Documentazione di una serie di recenti attacchi di coloni e IOF in Cisgiordania.
Tulkarem: L’occupazione ha continuato a prendere d’assalto il campo profughi di Tulkarem, provocando ingenti distruzioni di proprietà e infrastrutture. Le forze hanno bruciato la casa del martire Ahmed Salit.
Le IOF hanno impedito alle squadre della Mezzaluna Rossa di entrare nel campo profughi di Tulkarem per trasportare casi medici all’ospedale, nonostante il precedente coordinamento tramite il Comitato Internazionale della Croce Rossa.
Tubas: Le IOF hanno assediato una casa nella città di Tammun e hanno impedito alle squadre mediche di raggiungere un giovane ferito nelle vicinanze. La Mezzaluna Rossa ha recuperato il ferito che era stato gravemente ferito alla coscia dagli spari dell’occupazione. Sono stati segnalati quattro feriti dagli spari delle IOF.
Le IOF hanno arrestato e aggredito i cittadini durante l’assalto alle loro case nella città di Tammun.
Ramallah: Le IOF hanno preso d’assalto il villaggio di Kharbatha Bani Harith, a ovest di Ramallah, e arrestato i cittadini.
Nablus: I coloni dell’insediamento “Rehalim” hanno attaccato le case vicine all’incrocio del villaggio di Yatma, a sud di Nablus, e hanno appiccato incendi nella zona.
Altro fronte (Libano meridionale): fonti di sicurezza europee affidabili ad Al-Mayadeen: — L’attacco condotto da Hezbollah all’Unità 8200 a “Glilot” e alla base “Ein Shemer” ha ottenuto un grande successo.
L’attacco ha causato diversi morti e feriti.
Il numero di morti dell’Unità 8200 di intelligence “israeliana” ha raggiunto quota 22.
Il numero di feriti dell’Unità 8200 di intelligence “israeliana” ha raggiunto quota 74.
La visita di Blinken ha portato a un’escalation di massacri lungo la Striscia di Gaza.
Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina ha confermato che il risultato diretto della visita del Segretario di Stato americano Antony Blinken nella regione è l’escalation di massacri lungo la Striscia di Gaza e un aumento del ritmo della guerra genocida contro il nostro popolo, in mezzo al supporto e all’appoggio assoluti forniti dall’amministrazione americana all’entità criminale sionista.
L’amministrazione americana sta guidando questo genocidio, mobilitando le sue flotte nella regione per continuare il genocidio del nostro popolo e l’aggressione contro i popoli della regione. Non c’è soluzione a questo brutale attacco coloniale se non la resistenza in tutta la regione.
Blinken ha concesso al governo nemico un nuovo mandato per continuare l’aggressione e la guerra genocida, che l’esercito di occupazione criminale ha tradotto in massacri e operazioni di sfollamento nella Striscia di Gaza, l’ultima delle quali è stata l’assedio di decine di migliaia di sfollati a ovest di Khan Younis con carri armati e bombardamenti.
Gli Stati Uniti non sono un mediatore e ciò che sta accadendo non è un conflitto marginale. Questo è un genocidio guidato dall’amministrazione americana, profondamente coinvolta nella sua pianificazione ed esecuzione insieme al nemico criminale. I popoli della regione devono accogliere la visita del criminale di guerra Antony Blinken con rabbia e rivolte contro i crimini di guerra sionisti-americani contro il nostro popolo.
Gli Stati Uniti hanno deciso di genocidiare il nostro popolo a Gaza per garantire il controllo dell’entità sionista sull’intera regione, senza incontrare alcuna significativa opposizione internazionale o araba a questo crimine storico. La guerra genocida ha rivelato l’entità della dipendenza e dell’umiliazione che i governi e le élite arabe hanno scelto come loro strada.
Il nostro popolo, con le sue capacità limitate, non può fermare il genocidio e ha urgente bisogno dell’aiuto di tutti i suoi alleati e amici per affrontare la coalizione genocida. Tuttavia, può trovare e attivare strumenti per infliggere costi elevati all’occupante e a tutti coloro che hanno partecipato al genocidio del nostro popolo.
Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina Dipartimento Centrale dei Media 20 agosto 2024
Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina: — Mettiamo in guardia contro i tentativi dell’occupazione di manipolare l’accordo e guardiamo con sospetto al ruolo americano nell’adottare la visione dell’occupazione e nell’imporre nuove condizioni.
Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina afferma la ferma posizione delle fazioni della resistenza secondo cui rinegoziare questioni precedentemente concordate è inaccettabile. L’incontro programmato per domani dovrebbe essere dedicato alla discussione delle linee guida definitive del cessate il fuoco, concordato dalla resistenza, e a costringere l’occupazione ad aderirvi.
Riaprire questioni concordate per la negoziazione o accettare nuove condizioni dall’occupazione è visto come una manovra volta a perdere tempo a favore del nemico. Pertanto, il Fronte mette in guardia contro nuove manipolazioni da parte del criminale di guerra Netanyahu per imporre nuove condizioni che minerebbero l’accordo precedente.
Guardiamo con sospetto e dubitiamo delle posizioni dell’amministrazione americana, che potrebbe adottare la visione dell’occupazione e contribuire a ostacolare gli sforzi per porre fine all’aggressione, soprattutto dato il suo illimitato sostegno all’occupazione.
La resistenza ha agito con grande responsabilità e flessibilità per raggiungere un accordo che avrebbe posto fine a questa guerra distruttiva contro il nostro popolo. Tuttavia, non accetterà nuove condizioni che svuoterebbero il precedente accordo della sua sostanza o ostacolerebbero il raggiungimento delle condizioni della resistenza, che includono la completa cessazione dell’aggressione, un ritiro completo dalla Striscia di Gaza, la garanzia del ritorno degli sfollati senza restrizioni o condizioni e altre questioni relative alle fasi di attuazione per rompere l’assedio, fornire soccorso e ricostruzione.
