiane/i della
Costituzione” – non può assolutamente tenere un atteggiamento di sottovalutazione della necessità
della costruzione del più largo fronte unitario contro l’autonomia differenziata, il premierato, la
separazione delle carriere, le leggi repressive contro lotte sociali e in generale nell’opposizione al
governo delle destre.
Ribadiamo la contrarietà alla separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante e
della conseguente separazione dei CSM, dunque, condurrà fin dall’ approdo del ddl in Parlamento
una campagna massimamente unitaria. Un partito garantista non può tollerare che chi svolge le
indagini e sostiene l’accusa sia, nei fatti, diretto dalla polizia giudiziaria dunque dall’esecutivo.
La nostra opposizione al premierato (in realtà: l’ “elezione diretta del duce”, ogni cinque anni) è
nettissima perché esso rappresenterebbe il colpo definitivo e di segno autoritario a quel che rimane
della democrazia costituzionale fondata sul Parlamento.
Il ddl sicurezza è una “legge fascistissima” che criminalizza la protesta sociale e il conflitto.
Su questi terreni dobbiamo lavorare al fronte più largo possibile, con la Cgil, l’ANPI, l’ARCI, le
associazioni, le reti e i movimenti e anche con i partiti del centrosinistra come con le formazioni
della sinistra anticapitalista e i sindacati di base.
La nostra partecipazione al comitato promotore del referendum abrogativo della legge Calderoli
rappresenta la naturale continuazione del lavoro che abbiamo condotto per anni promuovendo i
comitati contro l’autonomia differenziata e il tavolo no AD con una approccio assai radicale nei
contenuti ma aperto al necessario dialogo e alla cooperazione con forze assai diverse da noi. Una
pratica non settaria ma rigorosa sui contenuti che ha fatto crescere dal basso e dall’esterno del
parlamento la critica delle proposte di regionalismo differenziato e la consapevolezza delle
conseguenze. Si tratta di una esperienza esemplare di costruzione di movimento in un contesto in
cui il movimento di massa non c’era ancora per determinarne le condizioni.
Anche il nostro ruolo di co-promotori della campagna referendaria per la riforma della legge sulla
cittadinanza (che porterebbe da 10 a 5 gli anni di permanenza necessari per ottenere tale diritto) si
è rivelato fondamentale. Ricordiamo che in circa 15 giorni si sono raccolte su piattaforma on line

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637 mila firme, soprattutto di giovani che trovano ingiusta e inaccettabile una disposizione che risale
al 1992 basata sullo ius sanguinis. Un tema così importante si pone oggi nel dibattito pubblico e non
solo fra le forze politiche che hanno considerato tale proposta troppo azzardata e che comunque
doveva ricadere unicamente in un asfittico ambito parlamentare che da decenni non produce nulla.
Da comuniste/i dobbiamo declinare tale referendum a modo nostro. La cittadinanza espone meno
allo sfruttamento e alla discriminazione e deve essere nostro obiettivo eliminare i vincoli che
impediscono di ottenere tale requisito.
Nel paese è fortissima a sinistra e nei movimenti una legittima domanda di unità contro la destra al
governo che noi dobbiamo saper cogliere senza rinunciare alle nostre discriminanti. La più larga
unità è necessaria e dobbiamo essere promotori di fronti a partire dai contenuti.
Il triplo appuntamento referendario l’anno prossimo con i quesiti contro il jobs act, contro
l’autonomia differenziata e per l’estensione del diritto alla cittadinanza sarà nel segno non solo
dell’opposizione alla destra ma anche una palese dimostrazione del fallimento delle politiche del
centrosinistra neoliberista dato che la gran parte dei quesiti riguardano provvedimenti legislativi
che hanno origine diretta o indiretta dai loro governi.
Il nostro partito deve lavorare all’apertura di una fase nuova di movimento e lotta, per dare un
orientamento di sinistra, antiliberista, anticapitalista e pacifista all’opposizione al governo Meloni.
Il nostro antifascismo è unitario nelle lotte e nelle mobilitazioni e ci vede impegnati alla costruzione
della più larga mobilitazione possibile e al più vasto schieramento, a partire dal rapporto Anpi,
contro i progetti del governo sul piano istituzionale: l’autonomia differenziata e il presidenzialismo.
Riteniamo indispensabile la “battaglia culturale” contro il revisionismo storico che delegittima i
fondamenti stessi della nostra Repubblica e della nostra Costituzione e che trova nell’affermazione
nel senso comune dell’anticomunismo lo strumento per cancellare il ruolo svolto dai partiti del
movimento operaio nella nostra storia.
Il governo Meloni è un prodotto di questa Europa neoliberista e guerrafondaia che ormai legittima
la stessa estrema destra se fa propria la guerra e i diktat neoliberisti. L’europeismo ideologico e
l’atlantismo del centrosinistra non costituiscono una barriera a una destra che è pienamente interna
alla governance europea e atlantica.
Come ha scritto Enzo Traverso, “Non possiamo lottare efficacemente contro il post-fascismo
difendendo l’UE. È cambiando l’UE che possiamo sconfiggere il nazionalismo e il populismo di
destra”.
Come abbiamo ripetuto per anni l’affermazione delle destre è maturata dopo decenni di politiche
neoliberiste antipopolari e di svuotamento della democrazia costituzionale. Solo un antifascismo
popolare può contrastare efficacemente il disegno della destra di stravolgimento della Costituzione.
Senza un antifascismo popolare e l’impegno contro la guerra e per l’attuazione della Costituzione
non è possibile contrastare un governo di ultradestra, reazionario, classista e guerrafondaio.
L’antifascismo popolare non può che essere sociale, conflittuale, solidale, pacifista e antiliberista,
femminista. C’è bisogno di una opposizione sociale e politica che lotti con coerenza per i diritti di chi
lavora, per la piena occupazione, per il diritto al reddito, alla salute, alla casa, allo studio, per tutte/i,
per il drastico taglio alle spese militari. Solo così l’antifascismo ritrova le sue radici, quelle di

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Matteotti, Gramsci, Rosselli, della Resistenza, del movimento operaio, delle lotte che hanno
attraversato la storia dell’ITALIA REPUBBLICANA.