La responsabilità dei mediatori è di fare pressione sull’occupazione per costringerla ad accettare l’accordo così com’è, in modo che l’incontro di domani non si trasformi in una mera perdita di tempo.
Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina Dipartimento Centrale dei Media 14 agosto 2024
Amnesia coloniale. Riferito alla classe politica e a tanti sinceri democratici italiani ed europei intervistati dai media ufficiali, l’accostamento di queste due parole (suggerito da Francesca Albanese) segnala, come meglio non si può, la presenza costante e discreta del passato coloniale dell’Europa ogni qual volta la conversazione verte sullo Stato d’ Israele e, più in generale, sull’impresa sionista di uno Stato ebraico in Palestina.
Che si tratti del regime di apartheid o dei mandati di arresto a Netanyahu e al ministro della guerra Gallant, o del “plausibile” genocidio in corso a Gaza, sembra d’obbligo che il primo pensiero vada allo Stato d’Israele e al timore che la sua immagine possa uscirne offuscata, oppure, come variante, si evoca il processo di pace (che non c’è).
Mi chiedo se siffatta sensibilità, fortemente contrastante con l’immagine di un’Europa che si vuole fondata sui diritti umani e sul diritto internazionale non sia l’effetto, appunto, di un’amnesia coloniale che aiuta a non vedere l’analogia fra il colonialismo d’insediamento israeliano in Palestina e quello britannico in America, francese in Algeria o boero in Sud Africa. Il fatto è che considerare Israele una colonia dell’Europa – l’ultima colonia dell’uomo bianco – significherebbe compiere una formidabile scelta di classe e parteggiare con i paesi del Sud del mondo, in maggioranza ex colonie. Una scelta per taluni angosciosa perché essere fedeli ai propri principi democratici e internazionalisti comporta un colossale tradimento della propria storia e delle proprie alleanze euro- atlantiche, nonché la rinuncia ai propri interessi geostrategici.
Perciò s’impone l’uso dei due pesi due misure, perciò tutto deve partire dal 7 Ottobre per non fare i conti col passato, perciò tutto è colpa di Hamas e Israele ha il diritto di difendersi.
Con non pochi scricchiolii questa posizione scomoda ha retto fino ad oggi. Ma al 7 Ottobre sono seguiti 10 mesi di ininterrotta aggressione israeliana su Gaza via mare, via terra e dal cielo e 50.000 morti (compresi i 10.000 sotto le macerie), o forse molti di più: infatti, per la rivista medica britannica The Lancet, calcolando anche i morti per fame, per disidratazione, per le epidemie, per il non accesso alle cure, il numero più probabile di decessi si aggira intorno a 186.000. A tale abisso di devastazione umana e ambientale si aggiunge la pervicacia con cui il governo israeliano porta avanti la propria politica di guerra uccidendo d’un sol colpo il Capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh e il negoziato stesso. E lo fa violando nei cieli la sovranità dell’Iran dopo che la vigilia aveva violato quella del Libano per uccidere Fuad Choukr, comandante di Hezbollah.
In questo quadro interviene Bezalel Smotrich, ministro delle finanze del governo israeliano leader dell’estrema destra suprematista che dice: “affamare a morte due milioni di palestinesi è la cosa più morale da fare … portiamo aiuti perché non c’è scelta … Nessuno ci permetterebbe di causare la morte per fame di due milioni di civili, anche se sarebbe giustificato moralmente, fin quando i nostri ostaggi non torneranno a casa» (Il Manifesto, l6 Agosto 2024).
Viene in mente lo slogan “un baluardo di civiltà contro la barbarie” con il quale, all’inizio del secolo scorso, i sionisti presentavano il loro progetto di uno Stato ebraico in Palestina ai governi europei per ottenerne l’appoggio, un progetto genocidario in partenza dove il futuro era già tutto scritto e annunciato dallo slogan “una terra senza popolo per un popolo senza terra” e confermato a più riprese dalle parole dei dirigenti sionisti di allora; come se non bastassero, alla Conferenza di Versailles (1919), le carte della Palestina presentate dalla delegazione sionista portavano la scritta “Pasture land for nomads”, terra a pascolo per nomadi.
La prima pulizia etnica su grande scala fu la Nakba del 1948, la messa a ferro e a fuoco del territorio della Palestina, che l’Assemblea Generale dell’ONU aveva raccomandato di spartire, e la cacciata dei suoi abitanti verso sud, verso Gaza, città allora fiorente, crocevia della rotta mediterranea fra Alessandria d’Egitto e Alessandretta, oggi in Turchia. Una città tipicamente levantina dove le tre religioni monoteiste convivevano in armonia fra di loro e con gli abitanti degli 11 villaggi vicini. Nel 1948 arrivò Ben Gourion e diede ordine (Ordine numero 40 negli archivi israeliani da poco desecretati) al suo esercito di radere al suolo gli 11 villaggi e di cacciare gli abitanti verso una striscia di terra da lui appena recintata lungo il mare: la “Striscia di Gaza”.
Sulla terra bruciata degli 11 villaggi, lo Stato d’Israele costruì i kibbutz che la resistenza palestinese attaccò il 7 ottobre 2023. Con la complicità degli USA e dell’UE e il beneplacito della maggioranza degli israeliani, la risposta del governo Netanyahu è consistita nel genocidio in corso a Gaza per accelerare l’attuazione del progetto sionista di uno Stato ebraico in Palestina: “una terra senza popolo…” Sui social girano video agghiaccianti di giovani israeliani, soldatesse e soldati che ballano e cantano intorno alle loro vittime a terra.
Con ciò lo slogan “un baluardo di civiltà contro la barbarie” si è capovolto: i sionisti, complici gli europei, cercano di obliterare l’antica civiltà palestinese e levantina sostituendola con la loro barbarie contro il popolo palestinese, oggetto, da oltre un secolo, di invasioni straniere, di una brutale colonizzazione d’insediamento, di pulizia etnica, di una frammentazione estrema dentro e fuori il proprio territorio. Il tutto studiato in modo da far dimenticare la parola che li contraddistingue: “ Palestina”. I palestinesi d’Israele (oltre il 20% della popolazione) vengono chiamati “arabi d’Israele, drusi, beduini…). Nel suo Atlante della Palestina 1871-1877, lo storico e cartografo palestinese Salman Abu Sitta scrive che la lotta di liberazione del popolo palestinese è “ l’affermazione di ciò che continua a definire loro stessi e le generazioni future. Il legame collettivo con la loro terra, documentato qui con una forza dirompente, costituisce la fonte della loro legittimità nazionale e nessuno gliela potrà togliere, neppure con la morte, il diniego, la dispersione e l’occupazione.”
Civiltà e barbarie ci riguardano. Allora onoriamo lo spirito di resistenza della Striscia di Gaza e la lotta di liberazione del popolo palestinese.
*Attivista, traduttrice e scrittrice. Autrice, tra le altre opere, di “Autobiografia del novecento. Storia di una donna che ha attraversato la storia”, Il Saggiatore, 2018.
Aggressione a militante di Rifondazione davanti alla federazione di Roma
Questa mattina a Roma un sostenitore di Israele ha aggredito il nostro compagno Giovanni Barbera e ha infranto la vetrata della nostra federazione di Roma a Piazzale degli Eroi.
L’aggressore stava strappando manifesti di solidarietà con il popolo palestinese quando il compagno Barbera lo ha invitato a smetterla. Per risposta l’aggressore ha tentato di colpirlo con un manganello retrattile e con una bottiglia.
“Per fortuna non mi ha colpito con il manganello retrattile perchè sono indietreggiato nel tentativo di rifugiarmi all’interno della sede. Dopo mi ha colpito con due e tre calci sul pube” racconta Giovanni.
L’aggressore è stato fermato e identificato dai carabinieri.
L’aggressore portava la kippah e si direbbe quindi appartenente alla comunità ebraica. Questo ci amareggia perché ancora una volta si confermerebbe la deriva della comunità ebraica romana. L’identificazione con Israele, anche quando a guidarlo è l’estrema destra di Netanyahu, sta conducendo verso posizioni e comportamenti inaccettabili. Siamo solidali con la causa palestinese proprio per fedeltà ai principi democratici, internazionalisti e antifascisti che ci impongono di contrastare l’ antisemitismo.
Ci aspettiamo che i vertici della comunità ebraica condannino questa aggressione.
Al compagno Barbera, responsabile organizzazione della federazione di Roma e componente del Cpn, la solidarietà di tutto il partito e il ringraziamento per la determinazione con cui ha affrontato questo esaltato. (ma sarà un esaltato? o è l’inizio di un “new normal”? NdR)
Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista
Il Movimento di Resistenza Islamica – Hamas e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina a Gaza hanno tenuto un importante incontro bilaterale oggi, mercoledì 31 luglio 2024, nel mezzo della battaglia contro l’alluvione di Al-Aqsa e della guerra genocida che ha preso di mira il nostro popolo palestinese a Gaza, in Cisgiordania, Al-Quds, i territori occupati e la diaspora, nonché il maltrattamento dei prigionieri, la giudaizzazione di Al-Quds e Al-Aqsa e il furto di terre da parte degli insediamenti sionisti.
I partecipanti hanno pianto la perdita della Palestina e del grande leader nazionale della nazione, il martire Ismail Abdul Salam Haniyeh, capo dell’ufficio politico del Movimento di resistenza islamica – Hamas. Hanno affermato che il suo sangue puro non sarà sprecato e che il nemico sionista pagherà il prezzo dei suoi crimini e delle sue aggressioni. Il sangue del leader Haniyeh illuminerà il percorso verso la liberazione, il ritorno e l’indipendenza.
Il Fronte Popolare e Hamas hanno sottolineato quanto segue:
Estendiamo saluti, gratitudine e apprezzamento al nostro popolo palestinese in tutti i luoghi in cui è presente, in particolare al nostro popolo risoluto e in lotta a Gaza, e alla nostra coraggiosa resistenza ovunque esista e ovunque operi, che sta creando una leggenda nella resistenza e lottare con il suo sangue. Salutiamo anche i nostri giusti martiri, i nostri nobili feriti e i nostri prigionieri liberi. Affermiamo che la resistenza è un diritto legittimo, una scelta strategica e un viaggio continuo verso la liberazione, l’indipendenza e la fondazione dello Stato palestinese sull’intero suolo nazionale palestinese con Al-Quds come capitale.
Salutiamo la resistenza del nostro popolo nella Cisgiordania occupata e chiediamo al nostro popolo di fornire tutti i mezzi di protezione e sostegno ai nostri eroi della resistenza e di affrontare tutte le forme di persecuzione.
Fermare l’aggressione, proteggere il nostro popolo, il ritiro dell’occupazione da Gaza, rompere l’assedio e aprire i valichi sono priorità nazionali per il nostro popolo e la sua coraggiosa resistenza. Ciò che viene definito (il giorno dopo la guerra) è un giorno per il popolo palestinese, le sue forze vive e la sua resistenza. Qualsiasi tentativo di imporre progetti che tolgano il diritto del nostro popolo ad una decisione nazionale indipendente, indipendentemente dalla fonte, sarà affrontato proprio come affrontiamo l’occupazione sionista. Qualsiasi forza, indipendentemente dalla sua nazionalità, sarà considerata una forza occupante e condividerà lo stesso destino.