  1. COSA INTENDIAMO PER SINISTRA DI ALTERNATIVA?
    Nella nostra discussione bisogna chiarirsi su alcuni concetti il cui significato è progressivamente
    cambiato di segno nel nostro dibattito interno e si è sclerotizzato in una forzatura che rende
    schematico il nostro confronto. Va per esempio chiarito cosa intendiamo quando diciamo che ci
    consideriamo un partito della sinistra di alternativa.
    L’espressione dovrebbe essere intesa correttamente. Un tempo la usavamo per differenziarci dai
    partiti dell’alternanza tipici del bipolarismo (ma non solo) che non si propongono un programma di
    trasformazione, anzi condividono le scelte strategiche. L’alternanza tra partiti convergenti al centro
    e che tutto sommato non cambiano nulla di sostanziale è il modello di “democrazia matura” che i
    sostenitori del maggioritario proposero negli anni ’80 e ’90. Noi fummo tra coloro che si ribellarono
    a questa omologazione del sistema politico che si determinò come risposta alla crisi e alla sconfitta
    del movimento operaio, con la mutazione genetica dei partiti di massa che lo avevano rappresentato
    che culminò con il cambio di nome e ragione sociale del PCI nel 1991.
    La sinistra di alternativa è quella che propone un’alternativa di società e non solo un cambio di
    personale politico alla guida del governo.
    Da tempo nel nostro partito si è andata affermando un significato diverso e più ristretto del nostro
    compito di costruire la sinistra di alternativa. Sinistra di alternativa sarebbe solo quella che si
    presenta alle elezioni in alternativa ai partiti dei poli principali. Questa scelta politica di collocazione
    su cui siamo impegnati dal 2008 nasceva dentro precise condizioni, tra cui certamente ha avuto un
    peso enorme l’impianto fortemente neoliberista che ha avuto il PD fin dalla sua nascita, ecc.
    In sedici anni si è prodotto uno slittamento semantico che rischia di farci perdere lucidità di analisi
    e soprattutto una visione dei nostri compiti che tenga conto dei mutamenti del quadro politico e
    sociale, dei rapporti di forza, dei bisogni politici di classe o democratici a cui dare risposta.
    Una sinistra di alternativa è tale se propone una politica di trasformazione sociale, se lotta per fare
    avanzare concretamente elementi di alternativa.
    La collocazione politica rispetto agli schieramenti e la politica delle alleanze dovrebbe essere sempre
    subordinata alla costruzione concreta dell’alternativa e all’efficacia dell’iniziativa politica, alla
    crescita del consenso sulle nostre posizioni, alla capacità di suscitare mobilitazione, aprire
    contraddizioni, ottenere vittorie su obiettivi concreti o di contrastare politiche sbagliate. È una
    visione riduttiva e anche piuttosto ottusa quella che qualifica la sinistra di alternativa solo in base al
    presentarsi in alternativa al centrosinistra.
    Se questa visione fosse fondata dovremmo ritenere che gran parte dei partiti comunisti,
    anticapitalisti, antiliberisti e della sinistra radicale in Europa non sarebbero formazioni di alternativa
    visto che a livello locale, regionale e assai spesso nazionale si alleano con formazioni aderenti al
    Partito Socialista Europeo con le quali hanno avuto scontri anche molto duri.

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Non è che il Partito Comunista Spagnolo o Podemos non sono da considerarsi sinistra di alternativa
perché da circa 6 anni sono al governo né si può dirlo per il PCF e la France Insoumise perché hanno
fatto il Front Populaire e governano molte città con i socialisti.
Sarebbe davvero una pulsione settaria quella che accusasse la quasi totalità dei partiti della sinistra
radicale in Europa di “abbandono del terreno dell’alternativa” perché negli enti locali o a livello
nazionale hanno fatto alleanze.
Per ricostruire le condizioni di un confronto sulla tattica e la strategia dovremmo evitare
semplificazioni che ci deresponsabilizzano rispetto alla necessità di fare scelte e di verificare i
percorsi fatti finora.
Quando decidemmo di proporre la costruzione della sinistra di alternativa ponendo la condizione
irrinunciabile dell’alternatività ai due poli (cosa che ha impedito l’unità con altre forze come SI che
hanno fatto scelte diverse) lo abbiamo fatto sulla base di un’analisi del quadro politico italiano e
europeo, dell’impianto programmatico del centrosinistra ecc. e con l’idea che una compromissione
con quello schieramento ci avrebbe impedito di essere credibili nel rapporto con i movimenti, le
lotte e larghi settori delle classi lavoratrici e popolari.
È evidente che dal governo Monti a quello Draghi passando per gli esecutivi Letta, Renzi, Gentiloni
la nostra sia stata una scelta coerente e fondata su un giudizio corretto anche se non ha funzionato
sul piano elettorale. Più dubbio che lo sia stata la scelta quasi unanime tra di noi di non partecipare
a una lista come LEU nel 2018 che non ci avrebbe impedito di tenere in parlamento una linea
autonoma di netta opposizione.
Ma questo non implica che se si discute in un quadro profondamente mutato sulla prosecuzione
e/o l’articolazione o il cambiamento della strategia o della tattica si stia proponendo di abbandonare
il proprio profilo di sinistra di alternativa. Tra l’altro il PRC per un ventennio è stato un attore assai
importante sul piano politico e sociale modificando spesso la propria tattica ma mantenendo la
barra dell’alternativa al neoliberismo e alla guerra con un’efficacia e una capacità di mobilitazione
sicuramente superiore a quella che abbiamo avuto nonostante la nostra sacrosanta coerenza dal
2008.
Il problema che dovrebbe porsi un partito comunista è come dare il suo contributo alla costruzione
di un’alternativa di società sia sul piano programmatico e rivendicativo sia su quello del
rafforzamento della sinistra antiliberista, anticapitalista, femminista, ambientalista, pacifista.
Il grado di alternatività va verificato non in termini di autoreferenzialità identitaria ma di efficacia
rispetto alle lotte, alla concretezza delle problematiche sociali, alle dinamiche di classe,
all’allargamento e alla difesa degli spazi democratici, allo stesso rafforzamento delle forze che
lottano per un’alternativa di società.

  1. IL RUOLO DEL PARTITO, AUTONOMIA E UNITA’
    Nella situazione difficilissima in cui siamo l’esistenza e la resistenza di Rifondazione Comunista
    rappresenta un elemento prezioso di cui dobbiamo andare orgogliosi/e.
    L’autonomia di Rifondazione è un elemento da salvaguardare perché riteniamo fondamentale che
    la nostra cultura politica dia un contributo alla costruzione di un’alternativa nel nostro paese. Per

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questo appare sbagliata e dannosa ogni ipotesi di scioglimento di fatto del Partito o di cessione di
sovranità a improvvisati contenitori di dimensioni e caratteristiche minoritarie che restringono la
nostra capacità di interlocuzione sociale e politica.
La ricerca dell’unità della sinistra anticapitalista e antiliberista non può tradursi in subalternità a
posizioni che impediscono spesso di sviluppare l’iniziativa politica e sociale.
Continueremo come sempre a lavorare e cooperare con tutte le formazioni della sinistra
anticapitalista e antiliberista, ma è evidente che non vi sono le condizioni politiche per proseguire
nella costruzione di una soggettività unitaria essendo stato manifestamente negato l’impegno per
l’unità e lo sviluppo del fronte pacifista che era alla base del progetto originario di Unione Popolare.
La pietra tombale sull’esperienza di Unione Popolare è stato il sostanziale veto settario di Pap a
qualsiasi alleanza elettorale intorno al tema della pace, che si è poi invece tramutato addirittura
nell’indicazione di voto per AVS con cui per mesi si era espressa contrarietà a qualsivoglia
convergenza per le elezioni europee. Si conferma l’indicazione leninista secondo cui la lotta sui due
fronti convergenti dell’opportunismo e dell’estremismo rappresenta una costante della politica
comunista.
La crisi del progetto di Unione Popolare è derivata dunque da divergenze che evidenziano differenze
di cultura politica che hanno prodotto un conflitto costante e respingente invece di un contesto
attrattivo di nuove energie e intelligenze. Il contrasto pregiudiziale alla costruzione di una lista
contro la guerra alle elezioni europee, la dichiarata incompatibilità nei confronti di formazioni come
il M5S e AVS anche sul terreno delle elezioni locali, e perfino l’indisponibilità a partecipare a
manifestazioni indette da CGIL o ANPI o a comitati unitari come quello referendario, delineano una
divergenza che non può essere sottovalutata. Non si può costruire un soggetto unitario sul terreno
di una perenne conflittualità interna.
Le difficoltà e la crisi che vive da anni il partito non può tradursi in un atteggiamento di rinuncia e
abdicazione alla nostra autonomia che va anzi rafforzata, nei quattro aspetti (strettamente legati)
della linea politica, della proposta culturale e ideologica, della consistenza organizzativa, del profilo
comunicativo esterno.
L’autonomia è il contrario del settarismo e deve anzi coniugarsi con una rinnovata capacità di fare
politica, che significa mettere in campo la forte vocazione unitaria che fa parte integrante della
nostra storia.
Non ha alcun fondamento una visione dispregiativa del frontismo che è tanta parte della storia
comunista e non va confuso con la ricerca opportunista delle alleanze a tutti i costi. La “politica
unitaria” costituiva anche un’ispirazione costante del socialismo di sinistra di Morandi e Panzieri per
citare un altro filone della storia del movimento operaio che è un riferimento prezioso per la
rifondazione comunista.
Nella nostra storia siamo sempre stati promotori e propulsori di convergenze e lotte unitarie. Non
ci sarebbe stato il Genoa Social Forum senza Rifondazione Comunista e anche allora c’erano
soggettività politiche che scelsero la separazione autoreferenziale e identitaria. Non appartiene alla
nostra cultura politica l’autoesclusione semmai la sfida rispetto ai contenuti concreti.