Chiediamo al nostro popolo nei territori occupati, in Cisgiordania e ad Al-Quds di intensificare lo scontro e la resistenza contro l’occupazione e di affrontare i suoi progetti criminali e le sue bande criminali.
La guerra genocida non ripristinerà il deterioramento dello status dell’occupazione o il suo potere deterrente, che si sta sgretolando sotto i piedi degli eroi della nostra valorosa resistenza.
Chiediamo al governo e alle sue agenzie specializzate di colpire con pugno di ferro chiunque osi diventare uno strumento dell’occupazione, intenzionalmente o meno. Chiediamo alle tribù e alle famiglie del nostro popolo di continuare a sostenere il governo e le agenzie di sicurezza nell’applicazione della legge, nel mantenimento dell’ordine pubblico e nel dissuadere coloro che sono indisciplinati e trasgressori.
La riforma e lo sviluppo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e del sistema politico palestinese rappresentano un interesse nazionale urgente su cui tutte le fazioni nazionali hanno concordato, più recentemente in Cina. Ciò garantisce la partecipazione di tutti i palestinesi e delle loro forze viventi, rendendola capace di realizzare le speranze e le aspirazioni del nostro popolo per la liberazione, la libertà e la creazione di uno stato palestinese indipendente con Al-Quds come capitale.
Chiediamo al nostro popolo, alla nostra nazione e ai popoli liberi del mondo di considerare il 3 agosto come una giornata globale di sostegno di massa per il nostro popolo e i nostri coraggiosi prigionieri.
Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina Movimento di resistenza islamica – Hamas Mercoledì 31 luglio 2024
luglio 14, 2024 in Dal mondo Edit Un’inchiesta di +972 sulle regole di ingaggio dell’esercito israeliano. Case incendiate inutilmente, civili uccisi, cadaveri lasciati agli animali
di Orev Ziv da il manifesto
All’inizio di giugno, Al Jazeera ha mandato in onda dei video inquietanti che rivelano quelle che ha descritto come «esecuzioni sommarie»: i soldati israeliani hanno sparato a diversi palestinesi che camminavano vicino alla strada costiera nella Striscia di Gaza, in tre diverse occasioni. In ogni caso, i palestinesi sembravano disarmati e non rappresentavano una minaccia imminente per i soldati. Questi filmati sono rari, a causa delle pesanti limitazioni a cui sono sottoposti i giornalisti dell’enclave assediata e del costante pericolo per le loro vite. Ma queste esecuzioni, che non sembrano essere motivate da questioni di sicurezza, sono coerenti con le testimonianze di sei soldati israeliani che hanno parlato con +972 Magazine e Local Call dopo il loro congedo dal servizio attivo a Gaza negli ultimi mesi. Confermando i racconti fatti da testimoni oculari e medici palestinesi durante tutta la guerra, i soldati hanno sostenuto di essere stati autorizzati ad aprire il fuoco sui palestinesi, compresi i civili, praticamente a piacimento.
Le sei fonti – tutte tranne una, che ha parlato a condizione di rimanere anonima – hanno raccontato come i soldati israeliani giustiziassero abitualmente i civili palestinesi semplicemente perché entravano in un’area che i militari definivano non accessibile. I testimoni raccontano di un paesaggio disseminato di cadaveri di civili, che vengono lasciati a marcire o ad essere mangiati da animali randagi; l’esercito si limita a nasconderli prima dell’arrivo dei convogli di aiuti internazionali, in modo che «le immagini di persone in avanzato stato di decomposizione non vengano fuori». Due dei soldati hanno anche riferito di una politica sistematica per cui le case palestinesi, dopo essere state occupate, vengono incendiate.
Diverse fonti hanno descritto la possibilità di sparare senza restrizioni come un modo per sfogarsi o alleviare il grigiore della loro routine quotidiana. «Le persone vogliono vivere l’evento», ha ricordato S., un riservista che ha prestato servizio nel nord di Gaza. «Personalmente ho sparato alcuni proiettili senza motivo, in mare, sul marciapiede o su un edificio abbandonato. Lo riportano come ‘fuoco normale’, che è un nome in codice per dire ‘mi annoio, quindi sparo’». Dagli anni ’80, l’esercito israeliano si è rifiutato di divulgare i propri regolamenti interni su quando è consentito aprire il fuoco, nonostante le varie petizioni presentate all’Alta Corte di Giustizia.
Secondo il sociologo politico Yagil Levy, dalla Seconda Intifada «l’esercito non ha fornito ai soldati regole di combattimento scritte», lasciandole molto all’interpretazione dei soldati sul campo e dei loro comandanti. Oltre a contribuire all’uccisione di oltre 38.000 palestinesi, le fonti hanno testimoniato che queste direttive lassiste sono anche in parte responsabili dell’alto numero di soldati uccisi dal fuoco amico negli ultimi mesi. «C’era totale libertà di azione», ha detto B., un altro soldato che ha prestato servizio i a Gaza per mesi, anche nel centro di comando del suo battaglione. «Se c’è una sensazione di minaccia, non c’è bisogno di spiegare – si spara e basta». Quando i soldati vedono qualcuno avvicinarsi, «è lecito sparare» alla persona in questione , «non in aria», ha continuato B. «È lecito sparare a tutti; a una ragazza giovane, a una donna anziana». B. ha poi descritto un incidente avvenuto a novembre, quando i soldati hanno ucciso diversi civili durante l’evacuazione di una scuola vicino al quartiere Zeitoun di Gaza City, che era servita come rifugio per i palestinesi sfollati. L’esercito aveva ordinato agli sfollati di uscire a sinistra, verso il mare, anziché a destra, dove erano appostati i soldati. Quando è scoppiato uno scontro a fuoco all’interno della scuola, coloro che hanno deviato dalla parte sbagliata sono stati immediatamente colpiti.