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È fondamentale oggi assumere l’aspetto plurale dei fronti corrispondenti ai diversi terreni di lotta
che ci vedono impegnati. La tendenza a porre costantemente pregiudiziali e incompatibilità ostacola
la possibilità sui differenti terreni di lotta e mobilitazione di costruire la più larga convergenza e
rappresenta una rinuncia a una sfida egemonica con le formazioni del centrosinistra.
Esiste anzitutto un fronte di difesa della democrazia e della Costituzione, che oggi vive soprattutto
nei referendum e nella lotta contro l’AD e il premierato. Di questo primo fronte il nostro consolidato
rapporto con l’ANPI (frutto della nostra linea politica e niente affatto scontato per altre formazioni
della sinistra anticapitalista) rappresenta un elemento prezioso.
Esiste un fronte di lotta per la pace, la priorità assoluta di questa fase, che ha l’obiettivo di dare vita
ad un autonomo e organizzato movimento pacifista di massa; il punto di partenza è l’interlocuzione
con il variegato ma vivissimo arcipelago delle organizzazioni pacifiste, assieme al quale (nel rispetto
reciproco) dobbiamo trasformare il generico e diffuso dissenso dell’opinione pubblica verso la
guerra in un vero movimento di massa per la pace, ancora assente nel nostro paese. Va verificata la
possibilità e le modalità concrete per proseguire le iniziative di Pace Terra Dignità come movimento
contro la guerra con la convinzione che nel nostro paese e in Europa ci sia bisogno di un pacifismo
che sfidi la politica irresponsabile delle classi dirigenti.
Esiste un fronte del lavoro, quasi tutto da costruire anzitutto attraverso la ricerca di rispettose
interlocuzioni unitarie ma anche attraverso il lavoro diretto dei comunisti e delle comuniste nelle
diverse organizzazioni sindacali: la nostra rivendicazione del salario minimo rappresenta un aspetto
decisivo a cui va accompagnata una piattaforma più generale.
Esiste un fronte antirazzista che assume sempre più centralità di fronte all’attacco delle destre. Ci
battiamo per l’abolizione della legge Bossi Fini con chiunque condivida l’obiettivo.
L’elenco degli esempi potrebbe continuare, ma ciò che è importante è la forma politica che
proponiamo: un’interlocuzione unitaria e reciprocamente rispettosa capace di mettere sempre al
centro e valorizzare ciò che unisce. In questo lavoro vive la vera capacità politica delle comuniste e
dei comunisti, essere interni ai movimenti di massa e contribuire a costruirli.
Il rilancio del partito sul piano organizzativo, del partito sociale, tra le giovani generazioni (questioni
a cui dedicheremo capitoli specifici) non può essere affrontato solo in termini organizzativistici.

  1. UN NUOVO QUADRO POLITICO
    Rispetto agli ultimi due congressi il quadro politico è profondamente cambiato. Oggi c’è un governo
    presieduto dall’estrema destra dopo molti anni di esecutivi con la presenza del PD tranne la breve
    e nefasta parentesi del governo M5S-Lega. Il governo Meloni tende a rafforzare la tendenza bipolare
    già fortissima per i caratteri delle nostre leggi elettorali, ma anche a suscitare nel paese,
    nell’elettorato di sinistra, nei movimenti, nei sindacati, nell’associazionismo una comprensibile forte
    domanda politica di uno schieramento che sia in grado di battere la destra. È questa la apparente
    forza della proposta del “campo largo” pur con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti. Inoltre è
    cambiato anche il profilo del centrosinistra che almeno sul piano dell’immagine e del discorso
    pubblico non è più quello iperliberista che abbiamo contrastato per anni. Non si può sottovalutare
    la novità rappresentata dall’affermazione nelle primarie dell’attuale segretaria del PD che ha
    cambiato il posizionamento e anche la narrazione su questioni importanti come l’autonomia

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differenziata e il jobs act, la sua frequentazione delle manifestazioni della Cgil e dell’ANPI dopo anni
di in cui si cercava legittimazione con la vicinanza al mondo delle imprese e della finanza. Pur
essendo assolutamente insufficiente per accreditare un’autentica svolta rispetto a un impianto
programmatico e ideologico consolidatosi progressivamente nel corso di più di due decenni nel
centrosinistra è evidente che si tratta di un profilo e un immaginario diverso dal passato. Del resto
quasi tutti i partiti dell’internazionale socialista sono in crisi e perdono molti consensi proprio in
conseguenza delle politiche neoliberiste che hanno portato avanti in diversi paesi e nella
Commissione Europea. Non può essere negata neanche l’evoluzione del M5S che da un lato ha
molto ridotto la sua consistenza elettorale direttamente a vantaggio della destra e dell’astensione,
ma dall’altro ha assunto – pur con tante contraddizioni – un profilo progressista e antifascista fino
all’adesione al gruppo The Left al parlamento europeo e soprattutto una posizione pacifista. La
stessa crescita elettorale di AVS alle ultime elezioni europee definisce un possibile peso differente
di posizioni di sinistra e ambientaliste. Il peso delle formazioni centriste dal marcato profilo
neoliberista che più si richiamano all’agenda Draghi e alla lunga stagione dell’ubriacatura
neoliberista e confindustriale appaiono assai ridimensionate.
Su questo quadro politico, certamente assai diverso dal passato anche recente, non bisogna
alimentare illusioni perché ci sono elementi di lunga durata che pesano e manca una seria
ridiscussione dell’impianto programmatico che ha caratterizzato i governi di centrosinistra e che
ancora li caratterizza nelle regioni e negli enti locali. Il gruppo dirigente del PD per gran parte è
quello del passato, con i suoi metodi, i suoi sistemi di potere, le sue relazioni, le culture e i programmi
che ha espresso e sostenuto. Soprattutto il quadro in cui il PD inserisce le coordinate della sua azione
è quello che ha condiviso con gli altri partiti “socialisti”, in diversi dei quali sono in corso
ripensamenti e cambi di rotta, e con la governance europea. Sul piano poi della questione dirimente
in questo momento storico – quella della guerra e del riarmo – è evidente quanto sia forte il legame
e la subalternità agli USA e alla NATO. Non è un caso che finora il cosiddetto “campo largo” non sia
stato in grado di proporre un progetto di cambiamento per il paese e che si sia aperto uno scontro
rispetto all’alleanza con Renzi. Il positivo riattivarsi di energie nelle mobilitazioni contro il governo
Meloni non deve far dimenticare che nel nostro paese l’astensione è altissima, riguarda soprattutto
le classi popolari ed è cresciuta parallelamente alla spoliticizzazione derivante anche dalla delusione
nei confronti dei governi di centrosinistra.
Un partito comunista non può non tenere conto di uno scenario così cambiato e del nuovo quadro
politico. È evidente che esso contiene da un lato un tentativo di ridefinire un profilo di sinistra e
sociale del PD per recuperare elettorato e competere con M5S ma anche spazi di iniziativa per una
sinistra di alternativa che non vuole auto-marginalizzarsi. Nessun esito è sicuro e automatico,
dipendono da molti fattori le scelte tattiche che dovremo fare nel futuro immediato e a lungo
termine. Ma è evidente che dobbiamo riconquistare la credibilità in un vasto elettorato che chiede
una svolta delle politiche dello stato a favore delle classi subalterne con provvedimenti tangibili ed
efficaci.
Tranne ristrette “avanguardie” nessuno in Italia è interessato a misurare, nelle elezioni, la
“coerenza” o la “fedeltà a principi astratti” incapaci di modificare alcunché della realtà sociale del
paese. Dobbiamo mettere in atto a questo proposito una seria analisi sulla composizione politica di
classe che non sia semplicemente una pur necessaria fotografia della condizione oggettiva,
lavorativa, economica ma che faccia inchiesta sull’opinione (come scrive Gramsci sulla “vita