«C’erano informazioni sul fatto che Hamas volesse creare il panico», ha detto B. «È iniziata una battaglia all’interno; la gente è scappata. Alcuni sono fuggiti a sinistra verso il mare, ma altri sono scappati a destra, bambini compresi. Tutti quelli che andavano a destra sono stati uccisi: 15-20 persone. C’era un mucchio di corpi». B. ha affermato che a Gaza è difficile distinguere i civili dai combattenti, sostenendo che i membri di Hamas spesso «vanno in giro senza armi». Di conseguenza, «ogni uomo tra i 16 e i 50 anni è sospettato di essere un terrorista». «È vietato andare in giro e chiunque si trovi all’aperto è sospettato», continua. «Se vediamo qualcuno alla finestra che ci guarda, è un sospetto. Si spara. La percezione è che qualsiasi contatto con la popolazione metta in pericolo l’esercito, e bisogna creare una situazione in cui è vietato avvicinarsi in qualsiasi circostanza. Hanno imparato che quando entriamo, devono scappare».
Anche in aree apparentemente non popolate o abbandonate di Gaza, i soldati hanno aperto il fuoco in una procedura nota come «dimostrazione di presenza». S. ha testimoniato che i suoi commilitoni «sparavano molto, anche senza motivo – chiunque voglia sparare, non importa per quale motivo, spara». M., un altro riservista che ha prestato servizio nella Striscia di Gaza, ha spiegato che tali ordini provengono direttamente dai comandanti della compagnia o del battaglione sul campo. «Quando non ci sono ufficiali dell’Idf le sparatorie sono senza limiti, come impazzite. E non solo armi leggere: mitragliatrici, carri armati e mortai». Anche in assenza di ordini dall’alto, M. ha testimoniato che i soldati sul campo si fanno regolarmente giustizia da soli. «Soldati regolari, ufficiali minori, comandanti di battaglione – i ranghi minori che vogliono sparare, ottengono il permesso». S. ha ricordato di aver sentito alla radio di un soldato stanziato in un recinto di protezione che ha sparato a una famiglia palestinese che passeggiava nelle vicinanze. «All’inizio dicono ‘quattro persone’. Poi si dice ‘due bambini più due adulti’ e alla fine si dice ‘un uomo, una donna e due bambini’. Puoi comporre l’immagine da solo».
Solo uno dei soldati intervistati per questa inchiesta ha voluto essere identificato: Yuval Green, un riservista di 26 anni di Gerusalemme che ha prestato servizio nella 55ª Brigata paracadutisti nel novembre e dicembre dello scorso anno (Green ha recentemente firmato una lettera di 41 riservisti che dichiarano il loro rifiuto a continuare a prestare servizio a Gaza in seguito all’invasione dell’esercito a Rafah). «Non c’erano restrizioni sulle munizioni», ha detto Green a +972 e Local Call. «La gente sparava solo per alleviare la noia». Green ha descritto un incidente avvenuto una notte durante la festa ebraica di Hanukkah, a dicembre, quando «l’intero battaglione ha aperto il fuoco insieme come fuochi d’artificio, comprese le munizioni traccianti che generano una luce intensa. Ha fatto un colore pazzesco, illuminando il cielo, e poiché è la ‘festa delle luci’, è diventato simbolico».
C., un altro soldato che ha prestato servizio a Gaza, ha spiegato che, quando i soldati sentivano degli spari, si informavano via radio per capire se ci fosse un’altra unità militare israeliana nella zona, e in caso contrario aprivano il fuoco. «La gente sparava a piacimento, con tutte le sue forze». Ma, come ha sottolineato C., sparare senza restrizioni significava esporre spesso i soldati all’enorme rischio del fuoco amico, che ha descritto come «più pericoloso di Hamas». «In diverse occasioni, le forze delle Idf hanno sparato nella nostra direzione. Non abbiamo risposto, abbiamo controllato alla radio e nessuno è rimasto ferito».
Al momento della stesura di quest’articolo, 324 soldati israeliani sono stati uccisi a Gaza dall’inizio dell’invasione di terra, almeno 28 di loro da fuoco amico afferma l’esercito. Secondo l’esperienza di Green, questi incidenti erano «il problema principale» che metteva in pericolo la vita dei soldati. «C’era un bel po’ di fuoco amico; mi faceva impazzire», ha detto. Per Green, le regole di combattimento dimostravano anche una profonda indifferenza per la sorte degli ostaggi. «Mi hanno parlato della pratica di far esplodere i tunnel e ho pensato che se ci fossero stati degli ostaggi, li avrebbero uccisi». Dopo che i soldati israeliani hanno ucciso tre ostaggi a Shuja’iyya a dicembre, mentre sventolavano bandiere bianche, pensando che fossero palestinesi, Green ha raccontato di essersi arrabbiato, ma gli è stato detto che «non c’è niente da fare». I comandanti hanno affinato le procedure, dicendo: «Dovete prestare attenzione ed essere sensibili, ma siamo in una zona di combattimento e dobbiamo essere vigili”». B. ha confermato che anche dopo l’incidente di Shuja’iyya, che è stato definito come «contrario agli ordini» dell’esercito, le norme per aprire il fuoco non sono cambiate. «Per quanto riguarda gli ostaggi, non avevamo una direttiva specifica», ha ricordato. «I vertici dell’esercito hanno detto che dopo l’ uccisione degli ostaggi hanno informato i soldati sul campo. Non hanno parlato con noi». B. e i soldati che erano con lui hanno saputo dell’uccisione degli ostaggi solo due settimane e mezzo dopo l’incidente, dopo aver lasciato Gaza. «Ho sentito dire da altri soldati che gli ostaggi sono morti, che non hanno alcuna possibilità, che devono essere abbandonati», ha osservato Green. «Mi ha dato molto fastidio… il fatto che continuassero a dire: ’Siamo qui per gli ostaggi’, ma è chiaro che la guerra li danneggia. Questo era il mio pensiero allora; oggi si è rivelato vero».
A., un ufficiale che ha servito nella Direzione delle Operazioni dell’esercito, ha testimoniato che la sala operativa della sua brigata – che coordina i combattimenti dall’esterno di Gaza, approvando gli obiettivi e prevenendo il fuoco amico – non ha ricevuto ordini chiari su quando aprire il fuoco da trasmettere ai soldati sul campo. «Non ci sono mai briefing», ha detto. «Non abbiamo ricevuto istruzioni dai piani alti da trasmettere ai soldati e ai comandanti di battaglione». Ha sottolineato che la direttiva era di non sparare lungo le vie umanitarie, ma altrove «si riempiono le lacune, in assenza di altre istruzioni». Questo è l’approccio: «Se è vietato lì, allora è permesso qui».
A. ha spiegato che sparare a «ospedali, cliniche, scuole, istituzioni religiose, edifici di organizzazioni internazionali» richiede un’autorizzazione superiore. Ma in pratica, «posso contare sulle dita di una mano i casi in cui ci è stato detto di non sparare. Anche per cose delicate come le scuole, l’approvazione sembra solo una formalità». In generale, ha proseguito A., «lo spirito nella sala operativa era ’Prima spara, poi fai domande’. Nessuno verserà una lacrima se distruggiamo una casa o spariamo a qualcuno inutilmente».
A. ha dichiarato di essere a conoscenza di casi in cui i soldati israeliani hanno sparato a civili palestinesi che erano entrati nella loro area operativa, coerentemente con un’inchiesta di Haaretz sulle «zone di uccisione» nelle aree di Gaza occupate dall’esercito. «Questa è la norma. Nessun civile dovrebbe trovarsi nell’area, questa è la prospettiva. Abbiamo visto qualcuno alla finestra, così hanno sparato e lo hanno ucciso». A. ha aggiunto che spesso non era chiaro dai rapporti se i soldati avessero sparato a militanti o a civili disarmati. Ma questa ambiguità sull’identità delle vittime ha fatto sì che, per A., non ci si potesse fidare dei rapporti militari sul numero di membri di Hamas uccisi. «La sensazione nella stanza della guerra, e questa è una versione attenuata, era che ogni persona uccisa veniva contata come terrorista». «L’obiettivo era contare quanti ne avevamo uccisi oggi», ha continuato A. «La percezione era che tutti gli uomini fossero terroristi. A volte un comandante chiedeva improvvisamente dei numeri, e allora l’ufficiale di divisione correva da una brigata all’altra a scorrere l’elenco nel sistema informatico militare e a contare». La testimonianza di A. è coerente con un recente rapporto della testata israeliana Mako, che parla di un attacco di droni da parte di una brigata responsabile della morte di palestinesi nell’area di operazione di un’altra brigata. Gli ufficiali di entrambe le brigate si sono consultati su quale dovesse registrare gli omicidi. «Che differenza fa? Registralo per entrambi», avrebbe detto uno di loro all’altro.
Nelle prime settimane dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, ha ricordato A., «la gente si sentiva molto in colpa per il fatto che ciò fosse accaduto sotto la nostra sorveglianza», un sentimento condiviso dall’opinione pubblica israeliana in generale – e rapidamente trasformato in desiderio di punizione. «Non c’era un ordine diretto di vendicarsi», ha detto A., «ma quando si arriva a dei nodi decisionali, le istruzioni, gli ordini e i protocolli relativi a casi “sensibili” hanno un’influenza relativa». Quando i droni trasmettevano in diretta i filmati degli attacchi a Gaza, «nella stanza della guerra c’era esultanza», ha raccontato A. «Ogni tanto viene giù un edificio… e la sensazione è: ‘Wow, che follia, che divertimento’».
A. ha sottolineato l’ironia del fatto che parte di ciò che ha motivato le richieste di vendetta degli israeliani fosse la convinzione che i palestinesi di Gaza abbiano gioito della morte e della distruzione del 7 ottobre. Per giustificare l’abbandono della distinzione tra civili e combattenti, si ricorreva ad affermazioni come «Hanno distribuito dolci», «Hanno ballato dopo il 7 ottobre» o «Hanno eletto Hamas». «Non tutti, ma tanti , pensavano che il bambino di oggi sarà il terrorista di domani». «Anch’io, un soldato piuttosto di sinistra, dimentico molto rapidamente che queste sono vere case », ha detto A. della sua esperienza in sala operativa. «Sembrava un gioco al computer. Solo dopo due settimane ho capito che si trattava di edifici che stavano crollando: se c’erano abitanti: se c’erano abitanti significava che gli edifici stavano crollando sulle loro teste. Anche se non erano presenti, crollavano con tutto quello che c’era dentro».
Diversi soldati hanno testimoniato che la politica permissiva rispetto a quando aprire il fuoco ha concesso alle unità israeliane di uccidere civili palestinesi anche quando erano stati precedentemente identificati come tali. D., un riservista, ha raccontato che la sua brigata era stanziata vicino a due corridoi di transito – cosiddetti «umanitari» -, uno per le organizzazioni umanitarie e uno per i civili in fuga dal nord al sud della Striscia. All’interno dell’area di operazione della sua brigata, è stata istituita una politica di «linea rossa, linea verde», delineando zone in cui era vietato l’accesso ai civili. Secondo D., le organizzazioni umanitarie potevano entrare in queste zone previo coordinamento (la nostra intervista è stata condotta prima che una serie di attacchi di precisione israeliani uccidesse sette dipendenti della World Central Kitchen), ma per i palestinesi era diverso. «Chiunque attraversasse l’area verde diventava un potenziale bersaglio», ha detto D., sostenendo che queste aree erano segnalate ai civili. «Se attraversano la linea rossa, lo si segnala alla radio e non c’è bisogno di aspettare il permesso, si può sparare». D. ha raccontato che spesso i civili si recavano nelle aree in cui passavano i convogli di aiuti per cercare i rottami che potevano cadere dai camion; ciononostante, la politica era quella di sparare a chiunque tentasse di entrare. «I civili sono chiaramente rifugiati, sono disperati, non hanno nulla», ha detto. Eppure, nei primi mesi di guerra, «ogni giorno si verificavano due o tre incidenti con persone innocenti o sospettate di essere state mandate da Hamas come osservatori», a cui i soldati del suo battaglione sparavano.