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interiore”) delle fasce sociali subalterne. Troppo spesso a sinistra viene risolta la scarsa conoscenza
della realtà con scorciatoie iper-soggettiviste e aleatorie, che danno per scontata una potenziale
propensione alla lotta di massa da parte di soggetti che subiscono profonde ingiustizie; troppo
spesso questa caricatura viene fatta sull’elettorato astensionista, sul popolo del web, sulle fasce
sociali sfruttate o escluse. La realtà sociale non può essere ridotta alla bolla esperienziale di ristretti
circuiti militanti, ancor meno nei molti casi in cui il nostro Partito non ha un’internità reale ai processi
sociali ma si limita ad evocarli o millantarli. Le stesse realtà nelle quali siamo presenti non possono
essere interpretate come necessariamente parte di una lotta per il “tutto mai”; sono portatrici di
processi dialettici “vertenza-risultato”, “obbiettivo-verifica”. Le stesse realtà nelle quali siamo
presenti non possono essere interpretate come necessariamente parte di una lotta per il “tutto
mai”; sono portatrici di processi dialettici “vertenza-risultato”, “obbiettivo-verifica”. Un discorso
analogo va fatto per i movimenti e le vertenze in cui emergono di frequente esigenze di referenti
sul piano della rappresentanza ed in questo quadro l’affinità ideale, il rispetto o la collaborazione
politica con noi non vanno confuse con un presunto credito ad una linea che rischia di essere
percepita come cieco isolazionismo.
“essi rivolgeranno a noi le loro proteste solo quando vedranno che possono raggiungere qualche
risultato, che noi siamo veramente una forza politica” (Lenin)
Bisogna avere parole d’ordine chiare che corrispondano alla natura della fase politica che stiamo
attraversando.

  1. UN BILANCIO
    Il prossimo Congresso del PRC dovrà essere l’occasione per un ripensamento profondo della sua
    natura, della sua strategia e del suo modo di operare nella società italiana e nella dimensione
    internazionale. Per questo è innanzitutto indispensabile un bilancio della sua vicenda storica in
    generale ma, in particolare, dell’esperienza avviata con il congresso di Chianciano del 2008 che portò
    ad una spaccatura a metà del partito e a successive scissioni.
    Occorre un bilancio approfondito che prenda atto che quell’ipotesi strategica – il tentativo di
    costruire” in basso, a sinistra” una coalizione politica ed elettorale unendo le forze politiche
    antiliberiste e alternative al centrosinistra – non ha funzionato anche se le sue premesse erano
    certamente giuste e avevano l’obbiettivo di dare risposta alla crisi aperta dalla sconfitta della Sinistra
    Arcobaleno. Il PRC si è indebolito e ha perso peso politico come attestano tutti i dati oggettivi.
    Arretramento dell’influenza elettorale, progressiva riduzione degli iscritti e dei militanti, ulteriori
    defezioni del gruppo dirigente che a Chianciano aveva costituito parte della maggioranza.
    Lo stato attuale del Partito, la sua progressiva esclusione da tutte le sedi rappresentative,
    l’insuccesso delle varie forme di aggregazione costruite dal 2008 ad oggi, in un contesto di
    invecchiamento complessivo del quadro attivo, pongono inevitabilmente il tema della esistenza del
    PRC come forza autonoma e capace di iniziativa politica. La stessa difficoltà nel generalizzare le
    pratiche di “partito sociale” riflette un generale indebolimento di un corpo militante pur generoso
    e in grado di compiere miracoli organizzativi come dimostrato nelle raccolte firme per leggi di
    iniziativa popolare e presentazione delle liste.

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Il dibattito congressuale non si può chiudere nel tatticismo o nello scontro di corrente che potrebbe
solo determinare un ulteriore e forse definitivo indebolimento del PRC, ma deve assumere come
necessario un confronto sulle questioni fondamentali: prospettiva strategica, cultura politica,
definizione dei soggetti sociali protagonisti dell’idea di trasformazione, scelta delle alleanze.
È indispensabile un’ispirazione unitaria pur nella pluralità dei punti di vista e la capacità di indicare
alle classi lavoratrici un progetto politico e ideale e anche una prospettiva di cambiamento che non
vedono nell’attuale contesto politico.
La strategia uscita dal congresso del 2008 presupponeva l’esistenza di una richiesta politica diffusa

in settori popolari per la costruzione di uno schieramento alternativo alla destra ed anche al centro-
sinistra in quanto, anche quest’ultimo, interno al paradigma neoliberista. Se le ragioni di quella

impostazione sono state confermate dalle politiche dei governi che si sono succeduti è evidente che
i vari tentativi di costruire questo polo non hanno avuto successo. Nel momento in cui la crisi di
legittimazione delle classi dirigenti è stata più forte è stato il grillismo a raccogliere la protesta e il
malcontento. Quando è andato in crisi non si sono aperti maggiori spazi alla sinistra di alternativa al
di fuori del bipolarismo.
L’ipotesi su cui abbiamo costruito la nostra tattica è stata quella che la rottura col centrosinistra e
la nostra alternatività ai poli esistenti avrebbe consentito di ricostruire, unitamente al lavoro sociale,
un radicamento di massa e la possibilità di diventare punto di riferimento per larghi settori della
società e delle classi lavoratrici colpiti dalle politiche neoliberiste. Questo non è accaduto e
dobbiamo analizzare le ragioni per le quali la nostra indubbia coerenza non si è tradotta in una
rinnovata connessione sentimentale con le classi popolari o le giovani generazioni.
Una risposta la troviamo già in Gramsci che nei Quaderni del carcere scriveva: “La pretesa
(presentata come postulato essenziale del materialismo storico) di presentare ed esporre ogni
fluttuazione della politica e dell’ideologia come una espressione immediata della struttura, deve
essere combattuta teoricamente come un infantilismo primitivo, o praticamente deve essere
combattuta con la testimonianza autentica del Marx, scrittore di opere politiche e storiche
concrete.”
L’impoverimento di larghi settori popolari e o la precarizzazione del lavoro non si traducono
automaticamente in uno spostamento a sinistra nella società e non è una scoperta recente che
correnti politiche pur esprimendo gli interessi di classe e popolari più di altre non riescano a
trasformarsi in “forza materiale”, cioè in consenso.
Siamo da tempo di fronte al rischio concreto che dalla ricerca di un polo alternativo con influenza di
massa si arrivi ad una visione sempre più settaria del rapporto con le altre forze politiche, le
organizzazioni sociali e le diverse correnti ideali che hanno influenza nella società. Partendo da una
prospettiva fondata, l’alternatività alla destra e al centro-sinistra può diventare la copertura di un
vuoto strategico e produrre una totale ininfluenza nel dibattito politico e sociale.
Durante la fase aperta dal governo Monti e del renzismo c’è stata la possibilità concreta di aggregare
un polo di alternativa e/o una soggettività unitaria di sinistra antiliberista. Ma da tempo
riscontriamo una difficoltà enorme di cui i risultati elettorali sono un riflesso.
La riflessione critica non ci esime dall’esame dei nostri limiti ma va anche evitato di auto attribuirci
responsabilità ed errori che non abbiamo commesso. L’alternativa in basso a sinistra avrebbe avuto