I soldati hanno testimoniato che in tutta Gaza i cadaveri di palestinesi in abiti civili sono rimasti sparsi lungo le strade e i campi. «L’intera area era piena di corpi», ha detto S., un riservista. «Ci sono anche cani, mucche e cavalli che sono sopravvissuti ai bombardamenti e non hanno un posto dove andare. Non possiamo dar loro da mangiare e non vogliamo nemmeno che si avvicinino troppo. Così, di tanto in tanto si vedono cani che vanno in giro con parti del corpo in decomposizione. C’è un orribile odore di morte». Ma prima dell’arrivo dei convogli umanitari, ha osservato S., i corpi vengono rimossi. “Un D-9 (bulldozer Caterpillar) scende, con un carro armato, e ripulisce l’area dai cadaveri, li seppellisce sotto le macerie e li mette da parte in modo che i convogli non li vedano», ha affermato. «Ho visto molti civili – famiglie, donne, bambini”, ha continuato. «Le vittime sono più numerose di quelle riportate. Eravamo in una piccola area. Ogni giorno, almeno uno o due vengono uccisi mentre camminano in una zona vietata. Non so chi sia un terrorista e chi no, ma la maggior parte di loro non portava armi».
Green ha raccontato che quando è arrivato a Khan Younis, alla fine di dicembre, «abbiamo visto una massa indistinta fuori da una casa. Abbiamo capito che era un corpo; abbiamo visto una gamba. Di notte, i gatti l’hanno mangiato. Poi qualcuno è venuto a spostarlo». Anche una fonte non militare che ha parlato con +972 e Local Call dopo aver visitato il nord di Gaza ha riferito di aver visto corpi sparsi nella zona. «Vicino al complesso dell’esercito tra la Striscia di Gaza settentrionale e quella meridionale, abbiamo visto circa 10 corpi colpiti alla testa, apparentemente da un cecchino, evidentemente mentre cercavano di tornare a nord», ha detto. «I corpi erano in decomposizione; c’erano cani e gatti intorno a loro». «Non si occupano dei corpi», ha detto B. parlando dei soldati israeliani a Gaza. «Se sono d’intralcio, vengono spostati di lato. Non c’è sepoltura dei morti. I soldati calpestano i cadaveri per errore».
Il mese scorso, Guy Zaken, un soldato che ha manovrato i bulldozer D-9 a Gaza, ha testimoniato davanti a una commissione della Knesset che lui e la sua squadra «hanno investito centinaia di terroristi, vivi e morti». Un altro soldato con cui ha prestato servizio si è poi suicidato. Due dei soldati intervistati per questo articolo hanno anche descritto come dare fuoco alle case palestinesi sia diventata una pratica comune tra i soldati israeliani, come ha riportato per la prima volta in modo approfondito Haaretz a gennaio. Green è stato testimone di due di questi casi – il primo per iniziativa indipendente di un soldato, il secondo per ordine dei comandanti – e la sua frustrazione per questa pratica è parte di ciò che lo ha portato a rifiutare il servizio militare. Quando i soldati occupavano le case, ha testimoniato, la politica era «se ti sposti, devi bruciare la casa». Ma per Green questo non aveva senso: in «nessuno scenario» il centro del campo profughi poteva far parte di una zona di sicurezza israeliana che potesse giustificare una tale distruzione. «Siamo in queste case non perché appartengono ad agenti di Hamas, ma perché ci servono dal punto di vista operativo», ha osservato. «È una casa di due o tre famiglie – distruggerla significa che resteranno senza casa».
«Ho chiesto al comandante della compagnia, che mi ha risposto che non si poteva lasciare alcun equipaggiamento militare e che non volevamo che il nemico vedesse i nostri metodi di combattimento», ha continuato Green. «Ho detto che avrei fatto una ricerca per assicurarmi che non restassero prove. Il comandante della compagnia mi ha dato spiegazioni sul mondo della vendetta. Disse che le stavano bruciando perché non c’erano D-9 o Ied di un corpo di ingegneria che avrebbe potuto distruggere la casa con altri mezzi. Ha ricevuto un ordine e non si è preoccupato».
«Prima di partire, si brucia la casa, ogni casa», ha ribadito B. «Lo sostiene il comandante di battaglione. È per evitare che possano tornare, e, se abbiamo lasciato munizioni o cibo, i terroristi non potranno usarli». Prima di andarsene, i soldati ammassavano materassi, mobili e coperte, e «con un po’ di carburante o di bombole di gas – ha osservato B. – la casa brucia facilmente, è come una fornace». All’inizio dell’invasione di terra, la sua compagnia occupava le case per alcuni giorni e poi si spostava; secondo B., «hanno bruciato centinaia di abitazioni. Ci sono stati casi in cui i soldati hanno dato fuoco a un piano e altri soldati si trovavano a un piano superiore e sono dovuti fuggire attraverso le fiamme sulle scale o soffocati dal fumo». Green ha detto che la distruzione lasciata dall’esercito a Gaza è «inimmaginabile». All’inizio dei combattimenti, ha raccontato, avanzavano tra le case a 50 metri l’una dall’altra, e molti soldati «trattavano le case come negozi di souvenir», saccheggiando tutto ciò che i residenti non erano riusciti a portare con sé. «Alla fine si muore di noia, giorni di attesa», ha detto Green. «Si disegna sui muri, si fanno cose maleducate. Si gioca con i vestiti, si trovano le foto dei passaporti che hanno lasciato, si appende la foto di qualcuno perché è divertente. Abbiamo usato tutto quello che abbiamo trovato: materassi, cibo, uno ha trovato una banconota da 100 Nis (circa 27 dollari) e l’ha presa». «Abbiamo distrutto tutto quello che volevamo», ha testimoniato. «Non per il desiderio di distruggere, ma per la totale indifferenza verso tutto ciò che appartiene ai palestinesi. Ogni giorno, un D-9 demolisce case. Non ho scattato foto prima e dopo, ma non dimenticherò mai come un quartiere che era davvero bello… sia stato ridotto in sabbia».