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bisogno di raccogliere in una coalizione della sinistra antiliberista unita, come è stato fatto in altri
paesi, la forza per competere con il PD per l’egemonia nell’opposizione alle destre e per opporsi con
la massa critica sufficiente ai governi tecnici di sostanziale unità nazionale. Oltre alle difficoltà poste
dalla legge maggioritaria bipolare italiana abbiamo dovuto fare i conti con i nostri interlocutori, sia
alla nostra “destra” sia alla nostra “sinistra”, totalmente schiacciati sulle opposte posizioni di
subalternità al PD o di autoisolamento settario ed impotente. Questi sono i principali motivi
oggettivi che non hanno permesso di unire la sinistra alternativa in modo continuativo e
convincente. La nostra responsabilità consiste nel non aver per tempo portato avanti, anche a causa
della vita correntizia interna al partito, una lotta politica dentro e fuori al partito per rimuovere le
opposte illusioni e la discutibile concezione secondo la quale nelle elezioni non si dovrebbero fare
scelte tattiche, per loro natura sempre contraddittorie perché condizionate da molti fattori, dallo
stato del conflitto sociale al grado di egemonia del sistema maggioritario nella popolazione, dalla
natura della destra in campo all’apparente oggettività delle scelte tecnocratiche dell’Unione
Europea e dei nostri governi tecnici e così via, bensì scelte di principio e ispirate dall’affanno di
testimoniare una coerenza ed un purezza nell’enunciazione di posizioni utili a convincere una
ristretta minoranza estremamente politicizzata, o una opposta coerenza di internità allo
schieramento di centrosinistra qualsiasi fosse la sua politica in nome della battaglia contro la destra.
Oggi in Italia esistono decine di formazioni che si definiscono comuniste. Inizialmente il PRC, sotto
l’effetto del crollo del blocco di paesi del socialismo di stato e della scomparsa del PCI aveva
raggruppato in sé tutte le varie tendenze, anche se la sua principale dimensione di massa era data
da militanti provenienti dall’esperienza del Partito Comunista Italiano. Le diverse vicende storiche
hanno portato ad una progressiva e crescente divaricazione di posizioni in parte legate a
differenziazioni ideologiche, alcune delle quali preesistenti alla stessa nascita del PRC, e in parte a
scelte politiche contingenti. Sulla dispersione ha anche influito una insufficiente capacità di costruire
una gestione collettiva e partecipata del Partito.
L’idea di ricomporre tutti questi frammenti in un unico soggetto politico è ormai impossibile e in
larga parte inutile anche per il prevalere di logiche settarie nelle quali la modalità autoreferenziale
e lo scollamento dai soggetti sociali è per molti versi irreversibile.
Senza perdere il nostro impegno unitario nei confronti delle formazioni comuniste e anticapitaliste
non possiamo inseguire logiche che ci impediscono di sviluppare l’iniziativa politica e le
interlocuzioni indispensabili a svolgere un ruolo efficace.
L’esperienza di Potere al popolo e poi di Unione Popolare ha mostrato che sostanzialmente quello
che doveva essere un contenitore unitario “a bassa soglia” capace di essere attrattivo nei confronti
di settori più larghi della società, della sinistra, delle culture critiche, dei movimenti si è trasformato
in un recinto settario. Per questo va confermata la scelta di ritenere esaurita quella esperienza di
costruzione di un soggetto unitario che avrebbe senso solo se in grado di essere veicolo effettivo di
reale allargamento come in altri paesi europei e dell’America Latina.
Per quanto riguarda le soggettività dichiaratamente comuniste, nate da scissioni di Rifondazione,
dobbiamo laddove si rendesse possibile operare per la riunificazione sulla base del patrimonio
comune originario.

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Per il PRC, che è nato da una volontà di rappresentare una maggioranza sociale, il ripiegamento nella
logica della setta sarebbe un cambiamento di natura e la rinuncia a svolgere il proprio ruolo storico
di partito di trasformazione sociale.
Trasformarsi in “setta politica”, per usare l’espressione di Marx, è oggi un pericolo concreto. Non si
tratta solo di un problema di quantità numerica delle forze organizzate e influenzate dal partito ma
di una diversa logica di azione politica. Il PRC mantiene una capacità di incidenza e di relazioni dovute
alla propria natura originaria, di forza politica con dimensioni di massa, ma questa incidenza è
destinata sempre più a svanire se non è supportata dalla capacità di mutare i rapporti di forza e di
incidere nelle dinamiche politiche e sociali.
La ricerca su come uscire dalla crisi che vive il nostro progetto è un compito che non si risolve
attraverso la ripetizione all’infinito delle stesse posizioni e degli stessi propositi volontaristici.

  1. Uscire dall’elettoralismo estremistico
    Nella storia dei partiti rivoluzionari e comunisti si è sempre discusso molto, e ci si è divisi molto, fino
    a drammatiche scissioni. Ma queste discussioni vertevano sempre su questioni strategiche (diverse
    letture della fase della lotta di classe, diverse interpretazioni di Marx, il problema del potere, etc.),
    in Rifondazione invece si discute, e ci si divide, praticamente solo su questioni tattiche, anzi
    riguardanti quel limitato settore della tattica che è la tattica elettorale.
    In generale noi sappiamo che la prevalenza della tattica sulla strategia non è mai un buon segnale
    per i partiti comunisti, anzi questo è un segnale certo di opportunismo.
    Forse questa centralità dell’elettoralismo è un residuo di altre fasi della storia di Rifondazione, e
    della centralità che assumeva in quelle fasi la rappresentanza istituzionale, peraltro al tempo
    abbastanza cospicua, nonché fonte di finanziamento e garanzia di visibilità mediatica del Partito.
    In passato abbiamo sicuramente avuto problemi di tendenze elettoralistiche che tendevano alla
    subalternità verso il centrosinistra e abbiamo condotto una dura lotta su questo piano. Da tempo
    assistiamo a una propensione opposta e speculare. Lo sottolineiamo con un richiamo al modo di
    Lenin di “piegare il ferro dalla parte opposta per raddrizzarlo”.
    Oggi sembra a volte che per un Partito debole nel suo radicamento sociale, debolissimo sul piano
    ideologico e culturale, le elezioni rappresentino il luogo privilegiato, se non l’unico, della identità.
    Ciò determina una sorta di paradossale elettoralismo estremistico, che abbiamo duramente pagato
    in molte situazioni: elettoralismo, perché si mette al centro di tutto, come elemento prioritario (se
    non unico) dell’identità del Partito il fatto elettorale, ma estremistico, perché si declina questo
    problema con considerazioni settarie, che nulla hanno a che fare con il conseguimento di un buon
    risultato elettorale (ad esempio rifiutando qualsiasi alleanza, anche quelle rese necessarie dalle
    infami leggi elettorali vigenti o da spazi concreti di iniziativa).
    Se ci si presenta alle elezioni è del tutto evidente che l’obiettivo sia laddove possibile eleggere, e
    dunque i trucchi e le truffe del potere che sono stati pensati e introdotti proprio per impedire che
    le/i comuniste/i possano eleggere debbono essere contrastati, cioè (in attesa di sopprimerli)

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debbono essere nel frattempo almeno aggirati con una intelligente tattica (e la tattica presuppone
sempre dei margini di spregiudicatezza).
La concezione che riduce l’identità comunista al momento elettorale è sbagliata e assai dannosa, e
il Congresso è chiamato a correggerla.

  1. LA NOSTRA PRESENZA NEGLI ENTI LOCALI
    Rifondazione Comunista è impegnata nella costruzione dell’alternativa alla guerra al neoliberismo.
    Questa lotta non può prescindere dalla lotta contro le destre oggi al governo. Le nostre posizioni
    non avanzano se percepite come autoreferenziali e non utili al fine di sconfiggere le destre. È su
    questo che fa leva il “voto utile”. La nostra tattica è evidente che deve misurarsi con i dati
    dell’esperienza e con le dinamiche in corso. Abbiamo verificato, per fare un esempio, che la
    posizione che abbiamo assunto da anni per quanto riguarda gli enti locali non si è rivelata efficace
    quando slegata dalle dinamiche concrete dei territori.
    La scelta di rifiutare a priori ogni alleanza locale e/o regionale ha prodotto la nostra fuoriuscita dagli
    enti locali e dalle regioni pressoché ovunque, tranne in rare aree del paese dove abbiamo
    storicamente una forza più consistente o in rare esperienze locali.
    La nostra linea, che non è seguita da nessun partito della sinistra radicale in Europa, aveva una sua
    efficacia nel periodo in cui il PD al governo appariva agli occhi di settori larghi della sinistra critica e
    dei movimenti come l’incarnazione dell’establishment e del neoliberismo. Non a caso in quella fase
    riuscimmo a costruire esperienze forti e larghe in tante grandi città e siamo stati tra i promotori,
    come nel progetto dell’Altra Europa, di una riaggregazione di energie e intelligenze a sinistra capace
    anche di raccogliere consenso. Dopo Renzi le cose sono diventate più difficili e oggi nel nuovo
    quadro politico è assai ristretta l’area di chi ritiene a priori indispensabile e imprescindibile
    l’alternatività al centrosinistra.
    Questo non implica che nella maggior parte delle città e delle regioni non vi siano solidissime e
    concrete ragioni per motivare la nostra proposta di alternativa. In altre, probabilmente assai meno,
    si possono aprire spazi per coalizioni più larghe e di cambiamento concreto o comunque contesti da
    valutare caso per caso.
    Abbiamo constatato che la nostra proposta di costruire dove possibile coalizioni con M5S e anche
    AVS ha dato spesso buoni risultati smentendo le propensioni settarie di altre formazioni dentro UP
    e anche nel nostro partito.
    È evidente che una linea che discenda dall’alto su realtà assai diverse tra loro non funziona e anzi in
    molti casi ci ha isolato al punto di non riuscire neanche a presentare liste unitarie. Non si tratta di
    perdere per nulla la nostra radicalità delle nostre posizioni sui beni comuni, il lavoro, l’urbanistica,
    il consumo di suolo, le privatizzazioni, l’ambiente i servizi sociali, la corruzione e il clientelismo. Non
    dobbiamo assolutamente tenere l’atteggiamento di AVS che è quello di alleanze a tutti i costi e
    subalterne al PD ma dare ai territori la possibilità di determinare le modalità e le tattiche diverse
    con cui è possibile condurre la lotta politica nei differenti contesti.
    Dobbiamo continuare a essere alternativi ma in una maniera che, senza sacrificare il nostro profilo
    e i nostri contenuti, sia più efficace e articolata, capace di cogliere le occasioni laddove ve ne siano
    le possibilità per allargare il coinvolgimento e la capacità di parlare alla società, alle classi popolari e

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ai settori di movimento. Di certo scomparire da gran parte dei comuni non aiuta a rafforzare la
sinistra di alternativa. La nostra vigilanza dovrebbe essere rivolta a qualificarci come partito, fuori e
dentro le istituzioni, capace di costruire conflitto, vertenze, proposte e mutualismo. La presenza
nelle istituzioni è parte di una “lunga marcia” che deve sempre coniugarsi al rifiuto
dell’omologazione.

  1. LA QUESTIONE DELLE ALLEANZE
    Il tema delle alleanze politiche e sociali non può essere accantonato o risolto con formule
    semplicistiche che esorcizzano la realtà anziché modificarla. Tutta la sinistra alternativa europea si
    è posta nel tempo il problema di come rapportarsi alla socialdemocrazia e alla sinistra liberale. Ha
    dovuto prendere atto della difficoltà, in presenza di rapporti di forza quasi sempre sfavorevoli, di
    produrre effettivi cambiamenti politici. In generale non ha mai negato pregiudizialmente la
    possibilità e necessità di forme di accordo.
    Spesso ha pagato un prezzo elettorale alla partecipazione a governi che non hanno dato risposte
    adeguate alle esigenze delle classi popolari, ma ha anche dovuto mantenere una tattica (che
    qualcuno forse considera “tatticismo”) sufficientemente flessibile per non venire cancellata dallo
    scenario politico e diventare una forza del tutto irrilevante.
    Certamente per allearsi occorre esistere come forza politica dotata di un’autonomia strategica e di
    identità e di un minimo di radicamento sociale e anche di una volontà conflittuale. Trasformare una
    scelta di tattica elettorale in un marcatore di identità non è segno di radicalità quanto semmai di un
    vuoto di strategia. Il fatto che tante rotture dentro il PRC siano avvenute su questo tema non è il
    segnale di un perenne scontro fra opportunisti e autentici rivoluzionari, ma l’effetto della
    insufficienza del partito, una volta esaurita l’onda derivata dall’opposizione allo scioglimento del
    PCI, di fondare una nuova dimensione strategica adeguata al mutamento di contesto. Sicuramente
    a questo hanno contribuito i diversi sistemi elettorali ma se la nostra debolezza è determinata solo
    ai fattori oggettivi, sui quali per lo più non abbiamo possibilità immediata di intervenire, non resta
    che una sorta di rassegnazione seppure mascherata da una retorica tanto declamatoria quanto
    irrilevante.
    Le alleanze politiche non possono essere scollegate da un discorso adeguato sulle alleanze sociali.
    La vecchia struttura tolemaica che partiva dalla classe operaia della grande industria e poi via via si
    allargava ad altri settori sociali non ha più la base materiale per realizzarsi. Questo non implica che
    non sia necessario lavorare alla costruzione di un blocco sociale dell’alternativa perché una
    maggioranza sociale possa e debba trasformarsi in maggioranza politica.
    Questo obbiettivo richiede un lavoro di analisi assai più approfondito di quanto sinora sia stato
    finora realizzato, una capacità di interagire con specifici settori sociali, così come con movimenti che
    non nascono immediatamente dal conflitto di classe.
    Non basta invocare le lotte perché queste avvengano (e oggi purtroppo il conflitto sociale in Italia è
    al di sotto di quanto sarebbe necessario). E ancora di più, il compito di un partito politico comunista
    non è solo di agitare la retorica delle lotte, ma anche essere in grado di aiutare a far sì che esse

ottengano dei risultati positivi e se possibile la capacità di rappresentarle dentro il sistema politico-
istituzionale.

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Si può scegliere una linea di rottura con il centrosinistra, come facciamo dal 2008, si può scegliere
un campo di alleanze ristretto, si possono fare scelte differenti in situazioni differenti, ma è sbagliato
trasformare tali scelte in elementi identitari che impediscono di adeguare la propria linea e di
“imparare dalle sconfitte”. Per Lenin “rinunciare agli accordi e ai compromessi con dei possibili
alleati (sia pure temporanei, poco sicuri, esitanti, condizionali)” era “cosa sommariamente ridicola”.
Discutere di alleanze non è mai stato considerato nella storia dei comunismi un tema “politicista”.