Il portavoce delle Idf ha risposto alla nostra richiesta di commento con la seguente dichiarazione: «Le istruzioni per aprire il fuoco sono state date a tutti i soldati delle Idf che combattono nella Striscia e ai confini al momento dell’entrata in combattimento. Queste istruzioni riflettono il diritto internazionale a cui le Idf sono vincolate. Sono regolarmente riviste e aggiornate alla luce della mutevole situazione operativa e di intelligence, e approvate dai più alti ufficiali dell’esercito». «L’esercito indaga sulle proprie attività e trae lezioni dagli eventi sul campo, compresa la tragica uccisione accidentale di Yotam Haim, Alon Shamriz e Samer Talalka. Le lezioni apprese dalle indagini sull’incidente sono state trasferite alle forze di combattimento sul campo, al fine di prevenire il ripetersi di questo tipo di incidenti in futuro». «Nell’ambito della distruzione delle capacità militari di Hamas, sorge la necessità operativa, tra l’altro, di distruggere o attaccare gli edifici in cui l’organizzazione terroristica colloca le infrastrutture di combattimento. Questo include anche gli edifici che Hamas ha regolarmente convertito per i combattimenti. Nel frattempo, Hamas fa sistematicamente uso militare di edifici pubblici che dovrebbero essere utilizzati per scopi civili. Gli ordini dell’esercito regolano il processo di approvazione, in modo che il danneggiamento di siti sensibili debba essere approvato da comandanti di alto livello che tengano conto dell’impatto del danno alla struttura sulla popolazione civile, e questo a fronte della necessità militare di attaccare o demolire la struttura. Il processo decisionale di questi comandanti superiori avviene in modo ordinato ed equilibrato. L’incendio di edifici non necessari a scopi operativi è contrario agli ordini dell’esercito e ai valori delle Idf». «Nel contesto dei combattimenti e in base agli ordini dell’esercito, è possibile utilizzare proprietà nemiche per scopi militari essenziali, così come prendere proprietà delle organizzazioni terroristiche come bottino di guerra. Allo stesso tempo, il prelievo di proprietà per scopi privati costituisce un saccheggio ed è vietato dalla Legge sulla giurisdizione militare. Gli incidenti in cui le forze armate hanno agito in modo non conforme agli ordini e alla legge saranno oggetto di indagini».
L’occupazione intensifica la sua aggressione contro Gaza City e bombarda i civili utilizzando armi americane proibite a livello internazionale, e non raccoglierà altro che vergogna e sconfitta.
Gaza City è testimone di una serie di continui attacchi aerei e cinture di fuoco “israeliani”, i più intensi degli ultimi mesi. Questi attacchi mirano a spianare la strada ai veicoli “israeliani” per tentare di entrare nelle aree della città, in particolare nei quartieri di Al-Daraj e Al-Tuffah, che non erano riusciti a prendere d’assalto nelle precedenti invasioni.
L’obiettivo principale dell’occupazione è continuare la distruzione sistematica e uccidere il maggior numero possibile di civili disarmati, creando ulteriori crisi umanitarie dopo aver chiesto a migliaia di civili di evacuare le loro case e fuggire sotto il fuoco dell’artiglieria pesante, dovendo dormire per terra e per strada senza poter portare via nulla dalle loro case.
L’occupazione continua ad assediare le aree di Tal Al-Hawa e Al-Rimal, mentre le famiglie sono intrappolate attorno alle università e alle rotonde industriali, utilizzando tutti i tipi di armi di fabbricazione americana proibite a livello internazionale contro il nostro popolo nella Striscia nel disperato tentativo di imporre la sua volontà e raggiungere i suoi obiettivi aggressivi.
L’unica cosa rimasta a questo nemico fascista è usare armi nucleari, rivelando la portata della sua brutalità e disponibilità a oltrepassare tutte le linee rosse e a violare tutte le leggi e norme internazionali senza responsabilità.
Questa escalation sionista mira anche a fare pressione sulla resistenza affinché ammorbidisca la sua posizione nei negoziati. È un metodo vile e codardo che si basa sul prendere di mira e uccidere i civili e distruggere le loro case come mezzo di ricatto; tuttavia, la resistenza è pienamente consapevole di questi tentativi sionisti, determinata a soddisfare tutte le sue richieste, ad affrontare la nuova escalation sionista e a contrastare i suoi obiettivi dannosi, avendo in mano le carte della pressione e della forza per raggiungere questo obiettivo.
Da questi crimini il nemico sionista non raccoglierà altro che vergogna e sconfitta; il nostro popolo e la resistenza hanno dimostrato la loro capacità di resistere e sfidare un’aggressione brutale e codarda, e questa nuova aggressione a Gaza City senza dubbio fallirà, con l’occupazione che uscirà sconfitta e umiliata dopo aver ricevuto colpi significativi dalla resistenza.
Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina Dipartimento centrale dei media 8 luglio 2024
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