  1. Contro le destre una nuova coalizione popolare sarebbe necessaria
    È consapevolezza comune che il centro-sinistra, per il ruolo egemone del PD e per le classi sociali di
    cui è riferimento, per la rottura profonda avvenuta con parti importanti delle classi popolari, per
    l’allineamento oltranzista con l’atlantismo e l’occidentalismo, non sia in grado di rispondere alla
    esigenza di cambiamento che richiede innanzitutto un mutato rapporto di forza tra classi dominate
    e classi dominanti. Non si pone quindi il tema di un nostro ingresso nel centro-sinistra o nel
    cosiddetto “campo largo” sia perché esso così com’è non è in grado di rappresentare un argine alla
    destra, sia perché stante la nostra debolezza saremmo sostanzialmente ininfluenti. L’emergere del
    tema della guerra come fatto centrale della fase politica rende ancora più lontana la possibilità di
    un avvicinamento.
    Occorre però chiedersi se possiamo sottrarci all’esigenza, che risponde alle attese di vasti settori
    popolari, sia tra coloro che votano per il centrosinistra sperando che l’indubbio spostamento di
    accenti introdotto dalla Schlein porti ad effettivi cambiamenti di politica, sia tra coloro che si
    astengono e sia anche in alcuni settori popolari che votano a destra, di indicare una nostra proposta
    politica che riguardi il governo del Paese.
    L’idea del “terzo polo”, definizione che al momento è utilizzata dalle forze neoliberiste centriste,
    appare debole. Tanto più alla luce della parabola del Movimento 5 Stelle che è entrato nel sistema
    politico per opporsi sia alla destra che al centro-sinistra per poi costruire le più diverse e contrastanti
    alleanze.
    La nostra proposta politica non può essere quella di batterci per conquistare uno spazio più o meno
    grande in un contesto che, anche dal punto di vista istituzionale, si è profondamente modificato.
    Quei cambiamenti che in altre epoche potevano essere ottenuti dal PCI, che aveva ben altra
    dimensione, ma anche dalle più limitate presenze parlamentari di PdUP e DP, sono oggi preclusi
    dallo svuotamento del parlamento e dalla prevalenza degli esecutivi.
    La possibilità di indicare una prospettiva di governo può apparire oggi velleitaria, data la nostra
    marginalità nello scontro politico, ma ridurre le proprie ambizioni alla misura della propria forza in
    genere porta ad accelerare la tendenza al declino non ad invertirla. Il PRC per diverse ragioni ha
    ancora una certa capacità di intervenire nelle dinamiche politiche, trovare interlocutori e sottrarsi
    alla “damnatio memoriae” a cui molti, alla nostra destra e alla nostra sinistra, vorrebbero sottoporci.
    La stessa iniziativa di Santoro e La Valle, pur se in modo non sempre soddisfacente, ha portato
    diverse figure a volte anche lontane da noi a riconoscerci come soggetto politico. Lo stesso si può
    dire dell’avvicinamento del M5S al gruppo parlamentare europeo di The Left. Agire politicamente
    (e qui ancora si verifica la distinzione dalle sette) non può limitarsi a prendere atto dell’esistente e
    della sua perenne eternità, dalla quale si trae la convinzione che noi siamo gli unici a conoscere il

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segreto della salvezza dell’anima, quanto individuare la possibilità di intervenire su conflitti
potenziali e contraddizioni esistenti nei vari campi per modificare la situazione a nostro favore.
Prendendo anche l’esempio di alcune esperienze di altri Paesi, ultima quella del Nuovo Fronte
Popolare francese (sul cui esito ovviamente è necessario mantenere una ragionevole prudenza per
evitare un altro “effetto Syriza”), si può prospettare un’altra ampia alleanza i cui elementi
programmatici e la cui base sociale siano necessariamente diversi dall’attuale centro-sinistra? In
questo senso la nostra proposta esclude il “campo largo”, anzi ne rappresenta l’opposto: il “campo
largo” vuole essere un’alleanza senza principi e programma costruita solo sulla generica opposizione
alla destra (che in realtà finisce per rafforzarla); noi proponiamo al contrario punti dirimenti di
programma, a partire dal no alla guerra e al neoliberismo, su cui verificare a tutti i livelli diverse
possibilità, o impossibilità, di convergenze tattiche, ove queste possano servire alla lotta di classe,
all’impegno contro le devastazioni ambientali e alla difesa delle condizioni di vita e di lavoro delle
masse popolari.
Questa ipotesi richiede dunque come presupposto l’autonomia politica del PRC, la ricostruzione di
una forza di sinistra alternativa significativa e capace di agire sulle contraddizioni che si aprono
nell’attuale centro-sinistra. E anche su una prospettiva di cambiamento significativo dei rapporti di
forza tra sinistra alternativa e centrosinistra liberale.

  1. PER UN’ALTERNATIVA ANTIFASCISTA ALLA GUERRA E AL NEOLIBERISMO: LA VIA MAESTRA
    DELLA COSTITUZIONE
    La lotta alla guerra, alla tendenza alla guerra, all’economia di guerra, la lotta contro i cambiamenti
    climatici e la devastazione ecologica, la lotta per la democrazia, la giustizia sociale, le libertà e la
    civiltà sono per noi strettamente interconnesse perché hanno alla radice il carattere sempre più
    distruttivo del capitalismo.
    Questa è la base della proposta politica di Rifondazione Comunista. Dentro questo orizzonte
    strategico va definita la nostra identità con estrema chiarezza e per questa ragione anche capacità
    di gestire la tattica in funzione della strategia. Non piccola, magari anche agile, imbarcazione capace
    però di navigare solo in acque interne o comunque prossime, ma solida caravella capace di sfidare
    il mare aperto. Dobbiamo e recuperare quel carattere corsaro che all’autonomia e alterità rispetto
    al centrosinistra univa anche la capacità di incalzarlo e contendergli l’egemonia almeno su una parte
    della società e della sinistra.
    La nostra proposta politica non può ridursi nell’attuale scenario politico alla reiterazione della
    prospettiva di un terzo o quarto polo alternativo a quelli esistenti. Questo semmai può essere il
    risultato di una lotta politica quando si arriverà alle elezioni politiche e potremo valutare lo scenario
    che si è determinato.
    Noi siamo alternativi a quello che si è configurato come “partito unico” del neoliberismo e della
    guerra. Nostro compito è dunque aprire contraddizioni e provare a disarticolare questo blocco.
    Come indicava Marx occorre evitare di dover fronteggiare “un’unica grande massa reazionaria”
    isolandosi nella sicura sconfitta.

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Ora, come con tattiche diverse hanno fatto altri partiti comunisti e della sinistra radicale in Europa,
dobbiamo evitare di farci marginalizzare e abbiamo il DOVERE di lavorare per mettere al centro la
necessità non solo di costruire un’alternativa all’estrema destra al governo ma anche una netta
discontinuità rispetto alle politiche neoliberiste e guerrafondaie che in Italia e in Europa hanno
contribuito al risorgere dei fascismi e dell’estrema destra.
Dobbiamo formulare una proposta al paese, a quel popolo che si definisce di sinistra, ai movimenti,
ai mondi dell’associazionismo e della cultura, alle classi lavoratrici e popolari. Dobbiamo fare una
proposta politica che non appaia velleitaria e che apra contraddizioni e cerchi di spingere in avanti
gli equilibri politici.
Possiamo chiamarla nuovo fronte popolare, fronte ampio, coalizione pacifista o come vogliamo ma
dobbiamo proporre con forza un’alternativa fondata sul rifiuto della guerra, sul rilancio dello stato
sociale, sui diritti di chi lavora, su un programma antiliberista ed ecosocialista di ricostruzione e
rinnovamento del paese, un’alternativa che indichi “la via maestra” dell’attuazione della
Costituzione.
Ridiventare protagonisti nel nostro Paese significa affrontare le emergenze sociali e democratiche e
darvi una risposta convincente. Senza l’assunzione di una tale prospettiva non ci sarebbe un futuro
per le/i comunisti. Oggi siamo di fronte a emergenze prioritarie:
-la devastazione a livello sociale provocata dalle politiche neo-liberiste con livelli di occupazione
bassi, alti tassi di disoccupazione, crescita delle fasce sociali in povertà, difficoltà dei giovani a
entrare nel mercato del lavoro, diffusione senza precedenti della precarietà, crescita esponenziale
della diseguaglianza, indebolimento drammatico delle strutture di welfare a partire dalla sanità,
emergenza abitativa, emigrazione, in particolare della forza-lavoro giovanile ed intellettuale e dal
meridione;
-l’attacco alla Costituzione con il tentativo attraverso l’autonomia differenziata di territorializzare i
diritti, e con il premierato di accentrare i poteri nell’esecutivo e nel Presidente del consiglio,
riducendo il peso delle opposizioni e ridimensionando seccamente gli organi di garanzia come il
Presidente della repubblica, la separazione assoluta delle carriere della Magistratura che
schiaccerebbe il PM ancor più sulla polizia giudiziaria, le norme liberticide contro la protesta sociale,
l’aumento delle persone ristrette in carcere ed esecuzione delle pene in strutture assolutamente
fatiscenti;
-la devastante crisi ambientale.
Per ottenere risultati su questi fronti, dobbiamo affermare chiaramente che la condizione
fondamentale è battere le destre con i referendum e che sarebbe auspicabile sottrarre loro il
governo del Paese domani. Nello stesso tempo è necessario che contestualmente mutino gli
orientamenti delle forze di opposizione facendo maturare nel Paese un progetto di uscita dal
neoliberismo.
La novità positiva di questi mesi è rappresentata dal costituirsi di uno schieramento referendario
ampio che mette assieme soggetti sociali e in primis, CGIL e ANPI, comitati contro l’autonomia
differenziata, giuristi democratici, ecc. con le forze di opposizione. Merito della CGIL aver posto con
la Via maestra il riferimento alla difesa della Costituzione, contro l’attacco pericolosissimo delle
destre di governo. Lo schieramento referendario costituisce oggi un’importante risorsa alla quale

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le/i comunisti devono dare tutto il loro impegno, per sensibilizzare cittadine/i, per garantire una
mobilitazione ampia, per intrecciare i temi istituzionali con quelli sociali.
Pur partendo da una pulsione difensiva questa mobilitazione sollecita al rilancio di un’opposizione
sociale che travalichi il moderatismo d’ispirazione neo liberista che ha imperversato nel paese.
L’iniziativa della CGIL coi referendum sociali contro il precariato e le condizioni di lavoro costituisce
un segnale di un salutare ripensamento su un tema importante. È interesse del Paese che questa
convergenza dell’opposizione si consolidi in un “Nuovo patto costituzionale” fondato sulla difesa e
attuazione della Costituzione, sulla rinascita di un generale impegno antifascista, sulla difesa
intransigente della democrazia e sulla garanzia del rispetto dei fondamenti del dettato
costituzionale. Le divisioni e le differenze che esistono nel campo dell’opposizione democratica non
devono esser d’impedimento di un impegno comune e in ogni caso le/i comuniste/i devono essere
i più consapevoli dell’esigenza di far riemergere nel paese i principi e il programma della
Costituzione.
Dobbiamo far crescere nel Paese una opposizione di massa non solo contro l’attacco
antidemocratico, ma anche contro il neoliberismo che ispira oggi l’azione del governo delle destre,
come ha ispirato finora le politiche del PD e del centro-sinistra. Le differenze che a tale riguardo
esistono fra le forze di opposizione limitano la possibilità di una battaglia efficace e rendono debole
la proposta di un’alternativa al governo delle destre. È il grande limite che grava sulla proposta del
“campo largo”: un perimetro costruito sulla comune necessità di battere sul piano elettorale le
destre, ma senza un progetto condiviso da porre in alternativa a queste. Sarebbe molto importante
che il nuovo patto costituzionale evolvesse incorporando il rifiuto della guerra e l’uscita dal neo
liberismo, ma ciò non è oggettivamente facile, date le differenze esistenti. Ed è per questo che è
necessario che nel Paese si affermi all’interno di un fronte di opposizione costituzionale un fronte
antiliberista che si proponga non solo di battere le destre, ma anche di far uscire il paese dalla
stagione del neoliberismo e che assuma il tema del rifiuto della guerra come questione dirimente.
Nasce da qui l’assoluta esigenza che – come in Francia o in Spagna- emerga un nuovo fronte di
sinistra antiliberista.
Un fronte popolare in Italia è cosa completamente diversa dalla realizzazione di un piccolo recinto
in cui collocare qualche forza radicale la cui ottica è quella, non tanto di misurarsi effettivamente
con la condizione del Paese e quindi di animare processi politici in grado di produrre un mutamento,
quanto di riproporre un’identità, marcando la propria diversità e ripiegando su un approccio
testimoniale. Questa propensione ha affossato definitivamente Unione Popolare. Un’esperienza
che voleva essere per molti qualcosa di diverso, ma che con l’emergere di atteggiamenti settari in
alcune forze ha alla fine deluso mancando agli stessi compiti che si era data. Per queste ragioni
quell’esperienza non è cresciuta e alla fine è implosa. Non può essere oggi questa la proposta
politica da avanzare alla sinistra di questo paese.
La stessa collocazione nel gruppo della Sinistra nel parlamento europeo di alcune forze come il
Movimento Cinque Stelle e Sinistra italiana, una sensibilità crescente in alcuni settori del sindacato,
nell’antifascismo militante, negli ambienti intellettuali democratici, il lascito dell’esperienza della
lista di Pace terra e dignità e anche il riaprirsi di una dialettica nelle forze politiche, offrono
un’opportunità per la costruzione di un campo dell’alternativa, che si qualifichi per un progetto di
uscita dal neoliberismo e dalla guerra.

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Una proposta di coalizione popolare su un programma che metta al centro il no alla guerra e un
programma antiliberista e intersezionale di giustizia ambientale e sociale può incontrare l’ascolto di
settori larghi della società italiana.
Si tratta di determinare il terreno per una lotta per l’egemonia tra le forze di opposizione con una
prospettiva concreta che sfidi la logica dell’alternanza.
Noi che siamo alternativi al “campo largo” e alla sua indeterminatezza dobbiamo sfidarlo sul piano
dei contenuti e del progetto di Italia e di Europa.

Sdegno e tenacia, scienza e ribellione, rapido impulso, meditato consiglio, fredda pazienza,
perseveranza infinita, intelligenza del particolare e intelligenza del tutto: solo ammaestrati dalla
realtà potremo cambiare la realtà.
Bertolt Brecht, La linea di condotta.
Per la commissione politica
Maurizio Acerbo, Fulvia Bilanceri, Anna Camposampiero, Antimo Caro Esposito, Elena Coccia,
Vincenzo Colaprice, Barbara Evola, Paolo Favilli, Eleonora Forenza, Dino Greco, Antonio Marotta,
Raul Mordenti, Gianluigi Pegolo, Antonella Piraccini, Mirna Testi, Gabriele Zanella.